Nasceranno ancora vocazioni nella parrocchia del terzo millennio?
Saluto
Sono contento di essere con voi per parlare della parrocchia e delle vocazioni: per questo ringrazio Mons. Luca Bonari, che mi ha invitato a riprendere un vecchio e mai abbandonato amore! E subito aggiungo un affettuosissimo saluto a S. E. Mons. Italo Castellani che ritrovo… senza aver mai smarrito! E con lui ritrovo tanti amici del CNV ai quali desidero esprimere stima e gratitudine per quello che sono; e per quello che fanno come conseguenza di quello che sono! Non si può, infatti, servire la pastorale vocazionale se non si ama la propria vocazione. E trovare persone che amano la propria vocazione… è un rifornimento di speranza e di consolazione: e, sia chiaro una volta per sempre, amare la propria vocazione è il presupposto di ogni efficace pastorale vocazionale, al punto tale che Madre Teresa, con la lucidità che le era propria, un giorno disse: “Chi non ama la propria vocazione decide, più o meno consapevolmente, la sterilità vocazionale”, “Non ho una pastorale vocazionale; o, se volete, questa è la mia pastorale vocazionale: offrire vocazioni che attirano alla vocazione”.
Con lo sguardo della fede
Faccio una premessa ovvia: desidero parlare da uomo di fede e desidero leggere il problema vocazionale alla luce della fede. Non stupitevi per questa affermazione, perché non è sempre facile far prevalere la fede sugli spazi di non-fede che tutti ci portiamo dentro, talvolta inconsapevolmente. Invochiamo insieme lo Spirito Santo che è il grande suggeritore della Chiesa e l’artefice della sua fedeltà: anche in questo momento.
Parto dal vangelo, perché per un credente è doveroso partire dal vangelo: sempre! Ebbene, nel Vangelo secondo Matteo cinque volte Gesù rimprovera i discepoli per la loro oligopistìa (Mt 6,30; 8,26; 14,31; 16,8; 17,20). Significativo è il rimprovero indirizzato agli Apostoli durante la tempesta sul lago, in un momento fortemente evocativo del loro futuro e del futuro di tutta la Chiesa: “Perché avete paura, uomini di poca fede?”. E impressionante è anche il rimprovero rivolto a Pietro, mentre sta affondando nelle acque del lago proprio a motivo della sua pochezza di fede: “Uomo di poca fede – oligopiste! – perché hai dubitato?”.
Non solo. Matteo, nel finale del capitolo 28, sottolinea che nel momento solenne del mandato missionario “alcuni dubitavano” (Mt 28,17). Matteo avrebbe potuto fare a meno di riferire questo particolare: il racconto sarebbe stato più edificante. Perché, allora, Matteo si è sentito in dovere di sottolineare la mancanza di fede nello stesso istante in cui Gesù affida alla Chiesa il compito grandioso di evangelizzare il mondo? Evidentemente per ricordarci che la fede in Gesù è la forza della Chiesa; ma anche per avvisarci che la non-fede è il rischio costante dei figli della Chiesa. Non dimentichiamolo!
Cerchiamo, allora, di leggere il problema della parrocchia e, al suo interno, il problema delle vocazioni… nella luce di fede: per esorcizzare paure non evangeliche (deve farci paura più la pochezza di fede che la pochezza di vocazioni! Basta leggere, per convincersene, l’episodio di Gedeone raccontato nel capitolo settimo del libro dei Giudici. Dio, riferisce la Bibbia, riduce il numero dei combattenti da trentaduemila a trecento, adducendo questa significativa spiegazione: “La gente che è con te è troppo numerosa, perché io metta Madian nelle sue mani; Israele potrebbe vantarsi davanti a me e dire: la mia mano mi ha salvato”) e per cercare soluzioni ai problemi della Chiesa (compreso quello vocazionale) nella luce della fede. D’altra parte è la fede in Gesù, e soltanto la fede in Gesù, che può aiutarci a capire la missione della parrocchia e le condizioni che la rendono grembo fecondo di vocazioni.
