N.04
Luglio/Agosto 2004

Le resistenze a scegliere in tre esempi veterotestamentari: Mosè, Geremia, Giona

La prospettiva del presente contributo cerca di leggere i racconti vocazionali e l’esito delle missioni profetiche, entro cui si interpretano le resistenze a scegliere, nel più ampio e articolato orizzonte teologico della categoria di “appartenenza” a Dio e al suo progetto di salvezza[1]. Non c’è dubbio che le scene di vocazione costituiscono i racconti più impressionanti riportati nei testi biblici[2]. Infatti, dalle narrazioni della chiamata-missione di Mosè, di Geremia e di Giona è possibile constatare come le resistenze e le fatiche che emergono nel dialogo introspettivo dei personaggi evidenziano la complessità dell’esperienza vocazionale e la crisi dell’appartenenza o il rifiuto di entrare nel “disegno di Dio”.

Sappiamo che tutte le vocazioni hanno come oggetto una missione specifica che Jahwe affida a singoli, a gruppi selezionati o all’intera comunità. Ciascuna vocazione presuppone un’elezione divina, una chiamata personale e sconvolgente che Dio rivolge alla coscienza del singolo, trasformando il suo destino in modo profondo. È proprio a partire da questa iniziativa unica ed irripetibile che il chiamato sperimenta la sua appartenenza a Dio e orienta il senso del proprio agire. Di fatto le resistenze a scegliere delineano in modo vario una sottostante “crisi di appartenenza”. Se appartenere significa “avere/sentirsi parte” di qualcosa e di qualcuno, una cultura anti-vocazionale, espressa mediante una significativa serie di resistenze, non può che implicare una situazione di instabilità e di solitudine progettuale. Tali conseguenze si registrano anche nei racconti biblici.

La categoria dell’appartenenza indica una triplice relazione: in rapporto alle cose (l’idea di possedere); in rapporto alle persone (l’idea di partecipare, di comunicare, di trovare affetto, amicizia, solidarietà, comunione); in rapporto alla sfera della propria interiorità spirituale e della relazione con Dio (entrare in comunione con il mistero divino, partecipare alla sua vita, sentirsi coinvolti nel suo progetto di salvezza). Le resistenze a scegliere coinvolgono tutte e tre queste dimensioni: nella vita di Mosè, come in quella di Geremia e nella breve esperienza profetica di Giona si può osservare come la fatica a scegliere e l’opposizione al disegno divino passano dal livello del fare a quello della relazione, fino a coinvolgere la comunione profonda con un “Dio sempre diverso dalla nostra proiezione immaginativa”.

Seguendo a grandi linee il metodo narratologico applicato ai testi biblici si può constatare come i racconti non sono semplici descrizioni storiche, ma hanno una ricaduta esistenziale e sapienziale nel lettore e nella comunità che ascolta. Per tale ragione la sottolineatura delle crisi e delle resistenze a scegliere possiede una chiara “funzione narrativa e drammatica”, che permette di conoscere in profondità i personaggi biblici e il loro ruolo nel progetto di Dio. Il nostro approccio sarà di tipo sincronico-narrativo, senza la pretesa di esaurire le questioni letterarie che fanno da sfondo alla composizione dei testi. 

Tra numerosi personaggi biblici che si potrebbero analizzare, focalizzeremo in modo esemplare la fatica a scegliere rintracciabile nei profili di Mosè, Geremia e Giona, che rappresentano tre figure esemplari della dialettica vocazionale-missionaria. La preferenza per questi tre personaggi biblici è dovuta al contesto storico-sociale e teologico-letterario dei tre protagonisti, che fotografano momenti diversi della storia di Israele: l’esodo dall’Egitto e il cammino verso la terra promessa (sec. XIII-XII), la situazione di crisi di Giuda e la disfatta dell’esilio babilonese (sec. VII-VI) e la vicenda didattica di Giona con la sua prospettiva di apertura universalistica, contestualizzata nel periodo post-esilico (sec. V-IV).

Nondimeno, pur tenendo conto delle evidenti diversità letterarie e teologiche, nella vicenda di questi tre personaggi sembra ripetersi e sovrapporsi una sorta di cliché teologico-narrativo centrato sull’itinerario vocazionale e articolato in tre momenti: la vocazione frutto dell’iniziativa divina; la missione contrassegnata da resistenze, crisi e prove; l’epilogo, che diventa una chiave interpretativa illuminante per comprendere come la storia della vocazione di ciascun profeta costituisca una parte della più grande avventura della salvezza.

 

 

Mosè

Il profilo narrativo[3]

La straordinaria figura di Mosè è tematizzata nel panorama teologico veterotestamentario come il profeta leader e la guida dell’Esodo, evento di liberazione e di alleanza. La sua rilevanza domina non solo il filo narrativo del Pentateuco[4], ma viene rievocata ampiamente nel Salmi e nei libri profetici. Parimenti la sua elaborazione teologica riveste un ruolo notevole nel Nuovo Testamento[5]. Nel discorso di Stefano prima del martirio, la vicenda di Mosè (At 7,20-40) è collocata nel grande orizzonte della storia salvifica che Dio ha realizzato attraverso la chiamata dei patriarchi e l’intervento in Egitto, apparendo al suo servo nel deserto del Sinai (At 7,30). C. M. Martini[6] ha evidenziato come nella tradizione rabbinica, la vicenda del personaggio esodale vissuto 120 anni (Dt 34,7), è stata periodizzata in tre tappe di quarant’anni, così come altri protagonisti del rabbinismo: “Egli fu uno dei quattro che vissero centoventi anni, sono: Hillel, Rabban Iohhanan Ben Zaccai, Rabbì Akiba. Mosè passò quarant’anni in Egitto, passò quarant’anni in Madian e per quarant’anni servì Israele”. Da questa intuizione possiamo trarre una chiave di lettura per comprendere come la vocazione-missione di Mosè “servo di Dio” sia caratterizzata da un percorso progressivo, a tappe che si succedono secondo la crescita della consapevolezza della volontà di Dio. Soltanto dopo molte esperienze e resistenze, stanchezze e crisi, Mosè capisce cosa Dio vuole da lui e a che cosa lo chiama. A differenza di Abramo, la vicenda esistenziale e spirituale di Mosè è contrassegnata da esperienze e sbagli, da cui egli deve tornare indietro, finché non arriva a comprendere qual’è finalmente la sua vocazione[7]. Nell’economia narrativa delle vicende descritte nel Pentateuco, le resistenze a scegliere costituiscono la dialettica della ricerca/scoperta della volontà di Dio. Seguendo la descrizione sintetica di At 7,20-40, la prima tappa può essere facilmente definita come “l’educazione di Mosè” (At 7,20-22), i primi quarant’anni in cui il protagonista, salvato dalle acque, riceve un’educazione raffinata, entra nel possesso delle sue piene possibilità e si avvale di tutte le opportunità offertegli dalla straordinaria civiltà della corte egiziana. La seconda tappa (At 7,23-29) segna il passaggio ad una nuova situazione: dai progetti alla realtà della schiavitù del suo popolo. Arriva la prova inaspettata che richiede coraggio e determinazione: Mosè fugge via e improvvisamente diventa un emarginato. Egli va ad abitare in una terra straniera, dove forma una famiglia. In realtà egli fugge la sua umanità scappando dallo scenario dei suoi sogni, costituito dal favoloso passato in terra d’Egitto e si immerge nella vita privata, chiudendosi ai problemi del popolo e cercando la quiete e il benessere personale. Ma proprio in questo contesto inizia la scoperta della vocazione.

