“Tu sei prezioso ai miei occhi” (Is 43,4). L’amore preveniente e paziente del Padre
Si racconta che le Sirene, affascinanti e demoniache abitatrici di un’isola a occidente delle acque, metà donne e metà pesci, con il loro canto seducevano irresistibilmente i naviganti che dovevano passare per quello stretto di mare. E li facevano tutti perire contro gli scogli. Nel suo viaggio di ritorno, Ulisse tappò gli orecchi dei suoi compagni, perché non le udissero e ne fossero sedotti. Quanto a sé, si fece saldamente legare ad un palo. Per sentire la voce delle Sirene, ma senza subirne le conseguenze disastrose. Orfeo, invece, intonò un canto più melodioso che coprì quello delle Sirene, lasciandole mute e incantate.
Cosa c’entra questo racconto con il nostro tema? Nulla in maniera diretta. L’ho citato per illustrare una realtà abbastanza ovvia, deducibile dalla sapienza umana: ci sono diversi modi di prevenire, ci sono diversi modi per orientare la vita delle persone. C’è il tentativo di evitare il pericolo, c’è l’approccio protettivo e difensivo di neutralizzare l’ambiente negativo, c’è lo sforzo volitivo della disciplina, c’è l’ascesi che fortifica l’uomo dal di dentro, rendendolo capace di vincere le lotte e sostenere le durezze della vita, c’è poi la via creativa che mira a potenziare le energie positive e a sviluppare le risorse inventive. Potremmo elencare tanti altri modelli se vogliamo fare appello alla nostra esperienza e dare libero sfogo alla nostra fantasia. Un modello molto bello è sicuramente quello di vincere il male con la sovrabbondanza di bene, quello di saper intonare canti melodiosi di fronte alle difficoltà della vita; ma forse c’è un modello ancor più bello: lasciare che Dio canti dentro di noi. Rabbi Elimelech, citando il Salmo 147: “È bello cantare al nostro Dio”, così commenta: “È più bello se l’uomo lascia cantare Dio in lui”. Tutti abbiamo i nostri canti preferiti, siamo curiosi di sapere quali sono i canti di Dio che risuonano più spesso dentro il cuore dei suoi figli. Stando a ciò che Egli ci confida nella Bibbia ci sembra che uno dei canti preferiti da Dio sia questo: “Tu sei prezioso ai miei occhi”.
Sappiamo che il sentirsi accettato, il percepire che la propria esistenza nasce dall’amore dei propri genitori, sta alla base di ogni sana crescita umana, così per la crescita spirituale è indispensabile la consapevolezza d’essere amato dal proprio creatore. Chi si mette al servizio dell’educazione e della direzione spirituale non può non cercare di far risuonare nel cuore delle persone questo canto d’amore di Dio: “Tu sei prezioso ai miei occhi”.
Le precise espressioni di questo canto si trovano nel libro del Secondo Isaia. Siamo nell’epoca dell’esilio. Ad un popolo depresso e disorientato Dio infonde coraggio e speranza: “Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni… Tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo” (Is 43,1-4). Ma questa non è l’unica volta in cui Dio manifesta con tale ardore e tenerezza il suo amore. Non si tratta di un canto raro o isolato, anzi, è uno dei ritornelli più cantati da Dio, risuona in diverse circostanze della storia, rivolto a diverse persone, cantato con melodie e tonalità diverse, formulato con parole diverse, ma sempre con grande intensità e passione.
Vogliamo qui rendere presenti alcune scene bibliche in cui appare questo ritornello, senza pretesa di completezza. Non so se conoscete lo stile caratteristico della pittura cinese: colori tenui, contorni indefiniti, poche pennellate, molto spazio bianco. Il quadro non è mai totalmente coperto di colori, spesso lo spazio bianco supera di molto in ampiezza la parte dipinta. Lo spazio bianco però non vuoi dire vuoto, assenza di significato, ma è indispensabile all’armonia di tutto il quadro; è carico di potenzialità, è un’apertura verso l’infinito, un invito ad andare oltre, dal visibile all’invisibile, dal detto all’indicibile. In questo mio discorso trovate soltanto alcune pennellate, povere, disordinate, esse sono lì solo per indirizzarvi allo spazio bianco. Vorrei presentare tre scene dall’Antico Testamento e tre dal Nuovo. I titoli delle singole “pennellate” sono formulati come una variazione e un prolungamento della parola fondamentale: “Tu sei prezioso ai miei occhi”.
Dall’Antico Testamento
Prima di inviarci il suo Figlio fatto uomo, Dio ha intonato il suo canto d’amore attraverso tante voci e in tante circostanze.
“Tu sei prezioso ai miei occhi, per questo ti darò…”. Promessa e speranza.