La parrocchia
Che cos’ è la parrocchia nella luce della fede? Ecco subito una bella definizione che viene dal cuore di don Primo Mazzolari ed è stata ripresa dal Papa Giovanni Paolo II nella Christifideles laici: “La parrocchia è la Chiesa che vive tra le case degli uomini: è la Chiesa che mette casa tra le case degli uomini”. Bellissima e densa definizione. Ma… che cos’è la Chiesa? È il popolo che ha incontrato Gesù Cristo e, per questo motivo, è diventato popolo, cioè Corpus Christi! E, incontrando Gesù Cristo, questo popolo scopre l’affascinante volto di Dio-Amore diventando così umanità nuova in mezzo al mondo invecchiato dal peccato. E, mentre vive questo stupendo mistero, il popolo credente sa che il più bello deve ancora venire: e allora aspetta il ritorno di Gesù, che porterà a compimento la salvezza con “i cieli nuovi e la terra nuova” (2Pt 2,13).
Dentro questo popolo credente sbocciano e possono sbocciare le molteplici vocazioni ecclesiali: perché le vocazioni sono frutto della fede; e sono vere vocazioni soltanto se nascono dalla fede. Sottolineo: è il popolo credente che diventa fecondo di vocazioni, perché il popolo credente è un popolo che ascolta il Signore e pensa la vita ascoltando il Signore. A questo punto pongo una domanda, alla quale vi prego di non dare immediatamente una risposta scontata. Ecco la domanda: siamo consapevoli che è la fede in Gesù che fa la parrocchia ed è la fede in Gesù lo scopo di tutta l’attività della parrocchia? Esiste una parrocchia nella misura in cui, in un determinato luogo, una comunità è presenza e visibilità dell’unico popolo credente in Gesù. Quando l’apostolo Pietro prese la parola il giorno di Pentecoste, disse senza mezze misure la fede della Chiesa: “Uomini d’Israele, ascoltate queste parole: Gesù di Nazareth… voi l’avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l’avete ucciso. Ma Dio [=il Padre] lo ha risuscitato. Sappia dunque con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso” (At 2,22-24.36).
E, dopo la guarigione dello storpio davanti alla porta del Tempio, Pietro ancora una volta dice la fede della Chiesa: “La cosa sia nota a tutti voi e a tutto il popolo d’Israele: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi sano e salvo. Questo Gesù è ‘la pietra che, scartata dai costruttori, è diventata testata d’angolo’ (Sal 118). In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At 4,10-12).
Pietro non ha altro da dire e non ha altro da annunciare: lo scopo della sua vita è annunciare Gesù. E questo è lo scopo della Chiesa e, di conseguenza, è lo scopo della parrocchia, che è la “Catholica Ecclesia” presente in un determinato territorio. La parrocchia deve recuperare la consapevolezza di questa identità e della conseguente sua missione: spesso manca chiarezza proprio a questo livello fondamentale e decisivo! Oggi, è bene ricordarlo, la parrocchia, a motivo della maturazione della società civile, sta perdendo tanti ruoli di supplenza (sociali e culturali). Non piangiamo per questo, ma cogliamo l’occasione propizia per rimettere la fede al centro dell’identità e della missione della parrocchia.
Il Card. W. Kasper, quando era vescovo di Stoccarda, scrisse: “Forse questo ci è successo negli anni del Concilio e del dopo-Concilio: mentre discutevamo su modi nuovi e più efficaci di presentare la fede, mentre ci arrovellavamo per incarnarla al meglio nel mondo moderno, è proprio quella fede stessa che perdevamo di vista. Forse, la fede ci abbandonava mentre costruivamo complesse e raffinate metodologie per ripresentarla, mentre ci dilaniavamo per darne una lettura conservatrice o progressista. Oggi non è in questione solo il modo di trasmettere la fede, ma la fede stessa. Non soltanto il ‘come’ della mediazione, ma anche il ‘che cosa’ ed il ‘perché’ della fede. Se non fossimo, spesso segretamente, insidiati dal dubbio, forse non ci preoccuperemmo tanto, così come abbiamo fatto in questi anni, di come trasmettere la fede”.