 

La vocazione

La vocazione di Mosè è da considerarsi un vero itinerario, una sorta di “esodo dentro l’esodo”. Le pagine di Es 3-6 costituiscono il primo stadio della scoperta della vocazione attraverso quello che R. Fabris chiama l’“esodo personale di Mosè”[8]. In questo tempo di solitudine e di abbandono, mentre il profugo si purifica nel crogiuolo della sua sofferenza[9], avviene la chiamata attraverso la manifestazione divina nel fuoco del roveto. Il Signore si manifesta imprevedibilmente come “Dio di tuo padre, di Abramo, di Isacco e di Giacobbe” (Es 3,6) e lo manda a liberare il suo popolo. È un Dio che chiama per nome e dice il suo nome, che sta dentro le vere relazioni familiari (non quelle della corte egiziana!), i patriarchi che “appartengono” a Mosè e al suo popolo, perché sono “parte della sua storia” e senza le quali egli non potrà capirsi, né capire gli avvenimenti drammatici che stanno accadendo. Dunque, la raffinata formazione egiziana dei primi quarant’anni non è bastata: in Mosè comincia a nascere una visione nuova della sua realtà personale, diversa da quella che egli aveva progettato. Egli si meraviglia, vede, ascolta, intende![10] Le parole della chiamata e dell’invio, sentite riecheggiare in un luogo di esilio e di emarginazione, gli rivelano che egli “appartiene a Dio” e che la terra dove risiede non è luogo straniero e maledetto, bensì “terra santa”. La vocazione rappresenta qui una presa di coscienza dell’errore che Mosè aveva fatto in Egitto seguendo i suoi calcoli, agendo come se fosse lui il responsabile e il protettore dei “figli di Israele”. A partire dalla teofania del roveto ardente, il protagonista intuisce che non è lui ad aver visto le sofferenze del suo popolo in schiavitù, bensì Dio (Es 2,24-25)[11]. Proprio in questo contesto vediamo emergere le “resistenze a scegliere”, le resistenze di fronte alla missione decisa da Jahwe. Da una parte Dio si rivela come solidale con i poveri, gli oppressi, partecipe delle sofferenze del suo popolo (Es 3,7-9), dall’altra Mosè, chiamato a rendere presente in mezzo al popolo questa partecipazione salvifica di Dio, entra in crisi e oppone resistenza. Dio fa appello alla sua fede, garantendogli: “Io sarò con te” (Es 3,12). Ma chi è Dio per Mosè? Quali decisione è chiamato a prendere? Cosa accadrà ora alla sua vita e alla sua nuova missione?

 

Le resistenze e la missione

Se focalizziamo meglio il racconto biblico di Es 3-4, ne fuoriesce un profilo vivace ed espressivo della debolezza umana e della sofferenza del personaggio dell’esodo. Egli cerca di prendere le distanze da un Dio imprevedibile! Alla prima resistenza di Mosè (Es 3,13) di fronte al disegno celeste, Dio si rivela come “Jahwe” ed invia Mosè in Egitto per riunire gli anziani del popolo e preparare la convocazione santa (Es 3,14-22). Mosè pone una seconda resistenza a scegliere, motivata dal tema della credibilità: l’incredulità del popolo richiede un “segno dimostrativo” (Es 4,1). In risposta, Jahwe affida al patriarca tre segni: il bastone (che si trasforma in serpente), la guarigione della mano (lebbrosa), il potere sulla trasformazione dell’acqua in sangue (Es 4,2-9). Mosè pone una terza resistenza: la difficoltà di parlare e l’incapacità di saper convincere il popolo (Es 4,10). Ancora una volta Dio gli promette l’assistenza e gli conferma la fiducia. Alla fine Mosè, messo alle strette, cerca di disimpegnarsi dal mandato (Es 4,13), ma Jahwe lo conferma nella missione e lo fa accompagnare dal fratello Aronne (Es 4,14-17)[12]. Le resistenze segnano una parabola dalla persona di Dio a quella del profeta, dall’ineffabile libertà di Jahwe alla situazione di paura e di impotenza dell’uomo! Il lettore può cogliere la fatica dell’esperienza vocazionale dalla dialettica drammatica tra resistenze e garanzie, fatica di comprendere “chi è Jahwe” e scoperta di un disegno più grande, che sconvolge il pastore di Madian. 

A ben vedere le insicurezze che producono le resistenze a scegliere sembrano avere una radice profonda nel cuore del protagonista: Mosè ha paura del mistero che gli sfugge, mentre vorrebbe avere Dio a suo servizio. Un Dio che lo garantisca contro gli insuccessi, che lo renda partecipe in qualche maniera della sua potenza. Implicitamente la fatica di colui che è chiamato nasce da un’idea falsa di Dio, da una concezione quasi magica secondo la quale la vocazione costituisce come una “formula sicura” che toglie il fastidio di pensare, che risolve i dubbi e i problemi, che elimina ogni possibilità di fallimento e di frustrazione. Ma non è così. Il primo vero esodo di Mosè è “uscire” dall’immagine falsa e magica di Dio, per avventurarsi nella fede che implica una relazione personale di affidamento e di appartenenza, di fiducia totale verso il Vivente. Mosè entra in crisi. Entra in crisi la sua idea “funzionale” di Dio e della vita. Il racconto esodale evidenzia drammaticamente l’acutizzarsi di questa crisi: la missione dei due fratelli non sarà trionfale, bensì deludente. Il faraone si oppone e si irrigidisce, peggiorando la situazione dei figli di Israele (Es 5,1-21). Mosè si interroga sul senso della sua vocazione e missione, prendendo le distanze da Dio: “Mio Signore, perché hai maltrattato questo popolo? Perché dunque mi hai inviato? Da quando sono venuto dal faraone per parlargli in tuo nome, egli ha fatto del male a questo popolo e tu non hai per nulla liberato il tuo popolo!” (Es 5,22).

Incomincia così, attraverso le resistenze, le difficoltà, le incertezze, il cammino progressivo della scoperta della vocazione e della missione del grande protagonista, che gradualmente entra nella logica misteriosa dell’affidamento e dell’appartenenza a Jahwe, diventa “sua proprietà”. Questa dialettica risulterà una costante nel prosieguo del racconto della liberazione e della successiva alleanza al Sinai. Mosè vive e scopre una graduale appartenenza a Dio e al suo popolo, alternando resistenza e fiducia, insicurezza e solidarietà di fronte al peso delle sue responsabilità. Così al momento del passaggio del Mar Rosso, mentre gli ebrei terrorizzati gridano per l’avvicinarsi dell’esercito egiziano, il patriarca invita alla fede e alla consolazione: “Non abbiate paura, siate forti e vedrete la salvezza del Signore” (Es 14,13). E qualche tempo dopo, nel momento critico a Massa e Meriba invoca il Signore: “Che farò io per questo popolo? Ancora un poco e mi lapideranno!” (Es 17,4). Egli si sente chiamato a superare gradualmente le sue resistenze e a maturare una fiducia fondamentale che gli permetterà di rincuorare il popolo nelle successive prove del deserto[13]. Mosè impara dalle sue resistenze a conoscersi e a conoscere sempre più la misteriosa grandezza di Jahwe. La fede di liberatore cresce in una progressiva “mediazione” caratterizzata da un rapporto profondo con Dio e nello stesso tempo dalla solidarietà con la sua gente, alla quale egli deve testimoniare la fedeltà di Jahwe.