Partiamo da Abramo, padre del popolo eletto. Nella Genesi la storia di Abramo è situata su uno sfondo cupo, da cui ci si aspetterebbe, invece di una promessa benevola, l’irrompere dell’ira di un Dio offeso. Il racconto della vocazione di Abramo (Gn 12) segue immediatamente quello della costruzione della torre di Babele (Gn 11), che segna il punto culmine del susseguirsi di peccati. Nonostante il grande amore di Dio l’uomo gli volta le spalle e si allontana da Lui. Attraverso una serie di eventi il male cresce e dilaga fino a delinearsi in dimensione universale. Dal peccato di Adamo ed Eva al fratricidio di Caino, alla violenza di Lamech, alla malvagità irrefrenabile della generazione di Noè e all’orgoglio sfacciato dei costruttori della torre di Babele, gli anelli della catena del male s’infittiscono e diventano sempre più robusti. Dio, pur castigando, ha dei gesti di tenerezza sorprendente: le tuniche di pelli con cui egli riveste Adamo ed Eva (3,21), il segno di protezione imposto a Caino (4,15), l’arca di Noè (6,14ss) e l’arcobaleno (9,12-17). Sono tutte espressioni di un amore sovrabbondante, esagerato rispetto alle misure umane; sono garanzie sicure che il creato può ancora avere un futuro bello, testimonianze incontestabili che tra delitto e castigo non c’è pura e semplice simmetria. Paolo dirà: “Dove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia” (Rm 5,20).
Con la costruzione della torre di Babele sembra che la rottura tra uomo e Dio e la perdita dell’unità dell’umanità siano ormai definitive, ma non è questa la fine della storia. Fra i gruppi dispersi c’è il clan di Terach, da cui Jahwè chiamerà Abramo come colui nel quale saranno benedette tutte le genti (12,3). Tra il racconto della torre di Babele e quello della chiamata di Abramo ci sono degli elementi in chiara contrapposizione. Gli uomini prendono l’iniziativa dicendo l’un l’altro: “Venite, facciamo mattoni…”; “Venite, costruiamo una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo” (Gn 11,3), mentre Dio dice ad Abramo: “Vàttene… verso il paese che io ti indicherò” (12,1). Il motivo della costruzione della torre è: “facciamoci un nome per non disperderci su tutta la terra” (11,3), quello che Dio presenta ad Abramo è invece: “renderò grande il tuo nome,… in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra” (12,2-3). La conclusione dell’episodio di Babele è: “il Signore disperse gli uomini su tutta la terra” (11,9), al contrario, quello de Ila chiamata di Abramo: “in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra” (12,3).
Il Signore disse ad Abramo: “Vàttene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò” (Gn 12,1). Il Signore si presenta senza tanti preamboli, così farà anche con Mosè, con Samuele, con Isaia, Geremia e tanti altri personaggi biblici. Egli non si impone con il suo essere Creatore e Signore potente, ma si fa percepire come una presenza misteriosa, una forza attraente, un’apertura affascinante, una sfida che risveglia le energie, le risorse e gli aneliti dentro l’uomo. Egli incontra l’uomo nel momento esatto in cui l’uomo si sforza di essere uomo, cioè quando coltiva dentro di sé ideali autentici e lotta per realizzarli.
Abramo parte. Questa risposta all’invito di Dio non lo trasforma automaticamente in un uomo santo; semplicemente la sua vita assume un nuovo spessore, un nuovo senso, una nuova determinazione e s’impregna di una nuova presenza. Da nomade vagante nel mondo egli diventa cittadino della terra promessa. È noto il paragone che il filosofo Emmanuel Lévinas fa tra Ulisse e Abramo. Ulisse, alla fine di un lungo viaggio si ritrova nella sua stessa casa, al punto di partenza; Abramo invece, si mette in cammino affidandosi completamente a quella presenza misteriosa che lo precede, e alla fine si trova in una terra nuova, spazio di vita designato a lui e alla sua discendenza.
In fondo, per un nomade come Abramo, conducendo un’esistenza precaria e instabile ai margini dei grandi imperi del secolo XX a.C., il sogno più grande era di avere una vita sicura, una terra fertile, pascoli tranquilli, figli numerosi. Dio gli viene incontro proprio qui. Avviene così un abbraccio fra promessa divina e speranza umana. Entrando nei desideri e nei sogni dell’uomo, Dio non li soffoca, non li blocca, ma li dilata, li eleva. Con le sue promesse egli incoraggia l’uomo a trascendersi, a mirare più in alto. “Farò di te un grande popolo e ti benedirò,… in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra” (Gn 12,2-3). La promessa di Dio eccede i desideri. Abramo intuisce che ciò che lo attende va oltre la sua fragile vita, la sua breve storia, la sua piccola famiglia e i suoi timidi sogni di prosperità e sicurezza.
Le promesse di Dio ad Abramo possono essere riassunte in queste parole: “Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle” (Gn 15,5); “Alza gli occhi e dal luogo dove tu stai spingi lo sguardo verso il settentrione e il mezzogiorno, verso l’oriente e l’occidente” (Gn 13,14). Sono parole molto belle, simboliche, suggestive, poetiche; parole di amicizia e di fiducia. Il Signore invita il padre del suo popolo eletto ad uscire all’aperto, a guardare in alto e guardare in avanti. Dio dialoga con l’uomo nei larghi spazi dell’amore e della bellezza, non nell’angustia dei diritti e doveri. Egli vuole che i cittadini della sua terra abbiano uno guardo ampio e rivolto in alto, che siano capaci di affrontare l’infinito con il candore e la semplicità del bambino che si mette a contare le stelle.