È vero! Tutto questo è accaduto e può accadere ancora, esponendo la comunità cristiana al rischio di diventare sale insipido, che “a null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini” (Mt 5,13). E dal sale insipido non può uscire il sapore di una vocazione! Però – anche questo sia ben chiaro -, quando la fede languisce, il problema non si risolve gettandosi in un frenetico attivismo, perché, in questo caso, ci appartiene il rimprovero che Gesù rivolge alla Chiesa di Sardi: “Conosco le tue opere: ti si crede vivo e invece sei morto” (Ap 3,1). La pochezza di fede si cura soltanto con più fede!
Don Divo Barsotti alcuni anni fa provocatoriamente disse: “Oggi la cosa più urgente è rimettere Cristo al centro del cristianesimo”. È una provocazione, ma e ‘ è del vero: e vale in modo particolare per la parrocchia. Continua don Divo Barsotti: “Cristo, spesso, è marginale in tanto apostolato d’oggi; Egli è diventato soltanto un pretesto per parlare d’altro e per condurre ad altri e per servire altri”. Costantemente allora dobbiamo chiederci: questo… e questo… e questo… serve a far crescere la fede della comunità cristiana? Me lo devo chiedere anche quando faccio la spesa, anche quando indosso un vestito, anche quando compro la macchina, anche quando adopero un linguaggio, anche quando organizzo un viaggio! E lo stesso discorso vale per tutta l’attività della parrocchia.
Cos’è la parrocchia senza la fede? Significativa è la testimonianza di un agnostico parigino, direttore di un teatro, al quale venne domandato in pieno ‘68 che cosa pensasse delle contestazioni che stavano affiorando anche nella Chiesa. Egli disse: “Se si tratta di un largo movimento che permette alla Chiesa di voler ritrovare la sua vera funzione, ossia che vuole ridar priorità alla gente che vede, ai mistici, la cosa mi sembra interessante e importante. Non è togliendo la veste talare o sposandosi che si giungerà a risolvere i problemi della fede. Se si tratta di un salto in avanti, se il prete si libera dei suoi incarichi di patronato… per dirsi: ‘Sono un uomo di Dio e devo testimoniarlo’, allora il fatto mi interessa. In altri termini, se si tratta di un’avventura mistica, trovo la cosa appassionante. Se si tratta di un’avventura sociale secondo il gusto del tempo, la cosa mi da noia: trovo che si tratta di un regresso”. Oggi la gente può trovare tutto altrove: la fede in Gesù può trovarla soltanto da noi. Ne siamo consapevoli? E ne tiriamo tutte le conseguenze?
Popolo che ascolta la Parola
Veniamo, allora, alla domanda decisiva: cos’è che genera la fede nella parrocchia e, generando la fede, rende la parrocchia “madre feconda di vocazioni”? La parrocchia – non stanchiamoci mai di ripeterlo – è l’Ecclesia una, santa, cattolica e apostolica presente e visibile in un determinato territorio. Ma l’Ecclesia (=convocazione!) è il popolo convocato dalla Parola di Dio e continuamente generato dall’ascolto della Parola di Dio. Gli Apostoli, nel momento in cui l’apostolato cominciava a diventare più complesso e più articolato, presero una decisione esemplare e dissero: “Non è giusto che noi trascuriamo la Parola di Dio per il servizio delle mense. Cercate, dunque, fratelli, tra di voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di saggezza, ai quali affideremo questo incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola (διακουία τον λόγον)” (At 6,2-4).
Oggi, molto spesso, accade il contrario. Nella parrocchia la proposta della Parola di Dio è debole, non preparata con diligenza, non preceduta e non accompagnata dalla preghiera: di conseguenza l’ascolto della Parola di Dio non è sentito come un fatto decisivo, vitale, insostituibile.