Due testi di intercessione segnano in particolare la maturità della vicenda vocazionale mosaica: la preghiera a favore del popolo seguita al peccato idolatrico in Es 32-33 e la richiesta di aiuto in Nm 11,11-15, quando Mosè è al limite della sue forze. In Es 32-33 si racconta del peccato di infedeltà e del rinnegamento dell’alleanza che mette a dura prova la pazienza di Dio[14]. Mentre Mosè è impegnato sul Sinai, la comunità israelitica ai piedi della montagna decide di rinnegare la promessa della liberazione e della terra, per adorare un idolo e pretendere di averlo come guida sicura. Il racconto evidenzia il conflitto tra due diversi culti, due modi antitetici di concepire la preghiera e il rapporto con Dio. Da una parte il popolo si abbandona a riti orgiastici costruendosi un vitello d’oro, dall’altra Mosè vive la sua preghiera nascosta in Dio, senza immagini ma in spirito e verità. Egli è presentato come prototipo dell’uomo orante, che contempla Jahwe e lo incontra “come un uomo parlerebbe con il suo amico” (Es 33,11). Questa seconda esperienza di incontro con Dio trasforma ulteriormente la persona di Mosè e rafforza la sua fiducia. Disceso dal monte, egli si mostra “amico” dei suoi fratelli e viene in loro difesa. Non solo sono cadute le resistenze a scegliere, ma la progressiva crescita della fede consente al legislatore di schierarsi dalla parte del popolo peccatore, per intercedere a favore della misericordia e della salvezza. Egli vive l’appartenenza a Dio e al popolo della sua promessa, disposto a dare la propria vita per la salvezza della sua gente (Es 32,11-13.32). È il “servizio della responsabilità” che rende sempre più cosciente l’uomo di fronte al progetto di Dio e lo trasforma in mediatore di salvezza. Già nell’episodio del combattimento contro Amalek, il patriarca sente “faticoso” pregare con le mani levate al cielo (Es 17,11). Egli impara a “pregare per la sua comunità” in lotta![15] Presso il Sinai egli diventa l’unico intercessore, pienamente solidale con la situazione di Israele: “Questo popolo ha commesso un grande peccato: si sono fatti un dio d’oro. Ma ora, se tu perdonassi il loro peccato… E se no, cancellami dal tuo libro che hai scritto!” (Es 32,31-32). Da una parte la giustizia di Jahwe, dall’altra la misericordia. La tentazione sarebbe quella di abbandonare il popolo peccatore al proprio destino di morte: rigettare Israele e la sua storia per la propria salvezza personale da cui sarebbe iniziata una nuova storia (Es 32,10: “Di te farò invece una grande nazione”). La dialettica resistenza/appartenenza risulta finalmente vincente! Alla scuola di Dio, Mosè ha imparato a superare le resistenze a scegliere, anche nelle situazioni di peccato: nella solidarietà si mostra la fedeltà e la fermezza.

La seconda intercessione è descritta nel contesto critico a Tabera (Nm 11). Di fronte al lamento del popolo, stanco del deserto, Mosè è presentato dal narratore in una condizione di estrema tentazione, per via della responsabilità schiacciante che egli porta. La resistenza a proseguire la sua missione si manifesta attraverso l’insicurezza e la grave crisi del suo animo. Mosè si mette di fronte a Jahwe e rivendica la sua missione:

Mosè udì il popolo che si lamentava in tutte le famiglie, ognuno all’ingresso della propria tenda; lo sdegno del Signore divampò e la cosa dispiacque anche a Mosè. Mosè disse al Signore: “Perché hai trattato così male il tuo servo? Perché non ho trovato grazia ai tuoi occhi, tanto che tu mi hai messo addosso il carico di tutto questo popolo? L’ho forse concepito io tutto questo popolo? O l’ho forse messo al mondo io perché tu mi dica: Pòrtatelo in grembo, come la balia porta il bambino lattante, fino al paese che tu hai promesso con giuramento ai suoi padri? … Io non posso da solo portare il peso di tutto questo popolo; è un peso troppo grave per me. Se mi devi trattare così, fammi morire piuttosto, fammi morire, se ho trovato grazia ai tuoi occhi; io non veda più la mia sventura!” (Nm 11,10-15)[16].

Anche in questo contesto il Signore accoglie l’intercessione di Mosè ed invia lo Spirito sui settantadue anziani (Nm 11,16-30). La preghiera mosaica pone in evidenza la dialettica tra resistenza e fiducia. Anche in questo caso Dio fa comprendere a Mosè che egli è a servizio del progetto di liberazione: egli dovrà fare la sua parte, restare al suo posto come “servo” di Dio, senza sottrarsi alla prova del cammino.

 

L’epilogo

In definitiva va sottolineata l’ambivalenza dell’esperienza vocazionale del profeta-liberatore, almeno secondo l’interpretazione che si riesce a cogliere nei racconti biblici. L’insegnamento è quello di constatare come le resistenze e le tentazioni permangono nella vita del protagonista, tanto da meritare l’esclusione dalla terra promessa. L’insegnamento è dato dalla incostanza e dalla debolezza della fede, che produce insicurezza ed è la radice di ogni resistenza. Significativa quanto enigmatica è l’interpretazione dell’epilogo della sua missione: Dio non gli permetterà di entrare nella terra promessa, perché la sua fiducia ha traballato. A Meriba (Nm 20,3-13) il Signore disse a Mosè e ad Aronne: “Poiché non avete avuto fiducia in me per dar gloria al mio santo nome agli occhi degli Israeliti, voi non introdurrete questa comunità nel paese che io le do” (Nm 20,12). È lo stesso protagonista a confessare umilmente in Dt 1,37-38: Anche contro di me si adirò il Signore, per causa vostra, e disse: Neanche tu vi entrerai, ma vi entrerà Giosuè, figlio di Nun, che sta al tuo servizio”. Commenta Martini: “Qui veramente siamo un po’ sconcertati. Questo Mosè che ha obbedito in tutto fino a questo punto, ora è preso da una crisi interiore, che prende corpo in una mancanza, di cui resta per noi misterioso il significato. Mosè avrebbe mancato di fede colpendo due volte la roccia? Secondo un’altra tradizione, invece, Mosè verrebbe punito a causa del popolo che si era rifiutato di salire da Cades verso Canaan… Noi crediamo di ascendere di virtù in virtù, ma certe volte improvvisamente c’è un crollo, o un momento difficile: non si regge più a quel peso che forse si era retto bene per anni. È un fatto a cui Mosè ha dovuto soggiacere. Egli ha avuto un momento di grave crisi interiore che poi avrà le sue conseguenze, accettate da Mosè con molta dignità, con molta umiltà, con molta semplicità di cuore”[17].

L’esemplarità della figura mosaica ci induce a riassumere in tre sintetiche proposizioni la realtà misteriosa della vocazione e delle resistenze a scegliere:

– le resistenze a scegliere rivelano la condizione dell’umanità del chiamato, la sua incapacità a pensare il progetto della salvezza “senza Dio” e a pensarsi “dentro” un progetto di salvezza;

– la dialettica tra resistenza ed appartenenza costituisce il nucleo ermeneutica della lotta spirituale che avviene nel cuore del chiamato. Tale lotta implica un processo di “esodo” da se stessi e dai propri schemi mentali verso un “tu” impegnativo e imprevedibile;

– la parabola dell’esperienza mosaica evidenzia la progressiva assimilazione del dono divino, che apre alla vita e alla speranza, ma anche il costante pericolo di “tornare indietro”, di cedere alla tentazione di nuove resistenze che impediscono un’apertura completa nel dispiegarsi del progetto divino.