I padri della Chiesa, riflettendo sulla dignità dell’uomo, fanno notare che a differenza degli animali, l’uomo ha il corpo eretto, lanciato verso l’alto e non strisciante per terra come il serpente, né curvo o piegato con la testa e lo sguardo verso il basso. Siamo creature fatte per guardare in alto, ma purtroppo non sviluppiamo a sufficienza questo dono. Assomigliamo più agli animali se non sappiamo guardare in cielo. Nel libro del profeta Osea il Signore dice con rammarico: “Il mio popolo è duro a convertirsi: chiamato a guardare in alto, nessuno sa sollevare lo sguardo” (Os 11,7). Nella liturgia della messa, all’inizio della preghiera eucaristica, il celebrante invita l’assemblea: “Sursum corda – In alto il vostro cuore!”, perché è necessario avvicinarsi al mistero con il cuore in alto. Noi rispondiamo con tanta tranquillità e ovvietà: “Sono rivolti al Signore”. È una risposta che non sempre corrisponde alla realtà, ma speriamo che vi corrisponda almeno il nostro desiderio. E sappiamo contare le stelle? La nostra vita è segnata da tanti numeri e codici e dobbiamo fare sempre dei conti. Cosa contiamo? Molti nostri contemporanei non sanno contare altro che il denaro. C’è un proverbio che dice: “I millepiedi non hanno veramente mille piedi, gli uomini li chiamano così soltanto perché non sanno contare più di venti”. Il contare le stelle dice stupore, innocenza e semplicità, fantasia e bellezza, ampiezza di orizzonte, grandezza di cuore, speranza e gioia, senso ludico e poetico della vita.
La fiducia di Dio nell’uomo suscita la fiducia dell’uomo in Dio e in se stesso. La promessa di Dio all’uomo infonde nell’uomo gioia e gratitudine, coraggio e ottimismo, e lo spinge a donarsi con generosità agli altri. Così vediamo Abramo che abbandona tutto e parte secondo le indicazioni di Dio, innalza un altare in ringraziamento a Dio, tratta con generosità Lot, accoglie con amore gli ospiti, riceve il dono inatteso del figlio Isacco ed è pronto ad offrirlo in sacrificio, pur con immenso dolore. La promessa di Dio ha fatto grandi cose nel padre del popolo d’Israele.
Dio promette ad Abramo la terra spaziosa, la discendenza numerosa: tutti beni desiderati e graditi, tutti beni che rendono la vita felice; ma il dono di Dio non si limita qui. Bisogna ricordarsi che il racconto di Abramo si presenta come un nuovo inizio dopo la serie di peccati. Il Dio che ha creato la terra bella e buona e l’ha resa feconda per l’uomo, non desiste dal suo progetto originario, nonostante la risposta negativa dell’uomo alla sua iniziativa gratuita e misericordiosa. Egli vuole ancora assicurare all’umanità felicità, dignità e libertà su questa terra. Egli è ancora amante della vita, ha ancora fiducia nell’uomo e nella sua potenzialità di bene. Per questo riprende il suo piano in termini nuovi con l’elezione di Abramo.
C’è ancora di più. Dio non solo promette dei beni, ma Egli si compromette personalmente, entra in una relazione più profonda, stabilisce legami di prossimità e di comunione, stringe un’alleanza con l’uomo. Egli dichiara: “Sarò il vostro Dio” (Gn 17,8). “Renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione” (Gn 12,1), promette ancora Dio ad Abramo. Ciò non significa che Dio, oltre ai beni materiali garantisce gloria e fama al patriarca. Il nome di Abramo sarà reso grande e fonte di benedizione perché assunto da Dio stesso nel momento della sua autopresentazione. Dio ha voluto qualificarsi con il nome di Abramo, si è compiaciuto d’essere proclamato ed invocato “il Dio di Abramo” (Es 3,15). Qui sta la grandezza del nome di Abramo: è entrato a far parte del biglietto da visita di Dio. E qui sta soprattutto la grandezza di Dio, un Dio che non si vergogna di legarsi al nome, al volto, alla vita e alla storia delle sue creature, un Dio che si fida, si compromette, pur conoscendo la fragilità dell’uomo. L’autore della lettera agli Ebrei dice bene: “Dio non disdegna di chiamarsi loro Dio: ha preparato infatti per loro una città” (Eb 11,16).
“Tu sei prezioso ai miei occhi, ricordati di quello che ho fatto per te e deciditi”. Memoria e impegno.
Desideri, sogni, attese, aneliti, ecc. non possono essere disgiunti dalla decisione e dall’impegno, altrimenti rimangono vuoti o, peggio ancora, si trasformano in amarezze e delusioni. L’amore non promette soltanto, ma esige anche, l’amore lancia verso il futuro, ma conduce anche a riflettere sul passato ed a decidere per il presente.
