La fatica di scegliere. Possibili passi per la costituzione di una nervatura a servizio della vocazione
Il 1° maggio del presente anno, il duemilaquattro, dieci paesi hanno fatto il loro ingresso in Europa. In ventiquattro ore si è consumato ufficialmente un passo storico: popoli, etnie, civiltà diverse per lingua, cultura, geografia, storia culturale e sociale, hanno aperto le frontiere. Sono venticinque ora i paesi dell’Unione Europea ed altri se ne aggiungeranno nel corso degli anni; sarà lo scenario che vedrà protagonisti i nostri attuali giovani figli, gli adulti di domani. Ma quanta fatica vi è stata, vi è tuttora in atto, perché questi paesi potessero fregiarsi del titolo di “europei”. Sono state diverse, molteplici, e non di poco conto, i cosiddetti “parametri europei”, richiesti a questi paesi per poter accedere alla famiglia Europa. Domanda: quando, dunque, un paese può definirsi europeo?
Ad un popolo, altri popoli hanno detto: se vuoi far parte dell’Unione, queste sono le “conditio sine qua non”. È stata chiesta e verrà ancora chiesta tanta fatica, numerosi sacrifici per poter arrivare ai livelli degli altri paesi d’Europa. Pensiamo ad alcuni aspetti: l’economia deve essere forte, che garantisca lavoro e stabilità di investimento, specie internazionale. Diminuire sempre più la disoccupazione, perché un paese che non offre lavoro è destinato ad estinguersi, favorendo così l’emigrazione in paesi più industrializzati. La condizione sociale deve essere sempre più equilibrata, cercando di debellare le numerose frange di povertà, garantendo un minimo di sussistenza per ogni persona.
Ho voluto prendere spunto dall’evento storico dell’allargamento dell’Europa, per arrivare a delineare un interrogativo che mira alla riflessione che mi è stata richiesta: quand’è che si può definire un “giovane cristiano”? La recente assemblea dei Vescovi italiani, da poco conclusasi (17-21 maggio 2004), riunita a Roma, ha fatto il punto della situazione sullo stato di salute della parrocchia in Italia1.
Nel quadro della odierna complessità sociale e culturale del mondo giovanile, rimando i lettori alle riflessioni specifiche e più pertinenti riportate in questa rivista. Dal punto di vista ecclesiale credo che la parrocchia in Italia stia vivendo un momento particolare, un giro di boa nella regata della ecclesialità. In merito al rapporto tra Chiesa e fatica di scegliere dei giovani, provo a tracciare un itinerario segnato da sei passi, perché risvegli in noi per primi e nei giovani che incrociamo, la fame e la sete della Parola che continua ad arderci nel cuore, perché segnato dall’incontro con Cristo.
Primo passo: ridefinire la mappa mentale
Cosa vuol dire oggi vocazione? Il pensiero corre immediatamente ad una scelta concreta di vita: sacerdozio, vita contemplativa, missione. La stessa vita di coppia sigillata nel sacramento matrimoniale, fa fatica ancora ad essere vista come vocazione.
La parrocchia oggi è chiamata ad annunciare un “Dio vocante”, perché è lui che chiama e l’uomo risponde. Al giovane va detto in modo netto e preciso che è Dio che prende l’iniziativa in tutte le vere storie di vocazione. Perché molti giovani, dopo anni di ministero vissuto nel sacerdozio o nella vita consacrata, lasciano e abbandonano? Perché la loro mappa mentale, diceva: “La vocazione è ciò che senti nel cuore di più forte e bello, il desiderio di dare compimento alle tue felicità. Segui questo desiderio”. Questo è fuorviante e deleterio, perché si viene a perdere il primato di Dio ed il suo riconoscimento nella propria storia di vita.
Dio, dunque, non prende l’iniziativa come il procacciatore di ingaggi vocazionali per il palcoscenico della pastorale. Dio prende l’iniziativa perché è Padre. Dio non chiama a fare qualcosa, ad avere dei ruoli o delle professioni, ma ad essere suoi figli, alla comunione con lui, alla relazione gratuita, a guardare il nostro Padre che è nei cieli. Incontrando diverse realtà di formazione come seminari, case per postulandato e noviziato, mi rendo sempre più conto che non va data mai per scontata la domanda: perché sei qui? Perché inizi questo cammino? Quale il nome della vocazione in te?
