N.05
Settembre/Ottobre 2004

Cultura, giovani e vocazioni

Il tema da sviluppare è ampio e complesso e meriterebbe una trattazione più articolata; in queste pagine sarà affrontato solo in alcuni suoi aspetti più importanti. Per meglio precisare il contesto spazio-temporale, nel quale intendiamo muoverci, ci collochiamo nella cornice dei congressi internazionali sulle vocazioni e delle assemblee sinodali che si sono svolte in preparazione al Giubileo dell’anno 2000; soprattutto nei Sinodi non poteva mancare la presa in esame della questione vocazionale dato che ciò non riguarda un ambito secondario, ma costituisce un passaggio nodale per la nuova evangelizzazione, per la vita stessa della Chiesa e della sua presenza nella storia. Pertanto, vorrei formulare queste mie considerazioni a partire dai numerosi spunti che si colgono negli eventi citati, ponendo una particolare attenzione al più circoscritto contesto culturale europeo.

Nel corso di questi appuntamenti ecclesiali e nei relativi documenti ufficiali, molti dei tratti descritti circa la cultura occidentale, le crisi riscontrabili nei vari luoghi, le tipologie dei giovani di oggi, con le loro fragilità mescolate a straordinarie potenzialità, vengono letti a partire dal tema della vocazione e, come ha detto Giovanni Paolo II, dalla necessità di “promuovere un salto di qualità nella pastorale vocazionale della Chiesa”[1]. Può essere utile ricordare, a mo’ di premessa, alcuni aspetti della vocazione che si connettono più direttamente con i caratteri culturali e con la psicologia giovanile, e che riprenderemo nel corso di queste riflessioni.

La vocazione, che è la chiamata di Dio rivolta all’uomo per operare a favore della storia della salvezza, è strettamente collegata con le attività della coscienza e della libertà e in armonia con le doti naturali e le inclinazioni dell’uomo; essa implica sempre una decisione personale libera, promossa dalla fede, e non ha mai uno scopo legato unicamente alla persona chiamata, ma riguarda tutti gli uomini.

La vocazione cristiana, e in particolare quella al sacerdozio e alla vita consacrata, non è, dunque, una scelta di buona volontà disincarnata, o una decisione isolata che tocca semplicemente un settore della vita, quella religiosa, ma l’espressione “personale” di tutta l’identità vocazionale concreta del soggetto che nasce e cresce dentro un preciso contesto culturale. Affinché colui che è oggetto della chiamata particolare a seguire Cristo possa comprendere appieno la propria vocazione e giungere a una decisione che coinvolga l’intera sua esistenza, occorre un delicato lavoro pedagogico di discernimento e di accompagnamento.

 

 

Cultura

Parlando di contesto culturale, dobbiamo intenderci, anzitutto, sul senso da dare alla parola “cultura”. Con questo concetto – sul quale sono stati scritti interi volumi – ci riferiamo fondamentalmente alla nozione di cultura che si trova nella Gaudium et spes (n. 53), con la sua connotazione ad un tempo intellettuale (la cultura coltivata) e antropologica (la cultura vissuta).

Al primo aspetto – quello relativo alla cultura coltivata – si riferiscono i molti effetti del processo scientifico e intellettuale verificatisi in occidente negli ultimi decenni: le nostre conoscenze delle realtà fisiche, biologiche ed astronomiche si sono arricchite; le scienze umane si sono ugualmente sviluppate e specializzate; le tecnologie più avanzate sono state applicate nei vari campi della medicina, dell’alimentazione, della produzione, degli scambi e delle comunicazioni. L’elettronica e l’informatica sono talmente progredite da creare un vero e proprio “telecosmo”. La ricerca scientifica è divenuta un settore proprio d’attività, una vera istituzione della società moderna e allo stesso tempo un obiettivo importante della politica degli Stati. Lo sviluppo scientifico produce delle scoperte straordinarie e meravigliose le quali, se non bene usate, contribuiscono alla distruzione dell’uomo e a terribili manipolazioni biologiche e psicologiche. Si può dire, dunque, che la scienza, come “istituzione” e come “politica” introduce molti elementi di novità che turbano le culture tradizionali[2].

In questa sede vogliamo interrogarci soprattutto sulla cultura dell’occidente, intesa in senso più ampio (ed è il secondo aspetto, quello della cultura viva), mettendoci sul piano dell’osservazione antropologica, quella che cerca di comprendere i modi di vita tipici, le psicologie collettive, i valori dominanti del mondo occidentale e le correnti portatrici di avvenire. In questa prospettiva, ci interessano soprattutto le evoluzioni e, quindi, le tendenze più che i tratti fissi dell’universo culturale, per cogliervi i riflessi sul mondo giovanile e sui percorsi di formazione cristiana delle giovani generazioni nonché le conseguenze che tutto ciò può produrre sulla tematica vocazionale.

Nel suo Messaggio al secondo Convegno europeo sulle vocazioni, Giovanni Paolo II scriveva: “La vita ha una struttura essenzialmente vocazionale […]. Tutta l’esistenza umana, pertanto, è risposta a Dio, che fa sentire il suo amore soprattutto in alcuni appuntamenti: la chiamata alla vita; l’ingresso nella comunione di grazia della sua Chiesa; l’invito a rendere nella comunità ecclesiale la propria testimonianza a Cristo secondo un progetto del tutto personale ed irripetibile; la convocazione alla comunione definitiva con Lui nell’ora della morte”[3]. In un orizzonte di così ampio respiro, accogliere il dono della vocazione e corrispondervi pienamente significa, per la persona chiamata, aderire ad un progetto globale di vita, vivere la “sequela di Cristo” e conformarvi la propria personalità attraverso un cammino di educazione integrale di tutto se stesso. Ma parlare oggi di educazione integrale della persona, senza incorrere in precomprensioni o

fraintendimenti, risulta estremamente problematico in quanto viene sostanzialmente eluso il postulato della “verità dell’uomo”, di quella verità sapienziale e totalizzante del senso di sé e delle cose, che fino a ieri poteva permettere non solo di pensare, ma anche di promuovere istituzionalmente una “paideia” della “persona integrale”[4]. Intendo dire che occorre essere consapevoli che oggi – soprattutto in occidente – ci troviamo in un contesto di vita segnato da un radicale e diffuso mutamento di paradigma culturale, di cui si deve necessariamente tenere conto, e nel quale risulta sempre più difficile educare la persona ad una unità psicofisica di esperienze ed emozioni, di bisogni e desideri, nonché di libertà etica e di capacità spirituale[5].

La crisi di verità intacca e rende fragili il progetto educativo complessivo della società civile e le relative agenzie della trasmissione culturale: famiglia, scuola, università, associazionismo, ecc. Questa crisi si abbatte anche, e forse con maggiore forza corrosiva e destabilizzante, sulle istituzioni formative religiose e, quindi, sui percorsi di formazione vocazionale[6]. Ecco perché l’Instrumentum laboris della Seconda Assemblea Sinodale dei Vescovi dell’Europa notava quanto segue: “Occorre promuovere un salto di qualità nella pastorale vocazionale delle Chiese europee poiché le mutate condizioni storiche e culturali esigono che la pastorale delle vocazioni sia percepita come uno degli obiettivi primari dell’intera Comunità cristiana; [occorre]… promuovere una nuova cultura vocazionale nei giovani e nelle famiglie”[7].