 

 

Geremia

Il profilo narrativo[18]

La peculiarità di questo secondo personaggio è costituita dalla varietà e dalla ricchezza del libro profetico, carico di molti passi autobiografici, che rendono interessante la ricerca sulle resistenze a scegliere, ma che non sono facili da inquadrare. Sono state individuate almeno tre tipologie dei testi vocazionali riguardanti l’opera di Geremia: i racconti biografici in terza persona (cfr. Ger 19,1-3); le confessioni autobiografiche, molto vicine al genere delle lamentazioni e dei salmi penitenziali, in cui il profeta parla in prima persona (cfr. Ger 11,18-20); gli oracoli che rappresentano il modo in cui Geremia affronta concretamente la sua missione, che riguardano aspetti della vita personale e azioni simboliche (cfr. Ger 16,1-6; 19,1-2; 27,1-2). È interessante seguire il criterio progressivo della vicenda vocazionale del protagonista, cercando di mostrare la parabola ascendente della sua esperienza vocazionale, contrassegnata da resistenze e crisi[19]. Schematizzando la vicenda del noto protagonista, si può indicare una triplice fase vocazionale, nella quale vanno collocate le resistenze a scegliere. In primo luogo troviamo nel profeta chiamato da Dio ancora giovanissimo, una risposta di tipo “ricettivo”. In seguito Geremia matura una “fede oblativa”, tipica dello stadio giovanile, che gli consente di mettersi a servizio di Dio e della Legge con entusiasmo e voglia di fare. Tuttavia nel prosieguo della sua missione, il punto di arrivo dell’esperienza vocazionale è caratterizzato da un passaggio alla fede “adulta”, secondo la quale il profeta allarga la propria visuale in prospettiva universalistica e qualifica la propria relazione con Dio[20].

 

La vocazione

Nato in un ambiente rurale, nel villaggio di Anatot, Geremia si presenta come un uomo che vive le “resistenze a scegliere” in un conflitto che nasce dalla tensione tra l’ideale della tranquillità e della normalità della vita e la complessità del ministero profetico a cui Jahwe lo chiama, dopo averlo conosciuto ed amato “fin dal grembo materno” (Ger 1,4). La sua esperienza profetica espressa in una storia complicata e travagliata, quale quella giudaica della fine del VII secolo a.C., è collegata con questa coscienza perplessa e continuamente in crisi. In Ger 1 egli racconta la sua vocazione in modo autobiografico, facendoci penetrare nel mistero del suo singolarissimo rapporto con Dio. La vocazione non è qualcosa di già definito, ma un evento che matura dentro la sua personalità con resistenze e conflitti, mostrando come Dio incontra l’uomo nella fatica della sua psicologia, dei suoi limiti e delle sue paure. Rammentiamo il noto dialogo vocazionale che apre il libro: “Mi fu rivolta la parola del Signore: ‘Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni’”. È interessante vedere come nel profeta si colgono aspetti significativi della sua “fede recettiva”. L’iniziativa divina inizia con l’avverbio “prima”, nel senso che Dio precede! Il Dio descritto nel passo autobiografico è anzitutto “Colui che è all’inizio”, “Colui che gli ha dato tutto”, perché lo ha amato fin da principio. Geremia non può pensare alla sua esistenza senza la certezza psicologica ed affettiva che prima di essa c’è la chiamata divina. Così egli fa l’esperienza di sentirsi amato e chiamato da Dio, come un bambino che prendendo coscienza di se stesso si sente attorniato, protetto e assistito dai suoi genitori. Ma questa esperienza di fede “ricettiva”, che appare passiva ed ingenua per la sua condizione infantile, trova la sua resistenza nella graduale presa di coscienza della difficoltà della missione. Infatti Geremia stesso rivendica la sua iniziale inadeguatezza: “Risposi: ‘Ahimè, Signore Dio, ecco io non so parlare, perché sono giovane’”. L’obiezione del profeta non indica tanto un impedimento fisico, bensì una condizione sfavorevole rispetto agli anziani, i quali avevano diritto di parola. Il chiamato vuole dire: “Come faccio a presentarmi ai sacerdoti, ai magistrati, ai re, pivello ed imberbe come sono? Con quale autorità?”. Sembra riecheggiare in questo dialogo la simile resistenza di Mosè nell’esperienza vocazionale del roveto ardente. Anche in questo caso il Signore riprende il profeta: “Non dire: ‘Sono giovane’, ma va’ da coloro a cui ti manderò e annunzia ciò che io ti ordinerò. Non temerli, perché io sono con te per proteggerti” (Ger 1,4-8). Segue il gesto della purificazione della bocca e il mandato profetico: “Ecco, ti metto le mie parole sulla bocca. Ecco, oggi ti costituisco sopra i popoli e sopra i regni per sradicare e demolire, per distruggere e abbattere, per edificare e piantare”. Si può comprendere la situazione emotiva del “giovane” (na’ar) di fronte ad una missione così problematica[21]. Egli è investito di una parola rivoluzionaria, contraria a qualunque aspettativa umana, che improvvisamente gli chiede di pronunciarsi contro l’iniquità dei re, dei sacerdoti e dei potenti del tempo. La missione sembra impossibile, la tentazione della paura è grande. La paura è la prima grande resistenza di fronte alla chiamata. Lo desumiamo dal conforto che il Signore rivolge al giovane profeta: “Non temerli, perché io sono con te per proteggerti” (1,8) e più avanti: “Non spaventarti alla loro vista, altrimenti ti farò temere davanti a loro” (1,17). Sarà il tema della paura (Ger 17; 20) una delle grandi resistenze a scegliere e provocherà nel protagonista crisi e sconforto[22]. In questa pagina iniziale viene sottolineata la gratuità dell’azione di Dio che precede qualsiasi cedimento umano. Jahwe gli ripete: “Non temere” (‘al tîrā). Dio interviene nella vita del profeta prescindendo dalle qualità, dalle prestazioni e dai propositi dell’uomo: egli intende rivelare il suo amore gratuito, che diventa sostegno nella missione del profeta. Solo l’amore trasforma la resistenza della paura in “timore di Dio” (jir’ at’ ĕlōhîm). Egli vuole far comprendere a Geremia che l’amore misericordioso e liberante è la condizione preliminare per realizzare qualsiasi progetto, come la luce per poter vedere. E di luce Geremia ne avrà bisogno per cogliere il paradosso della sua difficile e travagliata missione[23].

 

Le resistenze e la missione

Nel contesto della sua attività pubblica, il profeta sperimenta numerose frustrazioni e riceve profonde ferite, perfino dalla sua gente di Anatot. Chiamato, mediante una predicazione radicale, a denunciare i peccati della società giudaica e la depravazione dei costumi[24] egli non cessa di invitare i suoi interlocutori alla conversione e alla fedeltà verso Dio (Ger 2,2), condizioni necessarie per scampare al castigo della distruzione e della morte (Ger 21,7-9; 24,10; 29,17). È qui da leggere la dimensione “oblativa” della missione del profeta, che invita i suoi interlocutori ad una nuova giustizia e moralità (cfr. Ger 7). Tuttavia egli non tarda a sperimentare la paradossalità della sua vocazione-missione, mediante la dura persecuzione e il dileggio. Nel suo animo sensibile si riflette pungente il contrasto tra la ribellione del popolo incorreggibile e le ragioni di Dio, che egli deve far valere; piange per l’ostinazione della sua gente (Ger 4,19-22; 8,23; 9,17; 13,17; 15,10s.15-18; 21,9) e intercede a favore del suo popolo (7,16; 11,24), da cui ottiene solo persecuzione, violenza e rifiuto. Il Signore stesso gli ricorda tristemente l’inutilità di pregare per questa nazione: qualsiasi intercessione sarebbe inutile senza la conversione del cuore (Ger 7,16; 14,11; 15,1). Alle resistenze del popolo si unisce l’esperienza della solitudine, l’amarezza dell’insuccesso, la crisi del ministero profetico, espressa nelle commoventi confessioni[25], che ritraggono la notte del profeta e la verità misteriosa della sua chiamata. In tal modo la ricettività che ha caratterizzato l’esordio della sua vocazione e l’oblatività dell’impegno etico vengono purificate dai continui insuccessi e dalle amare prove sperimentate nel ministero. Egli si rende sempre più conto di essere “profeta perseguitato”, che soffre ingiustamente contro la sua volontà! La lettura dei brani autobiografici evidenzia il contrasto presente nel suo animo: da una parte il lamento per la sofferenza, dall’altra la consapevolezza della prossimità di Dio. Ricordiamo il passo più noto:

“Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso. Sono diventato oggetto di scherno ogni giorno; ognuno si fa beffe di me. Quando parlo, devo gridare, devo proclamare: ‘Violenza! Oppressione!’. Così la parola del Signore è diventata per me motivo di obbrobrio e di scherno ogni giorno. Mi dicevo: ‘Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome!’. Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo. Sentivo le insinuazioni di molti: ‘Terrore all’intorno! Denunciatelo e lo denunceremo’. Tutti i miei amici spiavano la mia caduta: ‘Forse si lascerà trarre in inganno, così noi prevarremo su di lui, ci prenderemo la nostra vendetta’. Ma il Signore è al mio fianco come un prode valoroso, per questo i miei persecutori cadranno e non potranno prevalere; saranno molto confusi perché non riusciranno, la loro vergogna sarà eterna e incancellabile” (Ger 20,7-11).