Nella Seconda lettera a Timoteo Paolo dice che ci sono delle persone che “stanno sempre lì ad imparare, senza riuscire mai a giungere alla conoscenza della verità” (2Tim 3,7); sono curiosi, ma non decisi; cercano sempre, senza voler trovare; sono sempre in partenza, ma mai arrivano in nessun posto. Non è questa l’immagine di molti giovani del nostro tempo? Scrive Dostoevsky: “L’uomo ama più il processo attraverso il quale raggiunge il fine che il fine stesso… Valica gli oceani, sacrifica la vita in questa ricerca, ma di scoprirlo, di trovarlo effettivamente, ne ha paura”. Finché si è alla ricerca della verità, il protagonista è il ricercatore, non la verità. È lui che gestisce e conduce il gioco. Ma quando la Verità è stata trovata, allora è essa che sale sul trono e il ricercatore deve essere il primo a inginocchiarsi davanti ad essa. Ed è questo momento che molti cercano di ritardare più che possono, indefinitamente. Invece di dire con Sant’Agostino: “Tardi ti ho amato…”, direbbero molti: “Troppo presto, Signore, lasciami ancora per un po’…”. Credo che il successo che stanno avendo tante forme di nuova religiosità trovi la sua spiegazione, almeno in parte, proprio in questo. La caratteristica di quasi tutte queste religioni nuove è di proporre un Dio impersonale: spirito assoluto, energia vitale, legge cosmica, anima del mondo, il Tutto, o, rispettivamente, il Nulla, e via dicendo. La differenza maggiore tra Dio personale e un Dio impersonale è che il primo ha una volontà con cui bisogna fare i conti, a cui sottomettersi, il secondo no. L’uomo non sente quei “tu devi!” o “tu non devi!” che tanto lo irritano, ma non sente neppure quel: “ti ho amato di amore eterno”, “tu sei prezioso ai miei occhi”, che da senso e calore alla sua vita.
Nella storia di Israele, dopo una serie di esperienza di ricerca e di scoperta, giunge il momento il cui il Signore vede opportuno insistere più sulla capacità di decisione responsabile dell’uomo. Ciò viene espresso dalla Bibbia con la categoria dell’alleanza. Sul monte Sinai, attraverso Mosè, Dio dice ad Israele: “Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me. Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodire la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli…” (Es 20,4-5). Anche qui Dio non si presenta con tutti gli attributi della sua grandezza, egli propone e non impone, si fida dell’uomo non solo come singolo, ma anche come comunità, come popolo. Egli crede alla loro capacità di rispondere (quindi di avere “responsabilità”), di decidere e di impegnarsi a vivere secondo la propria decisione. Ora la decisione, proprio perché libera e totale, ha bisogno di motivazioni forti. È interessante vedere come il Signore fornisce le motivazioni per aiutare il popolo a decidersi. Egli non si appella ad argomentazioni razionali o funzionali, ma alla loro memoria, alle loro esperienze: “Voi stessi avete visto…, ora se volete…”.
Prevenire attraverso il ricordare, progredire nel futuro attraverso il regredire nella memoria: questo è una delle caratteristiche dello stile con cui Dio educa l’umanità. Ne abbiamo abbondanti esempi nella Bibbia. La memoria dell’esperienza d’amore del passato infonde fiducia nel futuro. Ciò che Dio ha fatto ieri è pegno di ciò che fa oggi e di quello che farà domani, perché l’amore di Dio è immutabile e la sua fedeltà dura in eterno. Il saggio Ben Sira ammonisce: “Considerate le generazioni passate e riflettete: chi ha confidato nel Signore ed è rimasto deluso?” (Sir 2,10).
Il ritmo accelerato della nostra vita oggi porta tra le tante conseguenze una spaventosa perdita di memoria. Mentre i nostri computers hanno una memoria sempre più potente, la nostra capacità di fare memoria diminuisce sempre di più. La mente umana rischia d’essere polverizzata e ridotta ad una somma di pensieri semplicemente momentanei, superficiali e assai fragili. La vita dell’uomo rischia di diventare un fascio di episodi sconnessi, frammentati, passeggeri, superficiali.
Il mutamento rapido della società tende a costringere l’uomo a vivere sul ritmo delle mode. I prodotti commerciali sono tutti destinati a scomparire presto per essere sostituiti. Il consumismo minaccia di invadere tutti i campi dell’esistenza umana. Nella società della debole memoria l’uomo è tentato di sganciarsi dal trascendente, dal fondamento della propria umanità, è in pericolo di perdere le proprie radici. A. De Saint-Exupéry lo denuncia con acutezza nel suo Piccolo principe: “Il piccolo principe traversò il deserto e non incontrò che un fiore… – Dove sono gli uomini? – domandò gentilmente il piccolo principe. – Gli uomini? – risponde il fiore – … non si sa mai dove trovarli. Il vento li spinge qua e là. Non hanno radici, e questo li imbarazza molto -”. Anche nella Bibbia troviamo un paragone simile. Il primo Salmo descrive il giusto “come un albero piantato lungo corsi d’acqua che darà frutto a suo tempo, le sue foglie non cadranno mai”, mentre l’empio è “come pula che il vento disperde” (Sal 1,3-4). L’uomo sradicato e smemorato non è capace di esperienze profonde, ma ha solo impressioni passeggere; non è capace di sentimenti intensi, ma ha solo emozioni di breve durata; non è capace di grandi progetti e veri ideali, ma chiuso nell’immediato, vive a corto respiro.