Il compito di discernere alcuni dei caratteri tipici della cultura attuale, al fine di comprendere con oggettività le condizioni storiche e concrete nelle quali anche oggi Cristo continua a rivolgere ai giovani la sua chiamata a seguirlo[8], non significa mancare di fiducia nei confronti della grazia o sottrarre tempo prezioso alla diretta attività pastorale, ma è una doverosa responsabilità di conoscenza concreta, necessariamente richiesta a chi è chiamato ad operare pastoralmente in questo campo. Cerchiamo perciò di riassumere sinteticamente alcune tra le sfide cruciali che si possono rilevare nell’attuale cultura occidentale e, in esse, proviamo a individuare le nuove opportunità per la pastorale vocazionale.

 

Alcuni tratti della cultura nelle società secolarizzate e pluraliste

Dalla constatazione delle situazioni di fatto e dalla lettura riflessiva, fatta in particolare dai Padri sinodali, si può ricavare un quadro delle società secolarizzate e pluraliste in cui la Chiesa del terzo millennio è chiamata a promuovere con slancio la nuova evangelizzazione. La rilevanza di questi elementi che connotano la cultura odierna è data dal fatto che essi concorrono a minare l’unità della persona o a spezzare i vincoli della comunità umana, rendendo più ardua l’opera di formazione della personalità matura nella fede, chiamata a seguire Cristo. Gli aspetti più interessanti per il nostro discorso possono essere sintetizzati in una serie di fratture strutturali e culturali:

– anzitutto, la rottura tra Vangelo e cultura, già lamentata da Paolo VI, costituisce il dramma della Chiesa dei tempi moderni, e viene risottolineata dai vari sinodi con ricchezza di riferimenti storici ed empirici[9];

– la divaricazione tra progresso e valori dello spirito, in particolare la divaricazione tra ordine socio-economico, tutto teso alla fruizione concorrenziale di beni materiali, e il proliferare inoffensivo di dichiarazioni di principio sulla dignità umana e la solidarietà sociale; tra un ordine sociopolitica nazionale e sopranazionale che si accaparra burocraticamente il potere, e la ricerca soggettiva di valorizzazione personale nei campi della partecipazione democratica, del volontariato, dell’impegno etico-religioso;

– la dissociazione tra l’imperante cultura scientifico-tecnica e i saperi umanistici e religiosi, questi ultimi ridotti spesso a discipline marginali e ininfluenti nei curricoli di studio e di formazione; è il gap tra il primato dei saperi strumentali, che offrono competenze spendibili nel mercato delle attività produttive, e la marginalità di fatto dei tradizionali saperi simbolici, più gratuiti e disinteressati, elaborati dalle cosiddette discipline dell’area di senso;

– la distinzione, che a volte si radicalizza in separazione, tra la sfera pubblica e la sfera privata dell’attività umana, con il conseguente abusivo confinamento dell’attività religiosa e delle scelte etiche individuali nella sfera del privato personale;

– la distanza, sofferta da certi pastori come un fallimento, tra l’azione pastorale della Chiesa e il mondo degli adolescenti e dei giovani, e più in generale la riconosciuta inadeguatezza tra i modelli di iniziazione cristiana tuttora in auge e una lunga parte delle nuove sensibilità giovanili;

– l’incomunicabilità tra il linguaggio di Chiesa e linguaggi dell’uomo secolarizzato[10]

Si potrebbero evocare altre fratture sottese qua o là nei testi sinodali, spesso sotto forma di semplici binomi quali: stato-Chiesa, laicità-confessionalità, autorità-democrazia, “cultura della vita”-“cultura della morte”… Sono fratture di varia natura, origine e portata che, per il loro potenziale dissociante, concorrono a rendere ancora più problematica la formazione all’unità della persona e un’educazione che ambisca a re-integrare i frammenti provenienti da più modelli coesistenti di vita nella totalità organica della persona[11].

Evidentemente anche le fratture culturali vanno interpretate nella loro portata positiva. Per esempio, il card. Danneels, nel suo intervento in aula (5.10.1999), scava nelle ambigue domande dell’uomo europeo e le riconosce pertinenti e stimolanti per la fede, in quanto, secondo lui: la sete di felicità può tradire una richiesta sensata circa la dimensione terapeutica della fede; il diffuso erotismo può essere sintomo di protesta contro i tabù della sofferenza e della morte, e contiene una domanda di escatologia; la curiosità verso altre credenze e religioni sollecita una rinnovata comprensione della salvezza cristiana; la stessa religiosità di importazione orientale può ri-orientare la spiritualità cristiana a evolvere da forme piuttosto culturali verso forme più profondamente cultuali.

Accanto a queste problematiche possiamo aggiungere un dato ulteriore. Nella cultura attuale si è diffuso anche il complesso fenomeno della religiosità del new age; essa si rivolge alla fame spirituale degli uomini e delle donne contemporanee attirandola verso forme di pensiero gnostico in cui la libertà, l’autenticità, l’autonomia e altri valori simili sono considerati sacri[12]. L’esistenza e il fervore del pensiero e della pratica del new age, oltre ad esercitare un grande fascino, testimoniano le inestinguibili aspirazioni dello spirito umano verso la trascendenza e il senso religioso, che non è solo un fenomeno culturale contemporaneo, ma era già evidente nel mondo antico sia cristiano che pagano. Giovanni Paolo II mette in guardia dalla rinascita di queste antiche idee e dice: “Non ci si può illudere che esso porti a un rinnovamento della religione. È soltanto un nuovo modo di praticare la gnosi, cioè quell’atteggiamento dello spirito che, in nome di una profonda conoscenza di Dio, finisce per stravolgere la Sua Parola sostituendo parole che sono soltanto umane. La gnosi non si è mai ritirata dal terreno del cristianesimo, ma ha sempre convissuto con esso, a volte sotto forma di corrente filosofica, più spesso con modalità religiose o parareligiose, indeciso anche se non dichiarato contrasto con ciò che è essenzialmente cristiano”[13].

Possiamo riassumere questo punto dicendo che le problematiche sociali e culturali indicate, sommate all’odierna mentalità tecnocratica, incidono profondamente sulla persona fino a crearle l’illusione dell’onnipotenza, generando così un soggetto che non è chiamato da nessuno, non ha bisogno e non vuole essere interpellato da alcuno perché basta a se stesso. È urgente, dunque, far nascere una nuova mentalità che sappia rispondere a queste sfide. Non è pensabile una pastorale vocazionale che prescinda da questo contesto e che venga delegata ad alcuni settori della comunità cristiana; anzi, direi che il primo obiettivo, cui dovrebbe mirare questo impegno pastorale è di ricreare un tessuto culturale che apprezzi e promuova l’idea di vocazione, insieme agli altri valori fondamentali relativi all’integrità della persona.

 

La Chiesa ed il cristiano dinanzi alle nuove sfide

Come affrontare la frattura tra fede e cultura, come vivere da cristiani in un contesto culturale pluralista? L’adesione a Cristo in una società nella quale la cultura non ripudia apertamente la religione, ma esalta valori, atteggiamenti e impostazioni di vita che, pur essendo espressioni di profonde esigenze umane, tuttavia sono tranquillamente a-religiosi, non può essere un fatto automatico. Il cristiano che vive in queste condizioni socio-culturali per aderire a Cristo dovrà coltivare nuove convinzioni, stili di vita spirituale e sociale e orientamenti di fondo, e radicarsi saldamente nei principi e nelle verità della fede attraverso un’autentica esperienza umana e cristiana. 