Secondo passo: una catechesi che aiuti il giovane ad entrare in sé per ri-uscire
La catechesi in Italia sta passando anch’essa per il grande setaccio del ripensamento (es.: percorsi di iniziazione ai sacramenti), del riprendere in mano l’attenzione alla storia del bambino, del ragazzo, del giovane e del suo percorso verso l’adesione a Cristo. Preoccupati che tutti i ragazzi ricevano i sacramenti, nessuno escluso, rischiamo di dimenticarci di annunciare loro Cristo e aiutarli a riconoscerlo presente nell’oggi della storia. Pensiamo ad Abramo (Gn 12). Quel “Vai, esci” è da intendere non solo come partenza, ma come inizio di un viaggio verso se stesso. È come se Dio, con l’espressione “Vai, parti”, avesse detto ad Abramo “Vai dentro di te”.
La parrocchia, dunque, con il servizio della catechesi, è padre e madre che aiuta il giovane ad entrare dentro se stesso, a conoscersi sempre più, a svegliarsi dal sonno. La catechesi è vocazionale quando conduce l’uomo a se stesso, al suo interno, alla sua intimità, perché lì possa incontrare Dio. Ricordiamoci le parole di S. Agostino: “Signore, io ti cercavo fuori di me e tu eri dentro di me”. Attenzione dunque a diluire i percorsi di catechesi riducendosi a tracciati che nascono dal collage di molteplici itinerari di diversa natura, non rendendo un servizio alla persona (come a dire: si parla di tutto all’incontro di catechismo, ma al momento di stringere, che rimane?). Gli strumenti del Catechismo dei Giovani[1], rivolto ai giovanissimi (Io ho scelto voi) e del Catechismo dei Giovani 2, rivolto ai giovani (Venite e vedrete), sono un percorso che la Chiesa Italiana ha offerto come dono, che necessita ovviamente di mediazioni sul campo. Una catechesi, dunque, che rende un servizio di introspezione e nel contempo di missione. Giovani intimistici e ripiegati su loro stessi e la bella idea di Dio che si sono costruiti, non rappresentano certamente un sano terreno per la maturazione di qualsiasi vocazione. Non c’è vocazione senza esodo, ovvero, senza quell’uscita, senza quella esplosione di sé che è annuncio di una persona tutta amata, tutta libera, interamente donata. Uscire, in termini pratici, come sinonimo di un cammino da intraprendere, implica una catechesi che non parla più in termini di scadenze – (pre-cresima, post-cresima), dando l’idea che una volta superata quella tappa ci si può considerare arrivati, a posto con la Chiesa e con se stessi –, una catechesi che ha il sapore del versetto 15a al capitolo 24 del vangelo di Luca: “Gesù in persona si accostò e camminava con loro”. La scelta della Chiesa italiana, con lo studio e la riformulazione dell’iniziazione cristiana dei ragazzi, che invita a intraprendere strade e percorsi sganciando il sacramento dall’età, perché la persona arrivi ad una maggiore consapevolezza di ciò che chiede, accoglie, testimonia, rappresenta una chiara svolta di tendenza.
Terzo passo: i tanti servizi sono un cattivo servizio
L’inizio di ogni anno pastorale in parrocchia lo si può metaforicamente paragonare alla campagna acquisti: “Chi è disponibile quest’anno per la catechesi, per l’animazione liturgica, per l’oratorio e via di questo passo”. Così dicasi per la fine dell’anno pastorale, con l’inizio delle attività estive: “In quanti sono arrivati alla fine del mandato, del servizio loro affidato? Quanti hanno retto e quanti hanno mollato?”. La parrocchia non può e non deve essere il terreno dove si contano i morti caduti sul campo di battaglia pastorale! I giovanissimi, i giovani e le famiglie che più si espongono per la disponibilità in parrocchia, sono coloro ai quali viene affidato di tutto e di più. Sono coloro ai quali si chiede tanto, perché generosi, perché lo sanno fare, perché c’è bisogno. E quando questi, un bel giorno, arrivano “alla frutta” del servizio prestato, si sentono pure dire: “Proprio su te contavo, non mi sarei mai immaginato, eri il punto all’occhiello della parrocchia. Ed ora? Come mai questo abbandono? Facevi tutto e così bene in parrocchia che ti mancava di dire la Messa!”.