Nella società dalla debole memoria anche i legami tra gli uomini si rivelano fragili. La solidarietà umana e l’amicizia perdono d’intensità. L’intesa tra le generazioni si fa difficile. Il processo di tradizione dei valori non avviene più con naturalezza. Sono pochi i fortunati che possono e sanno ancora gustare la gioia di ricevere un patrimonio dai propri antenati e la soddisfazione di preparare un’eredità ricca ai posteri. Invece di un mondo abbellito di opere artistiche e segni d’amore, gli uomini della nostra epoca lasciano alle generazioni future un mondo ingombro di costruzioni fragili e monotone, un mondo inquinato e minacciato dalle armi di distruzione, un mondo disseminato di pericoli di morte.
Tu sei prezioso ai miei occhi, voi tutti siete preziosi ai miei occhi: Dio continua a assicurarci senza stancarsi, ma la percezione di questo “canto” esige la volontà di mettersi alla lunghezza d’onda di Dio, che abbraccia tutta la storia, la capacità di far memoria, la forza di compiere delle decisioni e la tenacia di un impegno vitale.
“Tu sei prezioso ai miei occhi, nonostante i tuoi peccati”. Riconciliazione e conversione.
L’uomo è prezioso agli occhi di Dio, ma egli purtroppo non tiene sempre prezioso questo dono inestimabile e immeritato. La storia dell’umanità è una storia di peccato e di infedeltà continua. Dio però non cambia il suo canto. Anche se siamo cattivi siamo ancora suoi figli, anche se ci allontaniamo, egli aspetta ancora il nostro ritorno. Egli è sempre “misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà, che conserva il suo favore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato” (Es 34,6), sempre sorprendente nelle sue iniziative d’amore, sempre pronto a riprendere il dialogo e a far festa con chi ritorna a lui. La Bibbia è ricca di materiale su questa tematica, usa anche molti simboli per illustrare questo dramma d’amore: lo sposo che aspetta il ritorno della sposa infedele, il padrone della vigna che attende il frutto della vigna, il padre misericordioso che accoglie il figlio prodigo, il pastore che lascia novantanove pecore in cerca di quella smarrita.
Abbiamo parlato della storia del peccato da Adamo alla torre di Babele, ma anche dopo la chiamata di Abramo questa storia continua, e continuano pure le manifestazioni della misericordia sovrabbondante di Dio. Richiamiamo il bellissimo racconto dell’intercessione di Abramo per le città di Sòdoma e Gomorra (Gn 18). Anche nell’epoca di Mosè, nonostante le meraviglie operate da Dio nell’esodo e nonostante la speranza che Egli infonde con la promessa della vita nuova, Israele commette una serie di peccati nel cammino verso la meta: la mormorazione, la nostalgia dell’Egitto, il dubbio circa la presenza di Dio, la resistenza ai suoi doni d’amore, la sfiducia in Mosè suo mediatore, e l’adorazione del vitello d’oro, che è il punto culmine dell’infedeltà. Si dice che per Dio fu più facile tirar fuori Israele dall’Egitto, che l’Egitto dal cuore di Israele. Ma il peccato non è più forte dell’amore divino.
Questa storia di peccato e di perdono percorre tutti i libri profetici. Il libro del profeta Isaia, per esempio, si apre con un rimprovero foltissimo da parte di Dio. Egli chiama il cielo e la terra ad essere testimoni nel denunciare Israele, “gente peccatrice, popolo carico di iniquità, razza di scellerati, figli corrotti” (Is 1,4), ma dopo alcuni paragrafi il discorso cambia tono: dalla denuncia severa Dio passa all’incoraggiamento: “Su, venite e discutiamo… Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve” (Is 1,18). La misericordia di Dio lo spingerà a pronunciare parole di tenerezza come queste: “Si dimentica forse una donna del suo bambino così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai” (Is 49,15). Similmente egli dice per mezzo del profeta Osea: “Il mio popolo è duro a convertirsi: chiamato a guardare in alto nessuno sa sollevare lo sguardo. Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri, Israele?… Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all’ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Efraim, perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò nella mia ira” (Os 11,7-9).
È particolarmente interessante la presentazione profetica della riconciliazione e del perdono come un “ritorno” da parte del peccatore e un “correre incontro” da parte di Dio mosso dall’amore irrefrenabile. Al “convertirsi” dell’uomo corrisponde il “convertirsi” di Dio. Non ci è possibile fare un’illustrazione prolungata in questo contesto. Vorrei qui citare soltanto un brano tratto dalla sezione chiamata “il poema sulla conversione” del profeta Geremia. Si tratta di un dialogo molto bello tra Dio, pieno di tenerezza, e l’uomo, umiliato dal proprio peccato, tra la misericordia divina e la miseria umana.