Ecco la grande resistenza radicata nel cuore di Geremia: non vuole essere “uomo dei dolori”, maledice la sua vita, disprezza la parola ricevuta, rifiuta il ministero fallimentare: in definitiva egli si ribella al Dio che lo ha chiamato, non accetta di interpretare un servizio profetico di tal genere, nel contempo non accetta i tempi assurdi e le situazioni paradossali dietro i quali sembra nascondersi Jahwe! Egli deve imparare a conoscersi, ad amarsi, ad amare l’ineffabile mistero dell’Altissimo. Come? Ritornando a quel “prima”, con cui si è sentito amato e pensato da Jahwe. Dio conferma il profeta nella sua missione con gli stessi termini della prima vocazione (Ger 15,19s.; cfr. 1,18). L’esperienza di Geremia sembra quasi ricordarci che la luce della fede ha bisogno della “notte”, la vocazione ha bisogno della crisi, la disponibilità non può fare a meno delle resistenze. Così i testi delle confessioni rivelano come il momento di crisi si risolve con la memoria e il rinnovo della sua vocazione (cfr. 15,16; 20,11-13). Geremia si ribella perché ama, senza chiudersi in un vittimismo letale. Le resistenze fatte di critiche, di rabbie, di maledizioni, di lamenti non solo altro che la protesta della sua umanità ferita. Nella crisi egli rimane se stesso, rivelando la sua verità di fronte a Dio. Egli impara “dalla sua polvere” a non porre resistenze di fronte alla volontà del Signore. Si può dire con Y. Muffs che il linguaggio della ribellione e dell’accusa rappresenta una valvola di sfogo che il profeta utilizza di fronte alla situazione senza uscita della sua esistenza[26]. Ma questo percorso conosce un’ultima tappa, che segna la maturità della vocazione-missione profetica: la scoperta dell’amore misericordioso di Jahwe.

 

L’epilogo

Le crisi e le ribellioni, rilette nella prospettiva più ampia della personalità del profeta, rappresentano comunque situazioni temporanee di sfogo e di evasione. Cosciente della propria debolezza e delle sue resistenze ad obbedire alla Parola divina, vediamo paradossalmente crescere il profeta nel suo rapporto con Dio. Egli non permette mai alla sua angoscia di spingerlo fino alla rottura con il suo Signore. La paura legata alle conseguenze della sua situazione in realtà produce in Geremia una spinta ad affidarsi a Dio, come un bambino si affida alla madre. Egli rimane fedele e fermo nella volontà di Jahwe, persuaso che il Signore è sempre con lui (cfr. Ger 1,8.19; 11,20; 18,19). Nonostante il fallimento dei suoi sforzi, egli si ostina a predicare e a ricominciare sempre da capo un’opera che gli procura solamente delusione e tristezza. Per cogliere il senso di tutto questo, Geremia è costretto a vivere la sua storia “fino alla fine”: il disastro nazionale e la tragica morte in terra straniera. Attraverso le resistenze vissute interiormente ed esteriormente, egli sta imparando una fede eroica, viscerale, che costituirà il baluardo spirituale di fronte alla tragedia della distruzione di Gerusalemme e all’esilio del suo popolo. Il vero segno della maturità consiste nel passaggio da una fede intimistica e volontaristica ad una apertura universalistica, che fa di Geremia il “profeta delle nazioni”, colui che negli oracoli su Israele e sulle nazioni contempla la salvezza in un quadro comunitario universale. Da questo livello raggiunto, il profeta di Anatot coglie finalmente la centralità di Jahwe, che guida i destini della storia, di fronte all’incomprensibile disfatta. Solo adesso Geremia passa dalla resistenza alla “consolazione”, quando comprende che è Dio il solo a “scrivere” la storia della salvezza e della liberazione. Gli splendidi oracoli della consolazione (cfr. Ger 30-34) si aprono alla speranza nuova, che si realizzerà mediante la ricostruzione e il ritorno della pace in mezzo al popolo. Nella misericordia di Jahwe (Ger 31,3) il popolo sperimenterà l’alleanza nuova, mediante una legge scritta nel cuore (Ger 31,31-34). In definitiva possiamo segnalare tre aspetti conclusivi di questa straordinaria figura profetica:

– le resistenze a scegliere, manifestate nelle diverse situazioni, entrano a far parte del cammino vocazionale del profeta. Infatti la vicenda vocazionale, portando al limite le difficoltà per ogni singola esperienza di fede, fa camminare la vita del profeta in avanti secondo la sua dinamica progressiva;

– in Geremia fede e vocazione si intersecano: la crisi produce una dilatazione dell’esperienza vocazionale e una maturazione della fede;

– dai testi segnalati si evince come le resistenze a scegliere nascono da una visione imperfetta di Dio, del suo progetto e della sua volontà. Da una fede ricettiva e volontaristica che produce resistenze e crisi, occorre maturare una fede di filiale abbandono e di apertura universale. Di questo Geremia è autenticamente testimone.

 

 

Giona

Il profilo narrativo[27]

Il libretto didattico di Giona, figlio di Amittai (Gio 1,1) è considerato una “per la narrativa”, “un’opera magistrale”[28] all’interno dell’Antico Testamento. Seguendo la dialettica chiamata-risposta (cfr. Gio 1,1; 3,1; 4,1), il racconto si compone in tre atti così articolati: il rifiuto della missione di messaggero del Signore a Ninive (Gio 1,1-2,11); il “ritorno” del profeta e l’adempimento del mandato mediante la predicazione della conversione (Gio 3); la lezione data al profeta da parte di Jahwe (Gio 4). Pur presentandosi nelle vesti di un racconto storico, lo scritto è interpretato dalla maggioranza degli studiosi come un’opera didattico-edificante, per la composizione della quale l’autore si è servito di diversi materiali[29]. Il motivo dominante del libro è la salvezza offerta ai popoli nemici di Israele, rappresentati dagli abitanti di Ninive[30]. La peculiarità del messaggio contenuto nella vicenda del profeta israelitico sta nell’apertura della salvezza divina concessa a coloro che umiliarono il popolo eletto. Il problema sollevato da Giona con il suo comportamento è simile quello di Giobbe: egli pone in discussione la visione di Dio e della sua giustizia, che sembra venir meno nei confronti di Israele a motivo dell’apertura della salvezza ai popoli nemici. Nel quadro narrativo delle due opere si potrebbe vedere Giona come “amico di Dio”, allo stesso modo degli amici di Giobbe, quale avvocato di un Dio che deve essere fedele alle esigenze di una giustizia retributiva. Di conseguenza la rivelazione di un Dio “arbitrario”, incomprensibile, non più “custode della giustizia e del giusto”, produce nel profeta un ostacolo da cui si può solo fuggire! La resistenza di Giona nasce quindi da una domanda di giustizia e si colloca all’interno di una visione teologica conflittuale, sorta soprattutto nel periodo post-esilico, tra particolarismo e universalismo religioso in Israele. Prima e dopo l’esilio babilonese i profeti avevano annunciato la vendetta divina contro i popoli oppressori di Israele; lo scritto invece mostra come le minacce non erano assolute, ma condizionate. Dio “pieno di misericordia” si pente del male minacciato e perdona coloro che si convertono, senza badare alla stirpe alla quale appartengono (Gio 4,2), avendo pietà dei bambini innocenti e persino degli animali degli stranieri (Gio 4,11). “Radicalmente il problema di Giona è il problema teologico di un Dio che lascia cadere nel vuoto la sua parola, pur di salvare le sue creature, sembrando così contraddire non solo il suo profeta, ma anche se stesso”[31]. Tuttavia il racconto focalizza la vicenda vocazionale di Giona e soprattutto la resistenza a scegliere e ad obbedire a “questo Dio arbitrario”, che supera la sua idea di giustizia. La tensione narrativa è tutta incentrata sulla resistenza e la resa del protagonista e in ultimo, del lettore stesso.