È evidente che in queste condizioni il fatto di appartenere alla Chiesa non si presenta come un possesso tranquillo della fede o un titolo passivo, ma diventa un’adesione alla Chiesa continua, positiva, voluta e liberamente rinnovata. La Chiesa, in altri termini, è chiamata ad educare i fedeli a unirsi più intimamente a Gesù Cristo per essere pronti a seguirlo, poiché Egli è la via autentica verso la felicità, la verità su Dio e la pienezza di vita per tutti gli uomini e per tutte le donne in grado di rispondere al Suo amore[14]. Questa costante riaffermazione della propria fede diventa per il cristiano una necessità spirituale; e la fede come abitudine bisogna che diventi un atteggiamento maturo, libero e adulto. Evidentemente, in questa linea, l’identificazione con la Chiesa comporta sperimentare anche un aspetto collettivo, comunitario della fede, fortemente segnato dalla partecipazione e quindi da un’adesione personale di ciascun credente. Questo tipo di identità religiosa suppone un’identità personalizzata, una conversione continua e un libero discernimento.

In queste condizioni di cultura pluralistica, la profondità delle crisi vissute della nostra epoca riporta l’uomo all’essenziale e lo impegna a salvare anche l’anima della sua civiltà con una risposta coraggiosa e intelligente. La comunità cristiana si sente sospinta a dare nuovo impulso al processo di evangelizzazione attraverso un profondo rinnovamento dei contenuti e dei metodi dell’annuncio evangelico, affinché produca effetti significativi sul piano culturale e sociale. E qui si innesta il tema dei giovani che Giovanni Paolo II nei suoi innumerevoli interventi rivolti a loro, e non soltanto nelle Giornate Mondiali della Gioventù, ha definito “la speranza della Chiesa e della società”. Parlare dei giovani e del loro futuro significa aprire il discorso alle tematiche dell’orientamento, delle scelte professionali e, quindi, della vocazione come scelta di vita. Non manca certo l’incoraggiamento del magistero a operare in questa direzione, soprattutto attraverso occasioni di incontro, di ascolto delle domande, di formazione cristiana e spirituale e di impegno nei diversi campi della carità[15].

 

Gli interrogativi rivolti alla pastorale vocazionale

Quali sono gli aspetti più direttamente connessi alla pastorale delle vocazioni che si evidenziano nell’attuale contesto socio-culturale? Mi soffermerò più diffusamente sul tema della vocazione nell’ultima parte. Per ora, in rapporto alle osservazioni sugli aspetti culturali in contesti di secolarizzazione e di pluralismo, vorrei evidenziare tre aspetti che interessano la pastorale delle vocazioni[16].

Anzitutto, va detto che spesso, per suscitare delle vocazioni, si è fatta valere la motivazione della “mancanza di preti”, del “bisogno di religiosi o di religiose”, utilizzando il linguaggio delle occupazioni profane e parlando di scelta di una professione secondo i bisogni dell’impiego o della “selezione del lavoro”, alla luce dei test attitudinali. La crisi delle vocazioni dipende, in gran parte, dal fatto che la “funzione clericale” non ha più, nella società pluralista, il significato sociale che essa aveva un tempo. Invocando ragioni di utilità professionale, reali ma insufficienti, per attrarre delle vocazioni, si rischia di secolarizzare una scelta di vita che deve distinguersi per la sua radice teologica e la sua novità evangelica rispetto ad ogni altra occupazione sociale. I mutamenti culturali che viviamo ci obbligano a ridefinire in termini biblico-teologici lo statuto dei chierici e dei religiosi, nella società attuale. Questo problema complesso interessa la Chiesa cattolica come le altre denominazioni[17]. Ovviamente è chiaro che quando si tratta di vocazioni, più che di scelta di una “occupazione” o di una “professione”, occorre parlare della risposta generosa ad un “appello” di amore a seguire Cristo e a lavorare al servizio della Chiesa.

Un secondo elemento da considerare riguarda la nozione concettuale di impegno permanente in una società nella quale è entrata in crisi la stabilità, il “per sempre”, come si può constatare nel campo occupazionale, delle professioni e anche della famiglia. Un tempo i giovani candidati al sacerdozio e alla vita religiosa entravano in comunità ecclesiali ben organizzate, con minimi rischi di instabilità, con soddisfazione per l’apparente sicurezza della loro esperienza e con fiducia nel loro avvenire. Oggi questa sicurezza, per diverse ragioni, non è più garantita. Come si possono, allora, invitare i giovani a un impegno definitivo? L’appello radicale va basato sulla scelta irrevocabile che solo la fede in Cristo può suscitare; la vocazione deve essere presentata ai giovani come un’adesione totale all’amicizia con Cristo, per servire gli uomini di oggi, attraverso organismi ecclesiali che spesso si vedono costretti ad inventare nuovi modi di evangelizzazione. Solo le motivazioni forti di adesione personale a Cristo, come fondamento della scelta di donazione, possono aiutare i giovani a non rifiutare l’impegno a servire nelle istituzioni della Chiesa che, con umiltà e fiducia, cercano nuove vie per evangelizzare l’umanità contemporanea.

Un terzo aspetto concerne l’immagine che la Chiesa – nella quale i giovani sono chiamati a servire – dà di se stessa come istituzione. Se è vista come un’organizzazione pesante e impersonale, essa susciterà nei giovani una reazione negativa e un senso di spersonalizzazione. La Chiesa, certo, non può nascondere il carattere istituzionale che le deriva dal Signore, ma dovrà permettere, soprattutto ai giovani, di scoprire e sperimentare personalmente la vita intima della comunità dei fedeli e la gioia di appartenervi. I giovani, e non solo loro, hanno bisogno di cogliere la Chiesa come una comunione fraterna, di fede, di preghiera, di carità, non chiusa in se stessa, ma aperta ai compiti nuovi della missionarietà e dell’evangelizzazione.   Questa comunità è chiamata a dare una testimonianza credibile di un reale impegno per la promozione della giustizia e dello sviluppo di tutti gli uomini, evitando tuttavia di confondere il ruolo dei preti e dei religiosi con quello degli esperti in questioni sociali o dei militanti politici. La vocazione personale è certamente legata anche al modo in cui la Chiesa definisce la propria vocazione nel mondo[18].

 

 

Giovani

Continuando le considerazioni già avviate sul mondo giovanile, ci chiediamo ora quali possono essere i riflessi che i tratti culturali più generali, sopra descritti, producono sui giovani. Molte ricerche si sono concentrate sullo studio delle problematiche giovanili arricchendo una vasta bibliografia in merito; esse mettono sostanzialmente in luce come i giovani siano fortemente condizionati nella loro libertà e si lascino oggi più facilmente coinvolgere in atteggiamenti chiaramente connotati dall’affermazione e dalla ricerca di sé.

In breve si può dire che i giovani, almeno in occidente, sono segnati da due elementi principali che si riscontrano nella cultura in cui vivono: la complessità e il soggettivismo. La prima categoria socio-culturale pone al giovane il problema della capacità di unificazione della libertà, di unità della persona, la sua capacità di integrare tutto entro una scelta riconosciuta come la scelta fondamentale da fare, scelta nella quale la vita intera trova il suo orientamento e risponde allo slancio che in profondità la pervade. L’altra categoria, quella del soggettivismo, chiama in causa la dimensione dialogale della libertà: l’unificazione della libertà implica, nella storia di una vocazione, una polarizzazione del suo dinamismo centrata sulla relazione con un Altro, riconosciuto capace di colmare l’attesa interiore o il movimento per il quale il soggetto è alla ricerca della sua propria verità[19].