Andrej Siniavskij ha raccontato un’esperienza significativa, fatta durante il tempo di detenzione in un lager sovietico. Egli scrive: “Non molto tempo dopo il mio arrivo nel lager, verso sera, un’ora prima della ritirata, mi si avvicinò un tale e mi chiese con cautela se non volessi ascoltare l’Apocalisse. Mi condusse nel locale della caldaia, dove era più facile nascondersi a delatori e carcerieri. Lì, nella penombra di quel covile simile a una caverna si erano già raccolte, e si rimpiattavano negli angoli sedendo sui talloni, alcune persone e io pensai che ora qualcuno avrebbe estratto da sotto il giubbotto il libro o il fascio di fogli, ma mi sbagliavo. Illuminato dai bagliori rossastri della caldaia un uomo si alzò e cominciò a recitare a memoria, parola per parola, l’Apocalisse. Quindi il fuochista, l’anziano contadino che qui era il padrone di casa, disse: e adesso continua tu, Fjodor! E Fjodor si alzò e recitò a memoria il capitolo successivo. Poi ci fu un salto nel testo, perché colui che sapeva la continuazione era a lavorare con il turno di notte. Beh, lo sentiremo un’altra volta, disse il fuochista e dette la parola a Pjotr. A questo punto mi resi conto che quei detenuti, tutti semplici contadini, che avevano da scontare pene di dieci, quindici, vent’anni di lager si erano suddivisi tutti i principali testi della Sacra Scrittura, li avevano imparati a memoria e, incontrandosi segretamente di tanto in tanto li ripetevano per non dimenticarli. Se non ci fossero al mondo simili uomini, la vita dell’uomo sulla terra perderebbe il suo significato” (A. Siniavskij, Una parabola di Pasqua, Vicenza 1996, pagg. 17-18).
Evidentemente, per costruire il popolo credente non può bastare la proposta della Parola di Dio che facciamo ogni domenica: questa proposta è indispensabile, ma spesso manca delle condizioni necessarie di preparazione, affinché possa produrre il frutto della fede. Allora è necessario inventare nuovi momenti infrasettimanali di annuncio della Parola per creare il “palato” capace di gustare l’annuncio domenicale: la domenica sarà “giorno del Signore” se durante la settimana la comunità parrocchiale avrà vissuto momenti di intenso ascolto della Parola di Dio. Questo è un punto ineludibile del rinnovamento della parrocchia.
Gli adulti al centro della pastorale
E tutto deve avvenire partendo dagli adulti: infatti è sugli adulti che urgentemente deve spostarsi l’asse della pastorale ordinaria, se vogliamo arrivare efficacemente ad un annuncio rivolto anche ai giovani e ai ragazzi. Gesù – leggiamo attentamente il vangelo – parlava agli adulti e, attraverso gli adulti entrava nelle case e nell’esperienza vitale dei figli. Seguendo il Maestro, anche gli Apostoli si rivolgevano agli adulti e, attraverso gli adulti, si creava il clima credente che i figli respiravano nelle loro case illuminate dalla fede in Cristo.
Oggi, invece, noi non raggiungiamo più gli adulti (questo è il punto dolente della pastorale, che va ribaltato!) e gli adulti sono i grandi assenti nella fede: il Crocifisso – vi prego di capire bene quello che sto per dire – è a rischio non tanto sulle pareti delle nostre scuole quanto sulle pareti delle coscienze dei nostri adulti e, di conseguenza, il Crocifisso è espulso dalle case dove si vive e dai luoghi dove si lavora. Il Card. Leo Joseph Suenens, arcivescovo di Bruxelles, subito dopo il Concilio Vaticano II promosse un’inchiesta chiedendo ad un vasto campione di cristiani adulti quante volte, nella loro vita, avessero avuto il coraggio di parlare di Cristo a qualcuno (non dimentichiamo che i discepoli di Cristo, secondo quanto riferito in Atti 11,26, furono chiamati “cristiani” perché parlavano di Cristo e perché professavano il Vangelo: Vangelo di Cristo!).