Dio: “Ritorna, Israele ribelle. Non ti mostrerò la faccia sdegnata, perché io sono pietoso, dice il Signore. Non conserverò l’ira per sempre. Ritornate, figli traviati, io risanerò le vostre ribellioni” (Ger 3,12.22a).
Israele: “Ecco, noi veniamo a te perché tu sei il Signore nostro Dio” (Ger 3,22b).
Dio: “Io pensavo: Come vorrei considerarti tra i miei figli e darti ima terra invidiabile, un’eredità che sia l’ornamento più prezioso dei popoli! Io pensavo: Voi mi direte: Padre mio, e non tralascerete di seguirmi. Ma come una donna è infedele al suo amante, così voi, casa di Israele, siete stati infedeli a me” (Ger 3,19-20).
Israele: “Avvolgiamoci nella nostra vergogna, la nostra confusione ci ricopra, perché abbiamo peccato contro il Signore nostro Dio, noi e i nostri padri, dalla nostra giovinezza fino ad oggi; non abbiamo ascoltato la voce del Signore nostro Dio” (Ger 3,25).
Dio: “Se vuoi ritornare, o Israele, a me dovrai ritornare. Se rigetterai i tuoi abomini, non dovrai più vagare lontano da me… Allora i popoli si diranno benedetti da te e di te si vanteranno” (Ger 4,1-2).
Dal Nuovo Testamento
Nell’epoca nel Nuovo Testamento il canto d’amore di Dio ormai assume una voce decisamente umana, quella di Gesù Cristo, suo Figlio fatto uomo.
“Tu sei prezioso ai miei occhi, ti ho visto e ti ho amato”. Rispetto e fiducia.
Siamo all’inizio della vita pubblica di Gesù. Tutti gli evangelisti pongono come una delle prime opere che Gesù compie la chiamata dei discepoli. Fin dall’inizio Gesù vuoi formare attorno a sé una comunità. L’incontro di Gesù con Natanaele fa parte di una serie di chiamate. È interessante rilevare in queste chiamate l’elemento della mediazione umana. I primi due a seguire Gesù erano discepoli di Giovanni Battista, uno di loro, Andrea, porta poi il fratello Simon Pietro a Gesù, poi Gesù chiama Filippo e Filippo parla di Gesù a Natanaele. C’è tutta una catena contagiante di testimonianza e di invito. Filippo dice a Natanaele: “Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti. Gesù, figlio di Giuseppe di Nazaret” (Gv 1,45). È una testimonianza semplice, un racconto di esperienza personale, un annuncio gioioso, una condivisione cordiale della bella scoperta. Una bella esperienza ha bisogno d’essere comunicata. Così scriverà Giovanni: “quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi” (1 Gv 1,3).
A questo annuncio gioioso Natanaele reagisce con freddezza, scetticismo e sospetto. Chiuso nel suo pregiudizio egli non riesce a capire come da Nazaret, una città insignificante, possa venire qualcosa di buono, è sproporzionato, quindi questo Gesù non gli interessa per nulla. Ma Filippo insiste, questa volta con un invito esplicito: “Vieni e vedi” (Gv 1,46). L’ha imparato da Gesù a stendere l’invito, perché queste sono le parole precise con cui Gesù si è rivolto ai primi due discepoli, attratti da lui (cfr. 1,39).
Mentre Natanaele cerca di “venire” e “vedere”, è Gesù che lo “vede” e gli “viene incontro”. Gesù lo precede, lo previene, prende per primo l’iniziativa di parlare a lui. Prima che Natanaele abbia avuto la possibilità di vederlo e di conoscerlo, è visto, conosciuto ed amato da lui. Alla freddezza di Natanaele, Gesù risponde con l’accoglienza cordiale. Mentre Natanaele, al primo sguardo curioso, coglie l’esterno dell’uomo di Nazaret, Gesù lo legge nel cuore; mentre Natanaele è pronto a rilevare il negativo, Gesù è particolarmente sensibile al lato positivo nell’uomo. Allo scettico Natanaele egli fa il regalo di uno dei suoi migliori elogi: “Ecco davvero un israelita in cui non c’è falsità”. Anche se con dei pregiudizi e con l’indifferenza apparente, questo giovane ha una qualità umana fondamentale: la sincerità. È schietto, trasparente. Più tardi, di fronte al giovane ricco, incerto ma non privo di buona volontà, Gesù fa leva sulla sua rettitudine, apprezza il suo sforzo di ricerca e gli fa la proposta di lanciarsi in alto. Basandosi sui suoi discepoli, uomini buoni ma impreparati e non esenti da difetti anche grossi, egli tesse i sogni più grandi per la sua Chiesa. Egli si fida di loro e affida loro il compito singolare di prolungare la sua stessa missione di salvezza in tutto il mondo e in tutta la storia.