Ma la constatazione più interessante che si deve aggiungere è data dal fatto che questi due tratti specifici – la complessità e il soggettivismo –, che richiamano come antidoto rispettivamente le esigenze di unità-libertà interiore e di relazione-alterità, caratterizzano un mondo giovanile che è nel medesimo tempo affetto da una sorta di “anemia spirituale”, causata a sua volta da una cultura materialistica, edonistica, consumistica e, quindi, neopagana[20]. I sintomi di questo rattrappimento spirituale dell’anima giovanile possono essere individuati in alcune manifestazioni tipiche, quali ad esempio: l’atteggiamento di “provvisorietà cronica” e di refrattarietà ad impegnarsi su temi sociali di ampio respiro, e su grandi progetti con coraggiose spinte ideali; un narcisismo che genera un’attenzione amplificata su di sé e la tendenza alla autoaffermazione a tutti i costi con la pretesa del “tutto e subito”; una bassa soglia di tolleranza alla sofferenza, avvertita sempre e comunque come un attentato al proprio diritto alla felicità (ciò ovviamente rende i giovani fragili nell’impatto con i problemi e li induce a reagire alle inevitabili frustrazioni con l’atteggiamento depressivo); il culto del divertimento che porta alla nevrosi dell’effimero e che si esprime nella ricerca di gratificazioni immediate, intense e fatue; la labilità affettiva, caratterizzata da grandi erogazioni emotive, ma di breve durata; il sacro subisce il fascino del prodigioso, dell’alternativo, dell’occulto, misurando troppo spesso l’esperienza spirituale con il metro del sensazionale e dell’intimistico o anche trasformando il Vangelo in uno dei tanti messaggi offerti a livello religioso.

Tuttavia, come hanno affermato i padri sinodali, il mondo giovanile, proprio perché è caratterizzato da ambivalenze e contraddittorietà, dietro a rilievi negativi nasconde potenzialità autentiche e grandi risorse, capaci di produrre straordinari sviluppi spirituali, sociali e culturali. Basti notare telegraficamente che nei giovani si riscontrano, ad esempio: un’anima aperta alla ricerca religiosa, non più imbrigliata nei condizionamenti ideologici; un’attenzione moltiplicata ai valori della persona; la sete di autentica libertà; l’apertura incondizionata al dialogo; la centralità assegnata all’amicizia; l’importanza attribuita alla solidarietà e alla giustizia; un accentuato bisogno di trasparenza e di autenticità; l’impegno per la pace; la sensibilità ai temi della mondialità e della comunicazione globale, consentita anche dalle moderne tecnologie informatiche; un sano apprezzamento del valore della corporeità.

 

Per un potenziamento della pastorale giovanile

Di fronte a queste luci e ombre che colorano l’universo giovanile non si deve cedere al pessimismo, ma bisogna alimentare la fiducia e sviluppare una pastorale della gioventù che fornisca ai giovani l’occasione di scoprire presto il valore del dono di sé come essenziale cammino di sviluppo della persona. “Si tratta di rinnovare e rilanciare la pastorale giovanile, conferendole organicità e coerenza, in un progetto globale che sappia esaltare la genialità dei giovani, purificare e assecondare le loro attese, renderli protagonisti dell’evangelizzazione e dell’edificazione della società”[21].

Si potrebbe affermare che, al riguardo di questo aspetto, la riflessione fatta dai Vescovi nelle assemblee sinodali mira a tre obiettivi principali:

– la pastorale giovanile è un terreno particolarmente fertile per sviluppare la pastorale vocazionale. Non è una sottolineatura nuova e originale, ma la volontà di ribadire un tema che è stato presente, nel periodo post-conciliare, praticamente in quasi tutti gli approfondimenti fatti da simposi, sinodi e congressi ad ogni livello. La Chiesa è invitata a progettare, con urgenza e con maggiore efficacia, un’azione pastorale adatta alla gioventù attuale; da questa sfida dipende la vita futura della Chiesa, in quanto “la gioventù non è solo il presente, ma soprattutto l’avvenire dell’umanità”[22]. Questa attenzione assumerà toni e caratteristiche diverse da continente a continente: in Africa, dove il 40 % dell’attuale popolazione ha meno di diciotto anni, la pastorale giovanile diventa il cuore della pastorale ordinaria; nel continente americano, ricco di valori umani e religiosi, occorrerà coltivare gli ambienti in cui nascono le vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata; nel continente asiatico viene richiamato l’importante ruolo della gioventù nella Chiesa e nella società civile; in Europa, terra di grandi sviluppi nel campo scientifico e di marcato benessere ma di calo demografico, va indubbiamente risvegliato il senso della vita e della solidarietà;

– i giovani vanno messi nelle condizioni di essere protagonisti e di assumersi degli impegni. A tutti i livelli, nelle parrocchie e nelle diocesi, nelle scuole e nelle comunità, i giovani dovrebbero essere invitati a prendere parte all’organizzazione di attività che li riguardano e li coinvolgono, a prendere parte attiva come protagonisti dell’evangelizzazione. Va curata, poi, la loro formazione affinché i giovani siano testimoni in mezzo ai loro coetanei: nessuno meglio dei giovani può essere in grado di evangelizzare gli ambienti frequentati da loro stessi;

– ai giovani va rivolto l’invito vocazionale esplicito. Le vocazioni sono un dono di Dio e “nascono nella comunità di fede, anzitutto nella famiglia, nella parrocchia, nelle scuole cattoliche e in altre organizzazioni della Chiesa. I Vescovi e i presbiteri hanno la speciale responsabilità di stimolare tali vocazioni mediante l’invito personale, e principalmente con la testimonianza di una vita di fedeltà, gioia, entusiasmo e santità”[23]. Dal punto di vista vocazionale risulta anche la chiara simpatia dei giovani per i modelli che si configurano in modo limpido e radicale nell’incarnazione dei valori evangelici. Si giustifica pertanto il diffuso interesse per la figura di Gesù, non solo come un leader tra i tanti, ma nel suo mistero di figlio di Dio, morto e risorto per l’intera umanità. 

Dall’insieme delle riflessioni e degli orientamenti dei padri sinodali, risulta evidente che, in questo contesto straordinario e drammatico della storia, proprio dentro un tempo attraversato da luci intense e da ombre dolorose, risuona ancora una volta, soprattutto per i giovani, l’invito forte e insistente dell’Onnipotente: “Siate santi perché io sono santo” (Lv 11,44). È un imperativo che Gesù ripresenta nel Vangelo, con una assolutezza che lascia stupefatti e quasi smarriti: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5,48). Proprio così: il Signore chiama i giovani di questo millennio a scalare le vette ardite e splendide della santità, fino a raggiungere “la perfezione della carità”[24]. Di tanti giovani si può dire ancora oggi dopo duemila anni che: “Gesù fissatolo lo amò” (Mc 10,21). Colui che ha creato l’uomo e conosce le fibre più nascoste del suo cuore, ha un progetto meraviglioso che può realizzare solo se incontra il suo “sì”. Ai giovani per primi è rivolto l’invito stupendo e sconvolgente: “Vieni e seguimi” (cfr. Mc 1,16-20).