Le risposte dell’inchiesta di Bruxelles furono deludenti: cinque su cento cristiani (=poco cristiani!) dichiararono di aver avuto il coraggio di parlare di Cristo a qualcuno. Dalla testimonianza di cristiani così, possono sbocciare le vocazioni? La parrocchia deve urgentemente recuperare la consapevolezza che essa esiste per generare alla fede e deve orientare tutta la sua bella e generosa fatica pastorale per aiutare gli adulti – prima di tutti – a passare da un “cristianesimo di convenzione” ad un “cristianesimo di convinzione”: dove la fede è convinta… parla ai cuori; e permette a Dio di far sentire la Sua voce, la quale soltanto in un contesto di fede viene percepita come affascinante e degna di risposta.
L’Eucaristia
Il popolo credente, il popolo acceso dall’ascolto della Parola sente il bisogno dell’Eucaristia: soprattutto dell’Eucaristia domenicale. La domenica, infatti, non è un obbligo, ma è un dono; e, pertanto, il credente non parlerà mai del precetto della domenica, ma del privilegio della domenica. Tutti conosciamo la celebre risposta dei cristiani di Abitene (martirizzati nell’anno 304 durante la persecuzione di Diocleziano). Essi, rispondendo al prefetto che aveva vietato qualsiasi riunione dei cristiani, dichiararono: “Noi non possiamo vivere senza la domenica”. Ciò vuoi dire: noi non possiamo vivere senza l’Eucaristia e senza la comunità che celebra l’Eucaristia!
Tutto questo lo può capire soltanto un popolo che crede! Nel decreto Presbiterorum ordinis è scritto: “Non è possibile che sia costruita una comunità cristiana se non avendo come radice e come cardine la celebrazione della SS.ma Eucaristia” (n. 6). E Giovanni Paolo II nella esortazione apostolica Cristifideles laici afferma: “Ogni parrocchia è fondata su una realtà teologica, perché essa è una comunità eucaristica”. E nell’enciclica Ecclesia de Eucaristia vivit il Papa osserva: “La celebrazione dell’Eucaristia è al centro del processo di crescita della Chiesa” (n. 21).
Perché? Perché l’Eucaristia realizza “una misteriosa contemporaneità tra il Triduum Paschale e lo scorrere dei secoli” (n. 5). E il popolo credente non può vivere senza immergere continuamente la propria fragile vita nell’evento attraverso il quale l’Amore Misericordioso di Dio ha fatto irruzione nella nostra storia collassata dal peccato. L’Eucaristia è il dono per eccellenza lasciato da Cristo: e dalla Eucaristia parte il dinamismo missionario della comunità cristiana. Infatti il “corpo è dato” e il “sangue è versato” per tutta l’umanità: la comunità eucaristica diventa necessariamente comunità missionaria, se essa partecipa con fede all’evento che celebra. Di conseguenza, proprio perché l’Eucaristia è il grande momento generativo della comunità cristiana, essa va preparata accuratamente suscitando tutta la ministerialità necessaria per gustare e vivere l’Eucaristia non a dosi ridotte, ma in pienezza.
E l’Eucaristia vissuta incendia la comunità e apre i cuori alla generosità vocazionale. Giustamente il Papa ha scritto: “Tra le numerose attività che una parrocchia svolge, nessuna è tanto formativa della comunità quanto la celebrazione domenicale del giorno del Signore e della sua Eucaristia” (Dies Domini, 35). Provate a chiedervi: che cos’è la domenica per tante famiglie cristiane? Che cos’è l’Eucaristia per tanti cristiani? Quanto profumano e parlano di vangelo le nostre assemblee eucaristiche domenicali? Non dobbiamo stupirci, allora, se questo popolo poco eucaristico è diventato vocazionalmente sterile; e non dobbiamo neppure stupirci se i sacerdoti poco eucaristici (così poco modellati dalla Eucaristia che celebrano) non attirano all’altare, anzi allontanano!