Un proverbio cinese dice: “Chi ha il cielo nel cuore vede il cielo dappertutto”. Gesù vede quel pezzo di cielo che ogni uomo e ogni donna porta dentro di sé, lo rende manifesto e ci lavora sopra perché diventi sempre più grande, più luminoso. Egli riconosce su ogni volto umano il riflesso della sua stessa immagine. Ha una forte solidarietà e una grande passione per ogni persona, di tutti egli è fratello maggiore e modello perfetto. Egli sa scoprire i semi nascosti di bontà, evidenziare le risorse latenti, cogliere i desideri inespressi, comprendere i timidi segni d’amore e capire il linguaggio del cuore.
Colpito dalla parola di Gesù Natanaele domanda con stupore: “Come mi conosci?”. E Gesù gli risponde: “Prima che Filippo ti chiamasse, ti ho visto quando eri sotto il fico”. Gesù vede “prima” e vede in profondità, vede l’uomo nel suo contesto preciso (“sotto il fico”), non gli sfugge nessun dettaglio. Tutto è importante e prezioso per lui. Anche Paolo confessa con commozione: “…Colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani” (Gal 1,15); Gesù Cristo, il Figlio di Dio “mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). E l’autore del Sal 139: “Tu mi scruti e mi conosci… Ti sono note tutte le mie vie; la mia parola non è ancora sulla lingua e tu, Signore, già la conosci tutta”. È lo stupore di scoprirsi conosciuto ed amato molto più di quello che uno può immaginare e desiderare.
“Come mi conosci?”, molti contemporanei di Gesù avranno ripetuto questa domanda di Natanaele. La povera vedova al tesoro del tempio si sarà chiesta: “Come mai mi ha vista? E come ha fatto a capire che i due spiccioli sono tutto quello che ho?”; similmente la donna emorroissa: “Come ha fatto a sapere che io ho toccato il suo mantello e come mai conosce il motivo per cui cercavo di toccarlo?”. La Samaritana si sarà chiesta: “Come è possibile che conosca la mia vita? Perché mi ha aspettato al pozzo?”. Zaccheo non saprà spiegarsi: “Come mai ha scelto di venire proprio a casa mia?”. Così anche gli apostoli, chissà quante volte si saranno domandati: “Perché ha chiamato proprio me? Come mai si fida di me? Cosa vede di buono in me?”. Sono domande che si prolungano nella storia di generazione in generazione in coloro che seguono Gesù. Ognuno di noi avrà posto a Gesù almeno una volta la domanda di meraviglia: “Come mi conosci? Perché hai chiamato me?”. La sua risposta, ancor oggi, suona come quella che ha dato a tante persone, un ritornello ripetuto tante volte, ma sempre nuovo e personale: “Ti ho visto e ti ho amato. Sei prezioso ai miei occhi”.
“Tu sei prezioso ai miei occhi, per questo aspetto molto da te”. Ideale di santità.
Più uno ama una persona più la desidera buona, felice, perfetta. Anche Dio ha delle attese grandi e alte sui suoi figli, vuole che viviamo in “misura alta” (Novo Millennio Ineunte, 31), direbbe Giovanni Paolo II, la santità. Gesù ci ammonisce nel suo discorso della montagna: “Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 5,20); “Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48).
Se dovessi riassumere il contenuto di tutto il discorso della montagna in una parola, penso di non sbagliarmi troppo se scelgo la parola “più”. Gesù propone subito all’inizio della sua predicazione dei grandi ideali: essere poveri in spirito, puri di cuore, operatori di pace,… essere sale della terra e luce del mondo. Il Signore ha dei grandi sogni per i suoi figli, egli non vuole avere soltanto figli osservanti della legge, ma creativi, che mirano al più. La legge segna solo il limite più basso, il minimo indispensabile, mentre Gesù vuoi lanciarci verso il massimo possibile, vuole che miriamo al più, ad una “giustizia superiore di quella degli scribi e dei farisei”. Il punto di riferimento non sono le prescrizioni, ma è il Padre stesso.
Si tratta di passare dalla mentalità dell’osservanza formale che si accontenta del minimo indispensabile a quella della santità che mira al più, dal domandarsi “che male c’è?” a “come posso migliorarmi?”. La mentalità della rigida osservanza formale della legge è quella di arrivare alla sufficienza per evitare il castigo, mentre l’impegno di santità è spinto dall’amore.
Una barzelletta: un poliziotto stradale ferma una macchina che ha sorpassato il semaforo rosso: “Signore, non ha visto il semaforo?”. “Sì, il semaforo l’ho visto, ma non ho visto lei”. O si ha uno spirito che va al di là della prescrizione, o ci si deve rassegnare a fare leggi sempre più severe e ad aumentare i poliziotti.
Gesù esige dai suoi discepoli una “giustizia superiore” e presenta, nel discorso della montagna, sei esemplificazioni scandite dalla formula: “avete inteso che fu detto agli antichi…, ma io vi dico” (Mt 5,21-47).
Anche nelle opere buone Gesù esige un più: dare l’elemosina, digiunare e pregare in segreto. Si tratta di un più in interiorità, in autenticità, in purezza di motivazione. Ancora, nello stesso discorso Gesù esige un più in radicalità: non servire due padroni; un più nell’amore: dare di più di quanto è richiesto, amare persine i nemici.