 

 

Vocazioni

Dicevamo all’inizio che la vocazione è la chiamata di Dio rivolta all’uomo e che essa richiede una risposta personale e libera da parte di chi è chiamato. Dopo aver descritto le caratteristiche del giovane di oggi, riprendiamo il tema della vocazione per evidenziarne meglio le connessioni con la questione dell’identità personale e della libertà, e abbozzare gli elementi principali di una corretta pastorale vocazionale nelle condizioni culturali odierne. Sul piano culturale, appunto, non si può non constatare nell’Europa di oggi l’assenza della categoria “vocazione” come la intendiamo in senso cristiano. Ed è per questo che la sfida più grande per un’azione di pastorale vocazionale è data dal fatto che essa si rivolge ad una cultura in cui il modello antropologico prevalente sembra essere quello dell’“uomo senza vocazione”[25].

L’uomo senza vocazione è l’uomo che non percepisce come costitutivo di sé l’appello dell’altro e perciò è senza appartenenza, profondamente isolato e solitario. Il che vuol dire, nello stesso tempo, che egli si presenta anche come un essere fragile, non solo moralmente, ma innanzitutto come coscienza di sé e del senso della realtà. L’uomo senza appartenenza è più facilmente malleabile dal potere che governa una società, condizionato nei contenuti dei suoi giudizi dal potere dei “mass-media”. A questo tipo di uomo è assai difficile riuscire a percepire come significativa l’esperienza di fede, intesa come qualche cosa che inerisca profondamente la propria condizione umana[26]

 

Ricomprendere il significato di vocazione”

Parlare di “vocazione”, all’interno della vita della Chiesa[27], significa fare un essenziale riferimento a Dio, anche se essa contempla la risposta della persona. Ogni vocazione è sempre una storia di ineffabile dialogo tra Dio e l’uomo, tra l’amore di Dio che chiama e la libertà dell’uomo che risponde[28]. Perciò la risposta a Dio che chiama si mescola con il lungo iter di crescita e di formazione che porta l’uomo e la donna alla piena maturità. In questo senso, la vocazione è una realtà dinamica e storica, che s’inserisce nel processo evolutivo e maturativo della persona, si sviluppa e si consolida nel tempo e dentro un contesto umano, relazionale e culturale. L’appello gratuito e misterioso di Dio avviene normalmente attraverso delle mediazioni, sia individuali che comunitarie e sociali, sicché la vocazione rimane soggetta ai diversi condizionamenti personali, sociali e culturali ed evolve in relazione alle sfide o agli appelli dell’ambiente di vita, della storia o della cultura in cui vive. La via per il raggiungimento di una pienezza d’identità vocazionale resta sempre quella di assumere in forma matura le possibili difficoltà o condizionamenti di una società che cambia, senza paura di affrontare il cambiamento, nella fiducia che l’identità si consolida anziché perdersi se si rimane in atteggiamento di apertura e di ricerca costanti.

Al di là della definizione di vocazione e di come quello che possiamo chiamare “evento vocazionale” si impasta con il processo dinamico di crescita della persona, si deve notare che in ambito ecclesiale, soprattutto a partire dal Concilio Ecumenico Vaticano II, si è profilata una duplice utilizzazione del termine vocazione. Da un lato esso diventa qualche cosa che riguarda universalmente ogni battezzato; dall’altro, esso indica l’esigenza di descrivere la vocazione secondo differenti specificazioni, in riferimento all’attuarsi di ogni esistenza cristiana, come ad esempio si può vedere nelle seguenti successioni: “chiamata alla vita”, “chiamata alla configurazione a Cristo”, “chiamata alla Chiesa”, “chiamata alla santità”, ecc. [29]; oppure scansioni che dettagliano una “vocazione umana” (che include l’essere chiamato da Dio ad esistere, alla conoscenza, a dominare sulla creazione, a convivere con gli altri, a mettersi in relazione con Dio), e una “vocazione cristiana”; cui segue sulla stessa linea la “vocazione alla vita religiosa” (con le sue diversità) e successivamente la “vocazione al ministero gerarchico”, in relazione anche ai più diversi “ministeri non ordinati”. In sintesi, dalla lettura dei testi conciliari e dalla riflessione teologico- pastorale che ne è scaturita, siamo passati da un’immagine esclusiva di vocazione (relativa al sacerdozio ministeriale e alla vita consacrata) ad un’immagine inclusiva (vocazione universale alla santità) per giungere infine ad un’immagine particolarizzata al limite della frammentazione (con riferimento a cose molto diverse fra di loro)[30].

Certamente in tutto questo si impone la necessità di sottolineare anzitutto la vocazione propria del battezzato. In ciò mi sembra risieda anche la più profonda verità dell’affermazione conciliare circa la vocazione universale alla santità. Mentre il laico, prima del Concilio, rischiava di essere definito in base al suo essere né chierico, né religioso, oppure per la relazione alla secolarità (concepita in modo separato), ora, invece, considerare la vocazione del Christifidelis vuol dire comprendere il soggetto direttamente per il suo relazionarsi alla persona di Cristo e non ad un elemento successivo o secondario.

 

Vocazione e vocazioni

Se la vocazione principale, legata al battesimo, è quella della universale chiamata alla santità, le altre vocazioni – che possiamo chiamare speciali o qualificate – vanno concepite non come modi alternativi e nemmeno paralleli alla vocazione propria di ogni cristiano, ma semplicemente al loro servizio. In questo senso lo stato del sacerdozio ministeriale, che visto isolatamente rischia di essere compreso solo funzionalmente, va visto a partire dalla richiesta che Cristo fa ad alcuni di lasciare letteralmente tutto, all’interno del generale invito alla sequela. La differenza di tale vocazione, quindi, va colta nell’evento cristologico stesso, ossia nella duplice posizione che Cristo prende nei confronti dei suoi seguaci: egli forma la Chiesa in vista dell’avvento del regno nel mondo intero. All’interno di questo popolo nuovo, Cristo chiama alcuni letteralmente, mediante la propria vicenda personale, alla sequela di lui, ad una particolare conformazione alla sua persona, non evidentemente soltanto per se stessi, ma per il popolo di Dio e per la sua missione nel mondo[31]. La nascita di un sacerdozio ministeriale nella Chiesa, unitamente alla successione apostolica, è essenzialmente in vista del sacerdozio comune di tutti i battezzati ed è agganciata alla necessità di rappresentare l’oggettività del sacrificio di Cristo, l’autorità assoluta che Cristo accoglie dal Padre e che perciò rappresenta, e di perpetuare sensibilmente nel tempo e nello spazio, mediante il segno sacramentale, il gesto redentore di Cristo, rendendo così presente il suo perenne sacrificio di redenzione[32].

Questi cenni di carattere teologico, che ci aiutano a far luce sul rapporto tra la vocazione del battezzato e la vocazione particolare al sacerdozio[33], da intendersi come al servizio della vocazione di tutti, non sono elementi marginali e proprio per questo essi vanno collocati nell’orizzonte della comunità cristiana e calati nel contesto culturale. Se è vero che la sensibile diminuzione di vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata è il segno dell’affievolirsi di una profonda e viva esperienza cristiana[34], allora il terreno di una rinnovata scoperta della vita come vocazione è innanzitutto un’esperienza cristiana autentica, capace di cogliere e illuminare la verità ultima dell’esperienza umana fondamentale. La divisione dell’elemento umano da quello cristiano, e quindi la vocazione dalla percezione della vita, in quanto esito dell’epoca moderna, può essere superato proprio mostrando come l’annuncio cristiano consenta a chi lo accoglie di far percepire e di far vivere la vita intera come vocazione. Oggi i segni di ripresa vocazionale vengono registrati in quelle realtà ecclesiali, vecchie e nuove, che non rifiutano la modernità, ma che ad essa rispondono riscoprendo più profondamente Cristo, che fanno sperimentare come l’appartenenza alla comunità che accoglie il mistero d’amore rivelato da Cristo è il luogo dove l’uomo si sente salvato, dove il prossimo non è un ostacolo ma il segno dell’amore di Dio, dove la propria azione acquista una vera utilità per il mondo.