La testimonianza della carità
L’Eucaristia – e arrivo all’ultimo punto – ci da la grazia di far comunione con l’Amore di Cristo che da il Suo Corpo e versa il Suo Sangue, per diventare “unum corpus” e per irradiare nel mondo dell’egoismo e del calcolo e dello sfruttamento… il mistero innovativo della gratuità, del servizio per puro amore, della bontà senza attesa di gratitudine. Questo è il fatto che sconvolge il mondo e lo mette in crisi.
Tertulliano nel suo Apologetico fa questa interessante osservazione in rapporto allo stupore con cui i non-cristiani osservavano i cristiani: “‘Guarda – essi dicono – come si amano tra loro’. Essi invece si odiano vicendevolmente. ‘Vedi come sono pronti a morire gli uni per gli altri!’. Essi invece saranno ancora più pronti a uccidersi tra loro” (Apologetico, 39). E gli fa eco, nei nostri tempi, Paolo Flores d’Arcais, che la rivista “Panorama” presenta curiosamente come uno dei rari atei praticanti. Egli, colpito dal fenomeno della carità cristiana, ha detto: “La pietra d’inciampo per l’ateo è l’incapacità della carità”.
Del resto l’evangelista Giovanni nella sua Prima Lettera scrive: “Amatissimi (non “carissimi”, come spesso viene tradotta la parola Αγαπητοί), amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio (ήάγάπη έκ του θεού) Chi ama infatti (ό άγαπώυ) è generato da Dio e conosce Dio (γινώσκει τόν θεόν), perché Dio è Amore (ότι ό θεόζ άγάπη έοτίν)” (1 Gv 4,7-8). La carità, pertanto, è la visibilità del mistero di vita nuova che abita nel nostro cuore: “Amatevi gli uni gli altri; da questo tutti sapranno (εν τούτω γνώσονται πάντεζ) che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35).
Senza la carità, noi siamo muti riguardo al vangelo, anche se parliamo brillantemente e ci affanniamo in mille iniziative. La carità, mi affretto a precisarlo, è una presenza trasformante dentro di noi, prima di essere un’attività: perché l’attività può profumare di Cristo soltanto se sgorga dalla carità-agape, che abita dentro di noi. San Paolo, a questo riguardo, è chiarissimo: “Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli [=se avessi tutta l’eloquenza del mondo], ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna [=muoverei soltanto l’aria facendola vibrare; nulla di più!]. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza [= potrei avere dieci lauree presso le università ecclesiastiche], ma non avessi la carità, non sono nulla (=ούθέν είμι). E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per essere bruciato [=se mi buttassi in una frenetica attività benefica], ma non avessi la carità, a niente giova (=ούδέν ώφελούμαι)” (1Cor 13,1-3).
Una parrocchia, allora, se vuole essere autentica visibilità del mistero cristiano e luogo di esperienza del mistero cristiano… deve offrire una rete di gesti di carità, che permettano ai cristiani di dare volto al Mistero Nascosto e permettano, in particolare ai giovani, di gustare la bellezza del vero amore (oggi realtà quasi sconosciuta e ridotta a caricatura), che è dono gratuito di sé nel servizio al prossimo più debole, più fragile, più emarginato, più insignificante agli occhi del mondo: in tutto questo Madre Teresa di Calcutta è stata maestra di puro vangelo!
La scuola di gratuità deve essere il frutto dell’ascolto della Parola e della celebrazione della Santa Eucaristia: Parola, Eucaristia e Carità sono il respiro che fa vivere la comunità cristiana e la rende visibile in un determinato territorio.
Nelle nostre Parrocchie accade talvolta di trovare tante attività caritative senza un’anima di preghiera e senza un profumo eucaristico: San Paolo direbbe che “non servono a niente per il Regno di Dio”. Talvolta invece è possibile trovare tanta Preghiera e belle Celebrazioni Eucaristiche senza un’esplosione di carità: qui c’è il rischio di pregare come il fariseo e, soprattutto, c’è il rischio di ridurre il cristianesimo a pronto soccorso personale e a bottega di estetica.