Gesù vuole educare i suoi discepoli ad una grandezza di cuore davanti a Dio, a se stessi e agli altri, vuoi portarci alla libertà di spirito che deve caratterizzare i figli di Dio, vuoi liberarci da quell’atteggiamento egoistico di chi accumula gelosamente i piccoli tesori, da quello spirito intollerante e meschino di chi è pronto a giudicare, a scoprire la pagliuzza nell’occhio dell’altro senza accorgersi della trave nel proprio. Gesù spinge i suoi discepoli a uscire mentalmente dal loro piccolo villaggio e a pensare in termini universali, ad imparare a vivere con i diversi, ad essere aperti, benevoli, ma prudenti, capaci di guardare la realtà con sapienza e discernere la volontà di Dio nelle circostanze concrete. Egli vuole che i suoi discepoli siano santi, assomiglianti al massimo possibile a Dio, sintonizzati con il suo cuore e con il suo canto d’amore.
“Tu sei prezioso ai miei occhi, voglio che stia con me per sempre”. Gioia eterna.
Concludo con questa bellissima immagine del Vangelo di Luca. Un giorno i discepoli di Gesù ritornano da un tirocinio di predicazione a cui li ha inviati il maestro. “Pieni di gioia” riferiscono a Gesù il loro successo: “Signore, anche i demoni si sottomettono a noi nel tuo nome” (Lc 10,17). Gioiscono perché il lavoro è stato fruttuoso e gratificante, hanno potuto cogliere subito i risultati visibili. Gesù condivide il loro entusiasmo e si congratula con loro, ma allo stesso tempo egli rivela loro il senso più vero di questa gioia che va al di là dei successi non sempre duraturi e radicali: “non rallegratevi perché i demoni si sottomettono a voi, rallegratevi piuttosto che i vostri nomi sono scritti nei cieli” (Lc 10,20). Nell’Antico Testamento si parla dell’“iscrizione” nel libro della vita, che contiene la registrazione dei membri del popolo eletto (cfr. Es 32,32; Sal 69,29; Is 4,3). Ora Gesù dichiara ai suoi discepoli che i loro nomi sono registrati nei cieli, cioè fanno parte della sua famiglia (cfr. Mc 3,34), sono associati a lui e partecipano alla sua missione, alla sua vita e al suo rapporto con il Padre. Sono diventati “concittadini dei santi e familiari di Dio” (Ef 2,19). La loro vita è ormai “lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio”; essi sono ormai “nascosti con Cristo in Dio” (Col 3,1.3); i loro nomi sono nascosti nel nome di Gesù.
Prima di lasciare questo mondo Gesù, nel suo discorso di addio, dice con affetto ai suoi discepoli: “Nella casa del Padre mio vi sono molti posti… Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io” (Gv 14,2-3). Egli, per cui “non c’era posto nell’albergo” (Lc 2,7), ci prepara un posto a casa sua, nel cielo; egli, che nascendo nel tempo del censimento di Cesare Augusto, si è fatto registrare come suddito romano e alla circoncisione si presenta come un membro del popolo ebraico ricevendo un nome, scrive i nostri nomi nel cielo dandoci la cittadinanza del suo regno.
La certezza di una patria celeste, di sbocco nella felicità eterna, infonde coraggio e da una tonalità di gioia e di speranza al nostro pellegrinare sulla terra. Già per Giobbe, questa certezza è stata di forte sostegno nel suo dolore indicibile. Stanco di soffrire egli attende con ansia la giustizia divina, anela a vedere il volto mite di Dio ed accelera con il desiderio la fine del suo pellegrinare da straniero. Con gli occhi pieni di lacrime e il corpo consumato egli esclama con fermezza: “Io lo vedrò, io stesso, e i miei occhi lo contempleranno non da straniero” (Gb 19,27). Ora, per noi cristiani, questa certezza è resa ancor più salda dalla promessa di Gesù. Il nostro posto nel cielo sarà preparato da lui stesso, segnato con il nostro nome. Il cristiano, come esprimeva Newman, “non è un uomo che aspetta semplicemente; è certo che il bene verrà, infallibilmente verrà”. Egli non sa come, ma intuisce che ciò che lo attende è qualcosa di immenso, di stupendo. Egli sa “sperare contro ogni speranza” (Rm 4,18), anche se il mondo sembra andare alla rovina; è convinto che il mondo è ormai segnato dalla salvezza di Cristo, per cui il male non avrà l’ultima parola. Paolo augura ai cristiani del suo tempo: “Il Dio della speranza vi riempia di gioia e pace nella fede, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo” (Rm 15,13) e li esorta: “Non siate come coloro che non hanno speranza” (1Ts 4,13): un augurio e un invito più che mai attuali oggi.
È vero che viviamo in tempi difficili, è vero che il male dilaga nel mondo in modo spaventoso, ma il rimedio non sta nel “tappare le orecchie”, piuttosto intoniamo canti più belli, canti che fanno eco a quello che Dio canta dentro di noi: “Tu sei prezioso ai miei occhi”.