Al giovane impegnato in parrocchia si chiede tanto e tutto, ma forse non si chiede la cosa più importante: di che cosa e chi realmente hai fame e sete? Non dobbiamo essere contenti, come preti, diaconi, religiose, sposi quando vediamo in parrocchia esprimersi al massimo la generosità di un giovane, se non siamo attenti alle sue vere esigenze. La mancanza o la scarsità di vita sacramentale, di meditazione personale e comunitaria della Parola di Dio, il venir meno di una vita spirituale di preghiera, sono i dati della cronaca di un suicidio annunciato. Così dicasi per il giovane prete e la giovane suora posti nella pastorale nei primi anni di ministero. Se gli entusiasmi delle prime ore non trovano il terreno roccioso dove radicarsi, saranno loro stessi, gli entusiasmi (ed altre componenti correlate lungo il cammino), a destabilizzare la persona consacrata.
La parrocchia, allora, è chiamata ad annunciare e testimoniare ai giovani (specie quelli più impegnati nella pastorale), chi è il Re che stanno seguendo e servendo, a chi stanno dando e donando il loro Sì. Da questo primario servizio, prendono vita i molteplici servizi. La parrocchia, dunque, svolge un servizio vocazionale perché dice al giovane: sarai educatore cristiano, perché narri e racconti, a chi incontri, chi e che cosa abita e dimora in te. Nella vita, si dà solo ciò che si ha.
Quarto passo: educare al “sapersi rialzare”; la comunità
Credo che la paura di scegliere una vita stabile, che è per sempre, e rispondere a Dio nella consacrazione di sé in lui, nasca da diversi fattori e, a mio avviso, in modo particolare da un aspetto tipico della modernità: la paura che ha il giovane di sbagliare, di non farcela, di deludere le attese o, peggio ancora, di non sapersi rialzare una volta caduto.
Sono sempre più crescenti i cammini vocazionali fai-da-te: prego per conto mio, ho un mio direttore spirituale, faccio le mie scelte in base a come penso, mi sento, ho voglia. Non è raro, nell’incontrarmi con rettori di seminari e maestri di postulandato e noviziato, sentirmi dire: “Questo giovane o questa ragazza è arrivata qui da noi da sola, ovvero, senza che il parroco ne fosse informato e tanto meno il Vescovo”. Chiariamo: il parroco e il Vescovo non sono dei timbra-cartellino obbligatori nel cammino di discernimento vocazionale.
Credo che ogni vocazione, per quanto forte o marginale che sia, vede nella comunità e parrocchia, un punto importante. Lo stesso dire e ascoltare un certo tipo di linguaggio in diverse testimonianze vocazionali, che attribuiscono ad esperienze cruciali la loro scelta vocazionale (sofferenza, volontariato, missione, carcere, ecc.), non può che rimandare alla parrocchia dove il giovane ha vissuto e respirato i primi segni di servizio e attenzione verso quelle realtà che sono state, successivamente, veicolo importante. Nella vocazione, come nella fede, non esistono i single, i battitori liberi, i fai-da-te. Si nasce da una comunità e da essa si viene generati. Non solo: credo che la parrocchia e ogni accompagnamento spirituale, non può non tendere all’offrire al giovane grandi domande e sane inquietudini. Passare dal “chi sono?”, al “da chi sono salvato?”. Credo, allora, che vi sarà, nei giovani, meno fatica di scegliere, se li si aiuta a reagire ad un cristianesimo che non pone più domande. Spesso, la nostra pastorale è costituita da un rispondere a delle domande che i giovani non ci hanno posto. Ascoltiamoli, dunque, ma ascoltiamo e aiutiamo a rispondere a Dio assieme. Potremmo quasi sintetizzare: il discernimento vissuto nella condivisione e relazione. Ecco, allora, che la vocazione nasce da una appartenenza. Come in una famiglia: le gioie e le fatiche si condividono e si superano assieme. La pretesa di non aver bisogno di essere aiutati e salvati rappresenta, nel cammino di discernimento, un elemento negativo che pone il giovane in una falsa autosufficienza sterile e deviante. Mantenendo, perciò, fermo il servizio prezioso del padre e della madre spirituale, guardiamo alle persone della comunità come occhi che sanno distinguere e vedere cose che noi non vediamo! Perché per la santificazione della persona non vi è solo il prete, ma un popolo (e la Scrittura lo insegna). Un discernimento, pertanto, a più voci, più occhi, più mani; consapevoli, ovviamente, che alla persona e solo a lei, nel cammino vocazionale, spetta il fare delle scelte. La comunità, come il singolo, sia sempre attenta nel forzare (spinti anche da buona fede) la mano e i tempi. Dio sa ciò che fa.