All’interno di queste intense esperienze comunitarie, si percepisce con maggiore chiarezza il profilo delle vocazioni specifiche. Infatti, è proprio in queste nuove condizioni ecclesiali e spirituali che germinano le vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. In particolare i presbiteri si sentono “chiamati a prolungare la presenza di Cristo, unico e sommo pastore, attualizzando il suo stile di vita e facendosi quasi sua trasparenza”[35]. Così come “per la sua stessa natura e missione sacramentale, il sacerdote appare, nella struttura della Chiesa, come segno della priorità assoluta e della gratuità della grazia, che alla Chiesa viene donata dal Cristo risorto”[36]. La coscienza dell’appello di Dio proviene spesso da una sorta di contagio; come è avvenuto per i discepoli che hanno subito il contagio di Gesù, così nell’esperienza della comunità cristiana viva, una forte esperienza di preghiera, l’incontro con un testimone evangelico, un dialogo profondo e sereno, possono introdurre in un universo in cui la persona incontra Cristo che fa sentire la sua chiamata. A questi aspetti, che erano caratteristici fino a poco tempo fa, nella cultura di oggi è necessario aggiungere altri elementi importanti: si ha bisogno di una sicurezza più grande per superare le esitazioni e le incertezze cosparse sul cammino, e di un contagio molto più avvolgente per l’insieme di tutti gli aspetti della persona. Visto in radice, il cammino da percorrere è quello che conduce alla dedizione di sé all’Altro riconosciuto come il tutto della vita. Sono, dunque, la scoperta di Dio Trinità d’Amore, inteso e accolto come il tutto della propria vita, e il “tirocinio dell’amore” che dovranno disciplinare tutti gli altri sentimenti della persona chiamata, smorzarli o suscitarli, in una logica che è quella della costante uscita da sé per imitare sempre meglio lo stile della vita divina. La libertà dei giovani non riuscirà ad integrare tutta la loro vita nella scelta del sacerdozio o della vita consacrata se il suo slancio non si polarizza sull’Altro a cui donarsi[37].

 

Il discernimento vocazionale

Da quanto è stato detto si comprende quanto sia importante ripensare la pastorale vocazionale e impostare correttamente l’opera di discernimento vocazionale. Il tema del discernimento costituisce un passaggio determinante, soprattutto per quanto riguarda la verifica dell’esistenza di una vocazione al sacerdozio e alla vita consacrata. Il discernimento si inserisce nel suo ambito naturale, che è quello educativo-formativo[38]. Non è questa la sede per analizzarne dettagliatamente le articolazioni pedagogiche, la natura, i criteri metodologici e le relative dinamiche. Ci limitiamo ad indicare alcuni passaggi fondamentali che vengono tratti dall’esperienza di chi opera da tempo in questo campo e, soprattutto, considerando la realtà delle comunità, gruppi, associazioni e movimenti ecclesiali nei quali sorgono più sovente le vocazioni.

Un primo aspetto. Lo sbocciare di una vocazione, da una parte, non può essere il frutto di un’azione programmabile o preventivabile in quanto è azione dello spirito e, dall’altra, non è nemmeno attribuibile semplicemente ad una sorta di auto-generazione spontanea. Ordinariamente il risultato di una corretta pastorale vocazionale trae origine e forza dalla “forma comunionale” della vita cristiana, dall’esperienza di Gesù Risorto, presente e operante nella comunità, che rinnova il suo appello agli uomini. Ciò va messo in evidenza poiché, in genere, quando si tratta di vocazione, il ruolo della comunità tende ad essere poco sottolineato; raramente, infatti, essa appare come luogo teologico ed ecclesiale fondamentale nel quale accade e si sviluppa una storia vocazionale. Infatti, lo “schema” più comune con cui è vissuta e descritta l’esperienza della chiamata non è quello che privilegia il “noi” ecclesiale come spazio del dialogo, anche personale, con Dio; l’io si avverte interpellato e dà a Lui la sua libera risposta senz’altra mediazione che quella della sua coscienza. La comunità può intervenire in questo processo – nella misura in cui il singolo si apre ad essa – per consigliare, sostenere, dirimere eventuali dubbi – di solito attraverso la figura del padre spirituale – ma il più delle volte lo fa con un ruolo puramente “negativo” di protezione e assistenza; la sostanza, cioè il fatto della vocazione, si gioca a due, all’interno del rapporto io-Dio. Anche quando, come nel rito dell’ordinazione sacerdotale, il Vescovo interpella la comunità ecclesiale, tale segno è letto tutt’al più come conferma ultima e definitiva, posta a suggello di una scelta che è consumata nell’ambito della decisione individuale[39].

Il pericolo latente in questo tipo di impostazione della questione vocazionale è quello di un possibile scivolamento dal piano della libertà di risposta a quello di un soggettivismo valutativo e decisionale. In altri termini, c’è il rischio che l’io finisca per identificare la voce di Dio con le proprie condizioni psicologico-spirituali, e così faccia coincidere l’essere (o non essere) chiamato solo con il proprio sentirsi (o non sentirsi) chiamato; e questa equivalenza può risultare ancora più inaffidabile quando la pressante emotività e la spesso instabile maturità spirituale di un giovane rendono approssimativa quella capacità di distacco-da-sé che è condizione per il reale ascolto di un Altro-da-sé. Ciò vale sia nel caso di chi, non avvertendo particolari inclinazioni o stimoli a livello psicologico-coscienziale, traduce la propria soggettiva indisponibilità in oggettiva mancanza di vocazione – come può avvenire con estrema frequenza, specie nell’attuale clima culturale –; sia nel caso opposto di chi, sentendosi attratto da un certo tipo di vita, ritiene che ciò sia elemento sufficiente a garantire la chiamata. Alla base di queste diverse situazioni tipologiche vi è l’accettazione implicita di quel “principio dell’individualità” secondo il quale il grado di “avvertenza” del soggetto è misura dell’essere reale. Può capitare così che l’esito di una ricerca vocazionale coincida con la conclusione di un’autovalutazione attitudinale e che quindi la vocazione appaia come una sorta di spontanea auto-candidatura. Ovviamente, con questo piede di partenza, si corre il rischio di impostare anche la successiva verifica in modo fortemente individualizzato, concedendo importanza determinante alla dimensione psicologica, cioè al “sentire” del soggetto.