 

La vocazione

Il libro si apre con l’incarico di Jahwe al profeta: “Fu rivolta a Giona figlio di Amittai questa parola del Signore: ‘Alzati, va’ a Ninive la grande città e in essa proclama che la loro malizia è salita fino a me’” (Gio 1,1-2). L’annuncio  da proclamare a Ninive sembra portare la minaccia del castigo: la città nemica per eccellenza che sembrava incamminata verso la catastrofe riceve in modo repentino ed inaspettato l’opportunità di riprendersi e di salvarsi. L’iniziativa divina di inviare un profeta ebreo ad una grande nazione pagana, nemica di Israele, per predicarvi la conversione è un fatto straordinario nella storia dell’Antico Testamento (cfr. i cicli di Elia ed Eliseo). Giona non solo oppone una resistenza spirituale, ma fugge dall’ordine divino prendendo la direzione opposta. Allo stesso modo nel successivo invio (Gio 3,1) egli, pur obbedendo al comando di annunciare la conversione a Ninive, resiste all’idea della salvezza dei nemici, sperando in un intervento punitivo e giustizialista nei confronti dei pagani (Gio 4,1). In definitiva la storia vocazionale del profeta porta in sé una resistenza che si esprime in forme diverse, ma che rimane tale nei riguardi dell’agire misericordioso di Jahwe.

 

Le resistenze e la missione

La resistenza al mandato divino consiste anzitutto nella disobbedienza. Il profeta si sottrae al giudizio sulla grande città pagana con la fuga: una nave lo porterà fino a Tarsis, il più lontano possibile dal progetto di Jahwe, nella direzione contraria rispetto a quella indicata dal Signore (Gio 1,3). Nella tempesta sopravvenuta improvvisamente si scopre che il profeta è il “disturbatore della pace” a causa del suo rapporto alterato con Dio: l’equipaggio si potrà salvare solo gettando in mare la pesante zavorra. Il filo della narrazione evidenzia la paradossalità della vicenda del profeta “sceso” nel basso del suo nascondimento: l’equipaggio composto da pagani, vedendo la conseguenza della collera del Signore nei confronti di Giona, invoca l’aiuto celeste ed offre sacrifici di ringraziamento per la salvezza ricevuta. I marinai si pongono sullo stesso livello del pio israelita, adoratore del Signore, divenendo veri seguaci di Dio. Alla resistenza di Giona il narratore oppone l’apertura e la fede dei marinai pagani, che anticipano l’esito della successiva predicazione a Ninive. Nell’economia del racconto si evidenzia come il profeta ebreo, rinnegando la vocazione di Jahwe, “scende” sempre di più in una situazione di solitudine e di annichilimento: “scende” a Giaffa, “scende” nel luogo più riposto della nave, “scende” nel sonno profondo, “scende” negli abissi marini ed infine “scende” nel ventre di un grosso pesce. Più in basso di così è impossibile scendere! La resistenza di fronte alla missione è descritta come un declino inesorabile verso la depressione e la morte. Giona si è cacciato in una strada senza uscita; egli non può più resistere a niente! Proprio in questa profonda miseria, Giona riesce a trovare la via del “ritorno” (sûb), espressa nella preghiera salmica che canta la salvezza ritrovata in Dio (Gio 2,3-10)[32]. Dopo tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, il Signore “fa rinascere” il profeta perché riprenda la sua missione una seconda volta (Gio 2,11). Al nuovo appello di Jahwe, Giona esegue alla lettera l’ordine e prende il cammino che lo porta a Ninive. Il racconto è composto in modo essenziale. Il profeta pronuncia cinque parole con poco entusiasmo, sempre più ritratto nelle sue resistenze: “Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta” (Gio 3,4). È un annuncio agghiacciante: il breve messaggio contiene la decisione divina di punire le colpe degli abitanti ed insieme l’aggiunta dell’attesa penitenziale dei quaranta giorni. La decisione di Jahwe è quella di salvare Ninive a condizione che la città riconosca il peccato e si converta (cfr. Gl 2,12-14; Dt 28,25-45; Lv 26,14.17). Il colpo di scena, per nulla pronosticato da Giona, è dato dalla risposta affermativa dei niniviti che il narratore delinea in modo enfatico: prontamente tutti, come fosse un solo uomo, dal primo all’ultimo obbedirono all’appello profetico e “credettero in Dio”. Si tratta di un cambiamento di vita coraggioso e pronto, celebrato in modo ufficiale con decreto regale (Gio 3,7-9), in contrasto con la lentezza neghittosa e la riluttanza ostinata dello stesso profeta. Il decreto regio termina con l’augurio che Dio desista dal progetto di distruggere la città constatando la sincerità della conversione dei niniviti. E la risposta non si fa attendere: in Gio 3,10 vengono riportati tre verbi che indicano in modo antropomorfico la decisione di Dio di salvare Ninive: cambiare, impietosirsi e deporre lo sdegno. Ma il profeta non si arrende di fronte a questa decisione di Jahwe: egli resiste ad un Dio misericordioso e ritiene passeggera la conversione degli stranieri (gôjim): il peccato non può essere cancellato mediante un semplice rito e perciò Dio dovrà procedere a fare giustizia. La sua estrema resistenza è descritta nel dialogo orante: il profeta giustifica il suo atteggiamento e le sue scelte contestando l’idea di un “Dio misericordioso, clemente, longanime e grande nell’amore” (Gio 4,2), di un Dio debole che si lascia impietosire. L’irritazione del profeta giunge al punto di desiderare la morte (Gio 4,3). Infatti, se è abolita ogni differenza tra ebrei e pagani, Giona non vede nessuna ragione per essere un adoratore di Jahwe e un profeta: sarebbe meglio la morte. Il desiderio della morte va inteso come l’estremo tentativo di fuggire da Dio, di resistere alla sua decisione, poiché secondo l’antica concezione ebraica la morte rappresenta il distacco totale e assoluto dall’essere divino.