Il dinamismo di un’autentica comunità cristiana parte dall’ascolto assiduo della Parola, che permette di gustare e capire l’evento che si compie nei sacramenti (e, in particolare, nell’Eucaristia) per arrivare alla visibilità delle opere di carità. Una parrocchia deve continuamente chiedersi: la nostra Eucaristia muore sulla porta della Chiesa oppure vive e si fa visibile nella famiglia e nella vita della comunità attraverso l’amore vissuto che rivela la presenza in noi dell’Amore Vivente?
Quando nella parrocchia pulsa l’amore di Dio… nascono le vocazioni, perché l’amore parla e affascina e attira appagando pienamente il cuore.
Conclusione
Concludo raccontando un episodio che mi ha profondamente commosso e colpito. Nel mese di giugno dell’anno 2001 ho avuto un incontro indimenticabile. Erano le dieci di sera: avevamo appena terminato la preghiera serale e la piazza del Santuario di Loreto si animava di voci, di saluti, di sorrisi e di “buona notte”.
Mi accosto ad una culletta, ma non vedo un bambino bensì una donna adulta, un piccolissimo corpo (58 centimetri!) con un volto splendidamente sorridente. Tendo la mano per salutare, ma l’ammalata con gentilezza mi risponde: “Padre non posso darle la mano, perché potrebbe fratturarmi le dita: io soffro di osteogenesi imperfetta e le mie ossa sono fragilissime. Voglia scusarmi”. Non c’era nulla da scusare. Rimasi affascinato dalla serenità e dalla dolcezza dell’ammalata e volevo sapere qualcosa di più della sua vita. Mi prevenne e mi disse: “Padre, sotto il cuscino della mia culletta c’è un piccolo diario. È la mia storia! Se ha tempo, può leggerla”. Presi i fogli e lessi il titolo: “Felice di vivere!”. I miei occhi tornarono a guardare quel mistero di gioia crocifissa e domandai: “Perché sei felice di vivere? Puoi anticiparmi qualcosa di quello che hai scritto?”.
Ecco la risposta che consegno alla meditazione di tutti i giovani, che hanno il desiderio sincero di scoprire la vera sorgente della gioia. Disse: “Padre, lei vede le mie condizioni… ma la cosa più triste è la mia storia! Potrei intitolarla così: “Abbandono!”. Eppure sono felice, perché ho capito qual è la mia vocazione. Io per un disegno d’amore del Signore, esisto per gridare a coloro che hanno la salute: ‘Non avete il diritto di tenerla per voi, la dovete donare a chi non ce l’ha, altrimenti la salute marcirà nell’egoismo e non vi darà felicità’. Io esisto per gridare a coloro che si annoiano: ‘Le ore in cui voi vi annoiate… mancano a qualcuno che ha bisogno di affetto, di cure, di premure, di compagnia; se non regalerete quelle ore, esse marciranno e non vi daranno felicità’. Io esisto per gridare a coloro che vivono di notte e corrono da una discoteca all’altra: ‘Quelle notti, sappiatelo! mancano, drammaticamente mancano a tanti ammalati, a tanti anziani, a tante persone sole che aspettano una mano che asciughi una lacrima: quelle lacrime mancano anche a voi, perché esse sono il seme della gioia vera!’” .
Io guardavo l’ammalata, che parlava dal suo pulpito autorevole: il pulpito del dolore! Non osavo commentare, perché tutto era stupendamente e drammaticamente vero. L’ammalata aggiunse: “Padre, non è bella la mia vocazione?”. Risposi abbassando la testa: ero d’accordo!
La gioia, infatti, si trova uscendo dalla prigione dell’egoismo e donando la vita per gli altri: appena si esce dall’egoismo si trova Dio e, con Dio, si trova la gioia. E si capisce qual è la nostra vocazione.