Ecco, pertanto, che il secondo aspetto della metodologia vocazionale punta sulla necessità di una sana “oggettività”. La logica del “non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi” (Gv 15,16) opera uno spostamento di centro, per cui misura della vocazione non è mai il soggetto, ma Dio, sul Quale il soggetto è misurato. I Vangeli ci testificano che Gesù chiamava anche quando non trovava di fronte a sé le migliori condizioni psicologiche e spirituali, mentre non sempre chi si proponeva di sua iniziativa vedeva accolta la propria candidatura. La realtà della vocazione è tutta in un appello, un invito che proviene da un Altro e che proprio per questo responsabilizza la persona, chiamandola ad uscire da se stessa. Pertanto, mentre la sensibilità culturale moderna spinge verso l’identificazione dell’essere con la soggettività della coscienza, e quindi fa della coscienza la misura e il criterio ultimo di ogni verità, occorre trovare le vie che consentano – senza perdere le acquisizioni positive legate alla valorizzazione della coscienza – di fondare un discorso vocazionale nel quale la dimensione dell’oggettività, che trascende la coscienza del soggetto anche se in essa si svela, possa avere il giusto rilievo.

Tale “oggettività” è in primo luogo quella di Dio, in quanto Egli è l’Altro rispetto al soggetto finito; ma poi è anche – di conseguenza – l’“oggettività” dell’essere stesso della persona in quanto voluta, conosciuta e progettata dall’Amore infinito di Dio. È sulla profondità dell’“essere” – che trascende la coscienza esplicita – che va commisurata la verità della chiamata; perché è da quella profondità che Dio si manifesta e parla. Questo “salto” al di là del sé psicologico, in genere, è avvertito come difficoltoso e “pericoloso” dal soggetto. Perché diventi capace di “leggere” i segni reali di una vocazione, quindi, il soggetto ha bisogno di essere accompagnato, di essere educato alla oggettività attraverso l’esperienza della comunione. Anche quando in una persona agisce il movente individuale-interiore, resta il fatto che la chiamata vocazionale, in particolare quella al sacerdozio, deve trovare conferma attraverso la comunità e chi in essa ha particolari responsabilità per il discernimento e l’accompagnamento vocazionale. Certo, deve essere una comunità dove appaiono i segni della condivisione e della capacità di accoglienza, in una piena stima e fiducia reciproca; una comunità dove circoli quell’Amore trinitario che, generando la presenza del Risorto tra i suoi viene ad illuminare i cuori e le menti; lì la comunione non è in contrapposizione con la persona, ma svela la persona a se stessa, liberandola da possibili ripiegamenti intimistici. Occorre avere nella comunità le persone che, oltre alla competenza spirituale e umana, sappiano esercitare il ministero della responsabilità nell’individuare i segni della chiamata e sappiano attuare il corretto discernimento.

Se tra chi interpella e chi viene interpellato non si stabilisce quella comunione piena che si traduce in totale rispetto da una parte e in totale fiducia dall’altra – rispetto e fiducia alimentati dalla mutua carità – interventi di questo tipo possono risultare poco costruttivi. Occorre perciò prudenza. Ma occorre anche il coraggio di riconoscere che la libertà di “scegliere”, nella vocazione, va attribuita anzitutto a Dio, e solo successivamente all’uomo. L’uomo è pienamente libero, certo, ma la sua è una libertà di risposta, che può essere tanto più libera quanto più precisa e responsabilizzante è la proposta.

 

Formazione degli educatori

Alla luce di queste considerazioni si può ben comprendere la raccomandazione espressa nel “Documento di lavoro” del Congresso sulle vocazioni in Europa. In esso viene detto: “Si ravvisa che il futuro della Chiesa e della società, nonché la pastorale vocazionale, hanno bisogno in modo particolare di nuovi educatori nel contesto della nuova evangelizzazione”. Se si vuole che alcuni luoghi pedagogici classici, da sempre gestiti dalla Chiesa e attraverso i quali generazioni di giovani sono stati formati, tornino ad essere efficacemente educativi, è necessaria “la presenza di figure spirituali di sicuro riferimento, nonché guide spirituali motivate, robuste, limpide. Di qui l’impegno da parte delle Chiese particolari di formare i formatori[40].

Si capisce che, per un qualificato ministero esplicitamente finalizzato al discernimento vocazionale (in particolare quando vi sono di mezzo vocazioni sacerdotali), inserito nel più ampio processo di rinnovamento com’è quello della nuova evangelizzazione, è necessario “formare i formatori”: è la preparazione a servire chi è nel cammino di crescita umana e spirituale. Non si tratta di preparare persone in vista di una mediazione qualsiasi, ma capaci di assumere l’atteggiamento che un “fratello maggiore” deve avere per quello “minore”: associare, cioè, alla sapienza spirituale una competenza che l’abiliti, fondamentalmente, a fare quell’azione duplice di ricognizione e liberazione dai vari meccanismi di distorsione della volontà di Dio, per rendere il soggetto libero di rispondere all’appello divino.

Questo compito oggi non solo è urgente, ma costituisce il vero e proprio elemento centrale e strategico della pastorale vocazionale. Come ha inteso sottolineare con forza Giovanni Paolo II nel suo Messaggio inviato al Congresso europeo delle vocazioni: “una Chiesa particolare può guardare con fiducia al proprio futuro, soltanto se è capace di mettere in atto questa attenzione pedagogica, provvedendo in modo costante alla cura dei formatori e, primi fra tutti, dei presbiteri”[41]. Accompagnare, camminare assieme al giovane fino a quando egli non sia in grado di prendere la decisione è un ministero importante e delicato; con esso viene richiesto di condividere il cammino di fede, l’esperienza di Dio, la vita spirituale, la fatica della ricerca fino a condividere anche la propria vocazione per scoprire pienamente il progetto di Dio sulla creatura. L’animazione vocazionale non adotta il registro didattico o esortativo, ma usa il registro della confessio fidei; chi fa animazione vocazionale parla di sé, testimonia il proprio sapere su Dio, direttamente o indirettamente racconta il suo cammino vocazionale e la sua scoperta continua e quotidiana della propria identità vocazionale, lascia capire la fatica, la novità, la scoperta, la sorpresa, il rischio. Ne viene una catechesi vocazionale da persona a persona, ricca di umanità e originalità, di passione e forza convincente che verifica e consolida ciò che è sbocciato nel cuore del giovane dalla sua esperienza nella comunità cristiana.

Se, come è stato detto nel Sinodo dei Vescovi europei, solo “una rinnovata azione pastorale riguardo alle vocazioni offrirà motivo di speranza”[42], è del tutto evidente che il rinnovamento di questa scelta pastorale dipende non tanto da progetti astratti, da tecniche e ricerche metodologiche, quanto dalla presenza effettiva nella comunità di pastori e di formatori adeguatamente preparati sul piano umano, spirituale ed ecclesiale.

 

 

Note

[1] SINODO DEI VESCOVI, Seconda Assemblea Speciale per l’Europa, Instrumentum laboris, 81.

[2] Cfr. H. CARRIER, Avvenire e cultura. Identità culturale e identità cristiana, Città Nuova, Roma 1988, pp. 17 ss.

[3] PONTIFICIA OPERA PER LE VOCAZIONI ECCLESIASTICHE, Le vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata in Europa, Rogate, Roma 1998, p. 7.

[4] Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Fides et ratio (14 settembre 1998), nn. 28 ss.