 

L’epilogo

Assolto l’incarico, Giona si sposta ad oriente della grande città peccatrice per assistere personalmente all’umiliazione dei nemici del suo popolo, sotto un riparo di frasche all’ombra (Gio 4,5). L’ultimo atto della vicenda vocazionale (Gio 4,5-11), che segna il contrasto tra la resistenza di Giona ad accettare l’esito della sua missione e la logica compassionevole di Dio che salva, è costituito dall’esempio della pianta di ricino (qîqājôn). Il narratore sembra suggerire ai lettori che un mondo privato del ricino della grazia, ove Dio negasse i segni dell’albero della vita, sarebbe un mondo invivibile. Il ricino, per il quale il profeta prova gioia, è immagine del popolo perdonato e salvato dal creatore. La stessa vita di Giona, risparmiato malgrado il suo peccato e la sua resistenza, è un segno della salvezza celeste. In questa ottica va interpretata la missione profetica, aperta alle genti. Il libretto si conclude con la grande lezione sull’universalismo della salvezza. L’esistenza intera del profeta ebreo è segnata in definitiva dalla resistenza di fronte a questa idea di un Dio etico, inquadrato in un sistema retribuzionistico e particolaristico. Per Giona il comportamento di Jahwe rimane incomprensibile, scandaloso, misterioso. Da qui emerge anche il senso più autentico della vocazione-missione del protagonista: egli è chiamato ad andare oltre le proprie resistenze culturali e religiose, a superare la crisi che blocca il suo cuore e ad accogliere la novità dell’amore divino in cui si compie la vera giustizia. Per canto suo, Giona sembra non accettare il nuovo compito che Jahwe gli affida: egli sente di voler essere portatore della giustizia di Dio contro i nemici stranieri, mentre il suo annuncio diventa possibilità di perdono, invito alla conversione[33]. In definitiva anche nell’atteggiamento di Giona si evince l’idea della crisi di appartenenza ad un Dio diverso, che trasforma la missione profetica e cambia il senso e l’ordine della storia. Giona è chiamato ad entrare in questa nuova prospettiva.

 

 

Conclusione

La rassegna delle figure bibliche considerate ha cercato di evidenziare alcuni aspetti delle resistenze a scegliere nel quadro più ampio dell’esperienza della vocazione-missione dell’intero popolo di Israele, inteso come “popolo eletto da Jahwe” a diventare “sua proprietà” (segullāh, cfr. Es 19,5; Dt 7,6; 14,2; 26,18). In tutti e tre i personaggi abbiamo potuto evidenziare alcune costanti che ineriscono alla dinamica vocazionale nella categoria dell’appartenenza.

La prima costante concerne la dimensione psicologica della personalità dell’uomo chiamato da Dio nel suo contesto storico-esistenziale. La motivazione della resistenza non è primariamente di tipo ideologico, bensì psicologico. Il profeta interpreta la vocazione-missione di Jahwe come una sorta di estraneità, di intrusione dall’esterno, di imposizione dall’alto che lo rende schiavo delle sue paure e lo costringe a percorrere un itinerario opposto alle sue aspirazioni e ai suoi sogni. Tuttavia nel prosieguo della missione, le resistenze indicano una progressiva presa di coscienza e di appartenenza. La vocazione-missione diventa per il profeta e per la comunità destinataria del messaggio la vera ed unica chiave di lettura di come si possa affrontare la vita e le sue imprevedibili situazioni di schiavitù. In definitiva la vocazione-missione costituisce la strada della risposta, l’alternativa alla chiusura e al declino della propria potenzialità a realizzarsi. Appartenere significa sperimentare la singolarità dell’elezione e della predilezione di Dio.

Una seconda costante rilevabile dalle tre vicende vocazionali riguarda l’interpretazione della storia e del futuro. Il punto di vista dei tre personaggi chiamati alla missione produce un conflitto con la visione stereotipata che essi hanno di Jahwe e con il suo progetto inatteso. Il lettore coglie attraverso il dialogo narrato la diversità degli atteggiamenti e l’ironia delle reazioni e delle situazioni vissute dai personaggi. Essi vorrebbero che la storia personale e comunitaria nella quale sono collocati vitalmente procedesse secondo una logica diversa, una dinamica lucida, chiara, controllabile, positiva. Ma non è così: le resistenze e le crisi di fronte alle scelte invece testimoniano che la chiave interpretativa della storia sta proprio nell’accettazione della vocazione-missione affidata da Jahwe a ciascun chiamato. Rispondere a Dio equivale ad assumere una sapienza alternativa rispetto al modo umano di vedere le cose e la stessa vita personale. In tale prospettiva il futuro non è più visto dai profeti e dal lettore come un “oscuro baratro”, bensì come la concreta possibilità di divenire sempre più se stessi e di condividere il destino del proprio popolo. In Mosè questo si traduce concretamente nel “rifare” l’esodo verso la terra promessa, in Geremia nel “rifare” una “nuova alleanza” con Jahwe, in Giona nel “rifare” il cammino verso Ninive e proclamare la “salvezza universale” di Jahwe aperta a tutti.

Un’ultima costante da iscrivere nella dialettica resistenza/risposta sta nella scoperta di un Dio “altro e diverso” in relazione al modo di pensare del singolo chiamato e conseguentemente di un sistema teologico-religioso vigente. Così scopriamo solo alla fine della storia che Dio in Mosè si rivela “colui che è famiglia” e padre del popolo, in Geremia “colui che è amante” del suo popolo, in Giona “colui che è misericordioso” verso tutti. La strategia narrativa della fatica di scegliere incide notevolmente nel cuore dell’essere umano perché consente di oltrepassare la pura razionalità umana e di considerare la vocazione-missione come “condizione inalienabile” di liberazione dalla propria solitudine e dal ripiegamento autoreferenziale su se stessi. Ma appartenere è precisamente il contrario di questo processo, l’antitesi della resistenza a scegliere. Tutto questo non può accadere autonomamente, privatamente, ma richiede una dinamica esodale, una logica “responsoriale”, una dialogo con il Tu liberante di Dio che “chiama” alla vita, pur in mezzo alle resistenze e alla paure, chiama ad entrare in una singolarissima appartenenza, che costituisce il centro dell’unica ed universale vocazione all’amore. In definitiva, dalle tre vicende vocazionali possiamo enucleare la funzione dialettica della resistenza a scegliere e dell’accoglienza del progetto definitivo di Dio:

– in Mosè, abbiamo individuato come le resistenze a scegliere costituiscono la reazione di fronte all’imprevisto agire di Jahwe a favore del suo popolo. La graduale scoperta di questo processo porta il legislatore a “passare dalla parte della sua gente”. Dio educa Mosè ad una appartenenza sempre più profonda che diventa intercessione e cammino di fede. Tuttavia la sua instabile fiducia lo porta a rimanere fuori dall’eredità della terra promessa;

– in Geremia, abbiamo conosciuto un percorso graduale da una concezione intimistica della vocazione-missione ad una scoperta universalistica. La straordinaria umanità del profeta, messa a fuoco mediante le resistenze, ci ha rivelato il senso della vocazione inscritto nel “mistero dell’amore di Dio”. Geremia diventa così l’esempio della trasformazione del cuore nuovo e della nuova alleanza;

– in Giona, si schiude la prospettiva aperta da Geremia. La reticenza e l’opposizione dura del profeta di fronte alla predicazione salvifica verso gli stranieri viene letta come una resistenza non solo personale ma comunitaria. Dio è misericordia che compie ogni giustizia: la sua parola di vendetta viene meno di fronte alla risposta della conversione dei popoli.

 

 

 

Note

[1] Cfr. J. GUILLET, “elezione”, in X. LÉON-DUFOUR (ed.), Dizionario di Teologia Biblica, Torino 1976, 324-332; F. DREYFUS – P. GRELOT, “eredità”, in X. LÉON-DUFOUR (ed.), Dizionario di Teologia Biblica, 338-342; L. DE LORENZI, “elezione”, in P. ROSSANO – G. RAVASI – A. GIRLANDA (edd.), Nuovo dizionario di teologia biblica, Cinisello Balsamo 1988, 444-458.

[2] J. GUILLET, “vocazione”, in X. LÉON-DUFOUR (ed.), Dizionario di Teologia Biblica, 1399.

[3] Cfr. C. M. MARTINI, Vita di Mosè, Roma 1992; L. ALONSO SCHÖKEL – G. GUTIERREZ, La missione di Mosè, Roma 1991; A. SPREAFICO, Il libro dell’Esodo, Città Nuova, Roma 1992, 35-43; A. MELLO, “L’intercessione di Mosè (Es 32)”, PSV 3 (1981) 25-34.