Quinto passo: maturare per educazione nella centralità del Cristo
L’uomo matura per educazione, perché viene aiutato a “tirar fuori” (= educare, educere) ciò che è ed è chiamato ad essere. A volte, anche in ambito di discernimento vocazionale, si ha l’impazienza di arrivare subito all’esperienza di fede, alla risposta vocazionale concreta. La parrocchia, la guida spirituale, in tal senso, hanno un ruolo importante, perché sono chiamati a mediare tra il seme gettato che deve crescere e il terreno che lo deve accogliere. La centralità di Gesù è allora quanto mai fondamentale. E si potrebbe obiettare: ma deve essere al centro di più la Chiesa o Gesù Cristo? L’uno vive dell’altro. Accompagnare nel cammino di fede un giovane, vuol dire aiutarlo a riconoscere Cristo nella Chiesa, la Chiesa nel Cristo ed entrambi nella sua vita. Al quesito posto all’inizio: quando si può definire che un giovane è cristiano? possiamo rispondere: quando lo si aiuta a vivere ed essere Chiesa, a vivere ed essere di Cristo. Con il mondo giovanile dobbiamo essere molto attenti: il vangelo non va mai adattato o sminuito, ma va fatto brillare in tutta la sua lucentezza. Quando il vangelo viene adattato, e così dicasi per la proposta del Cristo, il giovane reagisce con la fatica di scegliere. In che senso? È troppo ripiegato su se stesso, sui propri limiti e difficoltà, sulla propria inadeguatezza. Che cosa lo rialza o lo riabilita? Un annuncio di Gesù di Nazareth nella sua integrità, senza sconti alcuni o abbuoni a buon mercato.
Sesto passo: nella ricchezza della rinuncia, la bellezza della essenzialità
Con questo ultimo passo, vorrei offrire alcuni spunti per una lettura incrociata tra pastorale giovanile e pastorale vocazionale. Consapevoli (anche se non sempre lo si è!), che queste realtà sono due rami della stessa pianta, vi sono alcuni distinguo che è bene fare perché non si vengano a perdere le specificità dei rispettivi ambiti.
– Se la pastorale giovanile è chiamata a rendere un servizio di animazione a 360° della vita del giovane, il servizio vocazionale invita il giovane a porre attenzione su alcuni aspetti della propria vita e personalità, quelli che avverte sempre più come “calamitanti la gioia”. Su questi, iniziare a lavorarci, perché il terreno venga sempre più dissodato ed affiori la preziosità che esso contiene.