[4] Cfr. la presentazione complessiva di M. BUBER, Mosè, (I classici dello Spirito), Milano 1997.

[5] Le attestazioni neotestamentarie: Mosè 80x, Davide 59x, Elia 40x (cfr. G. FITZER, “Moyses”, DENT, II, 445-450).

[6] C. M. MARTINI – A. VANHOYE, Bibbia e vocazione, Brescia 1982, 55ss.; C. M. MARTINI, Vita di Mosè, 33-35.

[7] A. NEHER nel suo libro L’essenza del profetismo (or. fr., Paris 1955), rileva a proposito di Mosè: “Un’esperienza nuova caratterizza Mosè come profeta, che Abramo non aveva conosciuto. È un’esperienza che introduce nel profetismo biblico un dato capitale: Mosè è il primo che prova la sofferenza della vocazione profetica… egli è il profeta del dubbio, del rifiuto, della rivolta, ed è a lui che noi ritorniamo incessantemente, quando cerchiamo incessantemente l’esempio di una profezia nel dolore” (cit. in C. M. MARTINI, Vita di Mosè, 95-96).

[8] Cfr. R. FABRIS, Il Dio che chiama, (Le Schede di Se Vuoi), Castelgandolfo 1980,15-24; C. M. MARTINI, Vita di Mosè, 29-43.

[9] Cfr. GREGORIO DI NISSA, La vita di Mosè, Alba 1967.

[10] Cfr. C. M. MARTINI, Vita di Mosè, 35-43; M. BUBER, Mosè, 34-50.

[11] “Mosè capisce una cosa fondamentale di ogni vocazione divina: la chiamata è iniziativa di Dio. Scopre ora, dopo due lunghi periodi di infatuazione personale e di disillusione, di amarezza, che l’iniziativa della salvezza viene da Dio; che non è lui a preoccuparsi del popolo, ma è Dio che, prima di lui, ha a cuore i suoi figli. Mosè è solo lo strumento delle preoccupazioni e delle premure di Dio, della realizzazione del suo piano di salvezza” (C. M. MARTINI – A. VANHOYE, Bibbia e vocazione, 65).

[12] Martini individua quattro aspetti della sofferenza del profeta, intitolandoli: a) la leggerezza di Mosè; b) le paure di Mosè; c) l’insicurezza di Mosè; d) la pazienza di Mosè (cfr. C. M. MARTINI, Vita di Mosè, 95-104).

[13] Rammentiamo alcune situazioni di prova e di resistenza nel cammino del deserto: le acque di Mara (Es 15,22-27), la manna e le quaglie (Es 16), l’acqua sgorgata dalla roccia a Massa e Meriba (Es 17,1-7 // Nm 20,1-11), il lamento del popolo contro Dio a Tabera (Nm 11,1-3), l’intercessione a Kibrot-Taava (Nm 11,4-15), la rivolta di Israele (Nm 14,1-9), la rivolta di Core, Datan e Abiram (Nm 16,1-15), il serpente di bronzo (Nm 21,4-9).

[14] Cfr. A. MELLO, “L’intercessione di Mosè (Es 32)”, 31-34.

[15] A. Mello evidenzia come la categoria della “lotta con Dio” esprime bene l’idea della “resistenza” e della “resa” (cfr. A. MELLO, “L’intercessione di Mosè (Es 32)”, 30-31).

[16] Seguiamo la versione della Bibbia CEI.

[17] C. M. MARTINI, Vita di Mosè, 102-103.

[18] Cfr. A. RIDOUARD, Geremia, la prova della fede, Roma 1983; P. BOVATI, “Conoscenza e giustizia nel profeta Geremia”, PSV 2(1988) 21-34; A. STADELMANN, “Geremia: l’alleanza tradita”, PSV 1(1989) 57-82; P. BOVATI, “Dio protagonista del ritorno in Geremia”, PSV 2(1990) 17-34. S. VIRGULIN, “Misericordia di Dio e misericordia del profeta (Geremia)”, PSV 1(1994) 51-62.

[19] Cfr. C. M. MARTINI – A. VANHOYE, Bibbia e vocazione, 155-174.

[20] Seguiamo le osservazioni metodologiche proposte da C. M. MARTINI (cfr. C. M. MARTINI – A. VANHOYE, Bibbia e vocazione, 155ss.).

[21] Le tre coppie dei verbi stanno ad indicare la radicale necessità di trasformazione e di conversione che Dio chiede al suo popolo, mediante la predicazione del profeta “giovanissimo”. Sulla stregua di Mosè, anche Geremia si sente inadatto ad un simile compito, credendo di dover prima maturare un’esperienza più adulta per potersi confrontare con i maggiorenti di Israele.

[22] Sul tema cfr. A. MELLO, “Terrore da ogni parte. Paura degli uomini e timore di Dio in Geremia”, PSV 1(1996) 69-80.

[23] Rimandiamo alla presentazione della missione di Geremia nel quadro della teologia del  “giusto perseguitato”, cfr. S. VIRGULIN, “Geremia: il giusto perseguitato”, PSV 2(1996) 73-84.

[24] Il profeta denuncia l’assurdità del peccato (Ger 2,13), l’abbandono di Dio (5,112s.), l’idolatria (7,16-20), il falso culto (6,20; 7,21-28), le false sicurezze religiose (7,1-15) le gravi ingiustizie sociali (5,26ss.; 12,1-5), la fiducia nel potere e nel denaro (17,5-13), la resistenza al messaggio dei profeti (6,16s.), il male che corrode il popolo (3,13; 13,23); il cuore malvagio ed incirconciso della gente (3,17; 7,24; 9,13; 11,8; 13,10; 16,12; 21,17).

[25] Cfr. Ger 11,18-12,5; 15,10-21; 17,14-18; 18,18-23; 20,7-18.

[26] Y. MUFFS, “Who will stand in the beach? A Study of Prophetic Intercession”, in Love and Joy. Law, Language and Religion in Ancient Israel, New York-Jerusalem 1992, 20-30.

[27] Cfr. E. J. BICKERMAN, Quattro libri stravaganti della Bibbia. Giona, Daniele, Kohelet, Ester, Bologna 1979, 19-64.

[28] Cfr. L. ALONSO SCHÖKEL – J. L. SICRE DIAZ, I profeti, Roma 1984, 1147.

[29] Il nome di Giona è preso da 2Re 14,25; esistono nessi con Es 27,25-36; Sal 107,23-30; Ger 3,8; 25,5 e vi sono allusioni al ciclo di Elia (cfr. 1Re 19,4.9s.), cfr. S. VIRGULIN, “La missione ai gentili nel libro di Giona”, PSV 2(1987) 65-79, (cfr. A. ROFÉ, Storie di profeti. La narrativa sui profeti nella Bibbia ebraica: generi letterari e storia, Brescia 1991, 180-200).

[30] Cfr. P. ROTA SCALABRINI – G. FACCHINETTI, “Ninive, la grande città. Giona”, PSV 2(1992) 67-86.

[31] Idem, 75.

[32] Per la discussa questione della formazione del testo e delle sue dipendenze letterarie, cfr. J. COHN, Das Buch Jona im Lichte der biblischen Erzählkunst, Assen 1969; G. BERNINI, Sofonia – Gioele – Abdia – Giona (NVB 31), Roma 1972, 243-245.

[33] È stato rilevato come la vita del profeta è in conflitto a causa di due immagini: da una parte Giona sembrerebbe un araldo che è mandato ad annunciare il decreto di Dio, dall’altra si presenta come sentinella, che predica il giudizio in vista della conversione. Nell’epilogo del racconto si vede bene come Dio riconcili le due figure (cfr. P. ROTA SCALABRINI – G. FACCHINETTI, “Ninive, la grande città. Giona”, 85).