– Se la pastorale giovanile svolge, tra i tanti, il compito di preparare i giovani agli eventi comunitari, diocesani e internazionali, e in essi a viverli al meglio, il servizio vocazionale è chiamata a proporre “l’osso duro” della costanza e perseveranza. Dico osso duro, perché i giovani, oggi più che mai, abbracciano con entusiasmo un percorso e con altrettanto entusiasmo frenetico abbandonano ciò che avevano iniziato. Evitano tutto ciò che è costante, che li tiene al chiodo, che li costringe quotidianamente a rimettersi in discussione, perché è faticoso, poco gratificante al momento e soprattutto perché non dà risultati immediati (elemento questo riscontrato nell’incontro con giovani in formazione nei seminari, noviziati di religiosi/e). Ma la costanza e perseveranza, categorie altamente bibliche, sono pane duro che non possiamo sottrarre ai denti dei giovani. La costanza ti dice che i tempi non sono i tuoi, ma quelli di Dio, che la voglia di arrivare alla meta per le tue strade ripaga con risultati poveri e che hanno il sapore dell’autoaffermazione su Dio. “Con la vostra perseveranza, salverete le vostre anime” (Lc 21,19) a conclusione di un discorso che Gesù fa, proprio sulla fatica della testimonianza di vivere da cristiani e sugli inganni che vengono dal mondo.
– Se la pastorale giovanile è chiamata a porre nel paniere dell’animazione molteplici proposte, iniziative ed eventi, il servizio vocazionale ha il compito di aiutare il giovane ad andare all’essenziale, di stringere. Pertanto, il valore della rinuncia non sarà vissuto e visto solo come un mero non possedere o non poter fare, ma un annunciare la ricchezza che ciò che si è trovato e scoperto mi basta. “Chi ha Dio, nulla gli manca” (S. Teresa). L’essenzialità non come sinonimo del poco, ma dal lasciarsi invadere dal Tutto che si fa bellezza e pienezza di vita. A tal proposito (ma non è questa la sede ed il momento), sono significativi quei cammini vocazionali dove il giovane si farcisce la vita con tante dinamiche, esperienze, incontri – non perché necessari alla vocazione – ma come un riempire dei vuoti che respingono l’essere abitati da Dio. Giovani che oltre i trent’anni continuano a partecipare a ritiri, esercizi spirituali, settimane di spiritualità per capire cosa Dio vuole da loro, a mio avviso, con molta più fatica lo capiranno, non sarà facile sbloccarsi, perché non lo vogliono capire e saranno eterni pellegrini di loro stessi, insoddisfatti della vita e alla ricerca chissà di quale Dio.
Termino questa riflessione, che ha avuto come sfondo una parte dello scenario ecclesiale della vocazione, con la parola di S. Agostino, perché sia la preoccupazione di ogni lavoro vocazionale nei confronti di un giovane e la vocazione di Dio in lui: “Una cosa terribile per un uomo è condurre una vita senza speranza; ma la realtà ancora più terribile è l’avere una speranza senza fondamenta”.
Note
[1] Tratto dal documento finale dei lavori della 52a Assemblea della CEI, 17-20 maggio 2004:
Al centro dei lavori assembleari è stata la Nota pastorale “Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia”, approvata dopo un ampio e ricco dibattito. Con le integrazioni richieste, sarà al più presto consegnata alle comunità ecclesiali. Dal testo emerge la convinzione profonda che la Chiesa italiana ritiene di non poter fare a meno della parrocchia, sia per il suo legame con il territorio e il radicamento popolare, sia per il richiamo a un processo di rinnovamento della pastorale che vede la parrocchia protagonista attiva della “nuova evangelizzazione” e impegnata a riappropriarsi del suo volto missionario. I tratti principali di tale volto sono articolati nella Nota attorno a tre questioni di fondo: la concentrazione sull’essenziale, cioè il servizio alla fede delle persone; il nesso tra parrocchia e iniziazione cristiana; la logica “integrativa” della “conversione missionaria” della parrocchia.
La pastorale parrocchiale dovrà rafforzare la scelta dell’evangelizzazione, l’impegno generoso per aiutare tutti a incontrare personalmente il Signore, a vivere nella sua amicizia e a fare del Vangelo la propria regola di vita e il criterio di valutazione di ogni cosa. Ne deriva una più attenta accoglienza verso chi pone domande di fede e verso le nuove generazioni, facendo dell’iniziazione cristiana il culmine di un itinerario catecumenale che apre all’approfondimento mistagogico e all’impegno testimoniale. Dalle sperimentazioni regionali nell’ambito dell’iniziazione cristiana emerge uno spostamento progressivo verso gli adulti che necessitano del primo annuncio.