[5] A proposito di mutato paradigma culturale, è interessante rileggere ciò che Giovanni Paolo II ha detto nel suo intervento al Simposio dei Vescovi europei organizzato nel 1982 dal Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee (CCEE): “Le crisi dell’uomo europeo sono le crisi dell’uomo cristiano (…). Queste prove, queste tentazioni e questo esito del dramma europeo non solo interpellano il cristianesimo e la Chiesa dal di fuori come una difficoltà o un ostacolo esterno da superare nell’opera di evangelizzazione, ma in un senso vero sono interiori al cristianesimo e alla Chiesa (…). I rimedi e le soluzioni andranno cercati all’interno della Chiesa e del cristianesimo (…). La Chiesa stessa deve allora auto-evangelizzarsi per rispondere alle sfide d’oggi” (CCEE, I vescovi d’Europa e la nuova evangelizzazione, Piemme, Casale Monferrato 1991, p. 131).

[6] Cfr. C. QUARANTA, Linee di pastorale vocazionale nelle esortazioni post-sinodali. Elementi comuni e specifici per i vari continenti, in “Seminarium”, 2/2001, pp. 465 ss.

[7] SINODO DEI VESCOVI, Seconda Assemblea Speciale per l’Europa, Instrumentum laboris, n. 81.

[8] Per questi aspetti mi rifaccio all’articolo di F. PAJER, L’educazione integrale in una società secolarizzata e pluralista, in “Seminarium” 2/2001, pp. 427-450, nel quale vengono descritte ampiamente le situazioni socio-culturali problematiche che sono state rilevate nei documenti preparatori, negli interventi dei Padri e nelle Esortazioni post-sinodali dei Sinodi continentali celebrati a Roma in vista del Grande Giubileo dell’Anno 2000.

[9] Cfr. per es. GIOVANNI PAOLO II, Esortazione Apostolica post-sinodale Ecclesia in America (22 gennaio 1999), n. 70; SINODO DEI VESCOVI, Seconda Assemblea Speciale per l’Europa, Instrumentum laboris, n. 16; nello stesso Sinodo, la Relatio post discept. di A.M. ROUCO VARELA, II B 1-5 e la relazione del Circolo francese B, questione 8.

[10] Cfr. F. PAJER, L’educazione integrale nelle esortazioni post-sinodali. Elementi comuni e specifici per i vari continenti, op. cit., p. 440.

[11] Ivi, p. 441.

[12] Cfr. PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA CULTURA – PONTIFICIO CONSIGLIO PER IL DIALOGO INTERRELIGIOSO, Gesù Cristo portatore dell’acqua viva, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2003, pp. 8 ss. 

[13] GIOVANNI PAOLO II, Varcare la soglia della speranza, Mondadori, Milano 1994, p. 99.

[14] PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA CULTURA – PONTIFICIO CONSIGLIO PER IL DIALOGO INTERRELIGIOSO, Gesù Cristo portatore dell’acqua viva, op. cit., p. 13.

[15] “Ad ogni occasione che veda la partecipazione di molti giovani, non è difficile scorgere la presenza in essi di atteggiamenti diversificati. Si constata il desiderio di vivere insieme per uscire dall’isolamento, la sete più o meno avvertita di assoluto; si vede in loro una fede segreta che chiede di purificarsi e di voler seguire il Signore; si percepisce la decisione di continuare il cammino già intrapreso e l’esigenza di condividere la fede. A tale scopo, occorre rinnovare la pastorale giovanile, articolata per fasce di età e attenta alle variegate condizioni di ragazzi, adolescenti e giovani. Sarà inoltre necessario conferirle maggiore organicità e coerenza, in paziente ascolto delle domande dei giovani, per renderli protagonisti dell’evangelizzazione e dell’edificazione della società” (GIOVANNI PAOLO II, Esortazione Apostolica post-sinodale Ecclesia in Europa [28 giugno 2003], nn. 61-62).

[16] Cfr. H. CARRIER, Avvenire e cultura. Identità culturale e identità cristiana, op. cit., pp. 78 ss.

[17] Cfr. R. MEHL (sotto la direzione di), Prètres, Pasteurs et Rabbins dans la Société, Ed. du Seuil, Paris 1982.

[18] Paolo VI concludeva l’ultima sessione del Concilio, il 7 dicembre 1965, con queste parole: “La mentalità moderna, abituata a giudicare ogni cosa sotto l’aspetto del valore, cioè della sua utilità, vorrà ammettere che il valore del Concilio è grande almeno per questo: che tutto è stato rivolto all’umana utilità… Sarebbe allora questo Concilio, che all’uomo principalmente ha dedicato la sua studiosa attenzione, destinato a riproporre al mondo moderno la scala delle liberatrici e consolatrici ascensioni?… Amare l’uomo, diciamo, non come strumento, ma come primo termine verso il supremo termine trascendente, principio e ragione d’ogni amore”.

[19] Cfr. S. DECLOUX S.J., La vocazione di fronte alla complessità culturale e al soggettivismo, in PONTIFICIA OPERA PER LE VOCAZIONI ECCLESIASTICHE – CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, La vocazione al sacerdozio e alla vita consacrata in Europa, Rogate, Roma 1998, pp. 33 ss.

[20] Cfr. G. PETROCCHI, Un invito ai giovani: “Non contentatevi di piccole cose”, in “Gen’s” 2/2001, pp. 47 ss.

[21] SINODO DEI VESCOVI, Seconda Assemblea Speciale per l’Europa, Instrumentum laboris, n. 78.

[22] GIOVANNI PAOLO II, Esortazione Apostolica post-sinodale Ecclesia in Africa (14 settembre 1995), n. 93.

[23] GIOVANNI PAOLO II, Esortazione Apostolica post-sinodale Ecclesia in America, n. 40; Cfr. ibid. n. 75; SINODO DEI VESCOVI, Assemblea Speciale per l’America, Propositio, n. 48.

[24] GIOVANNI PAOLO II, Esortazione Apostolica post-sinodale Christifideles laici (30 dicembre 1988), n. 16.

[25] Cfr. PONTIFICIA OPERA PER LE VOCAZIONI ECCLESIASTICHE, Nuove vocazioni per una nuova Europa (In Verbo tuo), Documento finale del Congresso sulle vocazioni al Sacerdozio e alla Vita Consacrata (6 gennaio 1998), nn. 11.13.

[26] Cfr. P. MARTINELLI, O.F.M. CAP., Vocazione e vocazioni, op. cit., pp. 551-553.

[27] Vale la pena di distinguere l’utilizzo del termine vocazione in ambito ecclesiale da quello propriamente secolare. In ambito secolare esso significa generalmente l’attitudine di ogni persona ad esercitare una determinata professione e la sua dedizione ad essa. Perciò oggi si nota un’utilizzazione disinvolta della parola vocazione che assume il termine cristiano ma recidendolo dalla sua radice biblica e dalle esperienze che l’hanno generata.

[28] Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Esortazione Apostolica post-sinodale Pastores dabo vobis (25 marzo 1992), n. 36.

[29] Cfr. la voce Vocazione, in S. DE FIORES – T. GOFFI (edd.), Nuovo dizionario di spiritualità, Cinisello B. 1994, 1694-1696.

[30] Cfr. P. MARTINELLI, O.F.M. CAP., Vocazione e vocazioni, in “Seminarium” 2 (2001), pp. 520-521.

[31] H.U. VON BALTHASAR, Christlicher Stand, Einsiedeln 1977, 103-144; 203-216 (tr. it.: Gli stati di vita del cristiano, Milano 1984, 113-156; 217- 338).

[32] “Cristo non potrebbe rimanere presente nella sua Chiesa veracemente e credibilmente se questa non ricevesse in consegna anche una rappresentazione sensibile del suo potere assoluto di insegnare e di guidare” (H.U.VON BALTHASAR, Gli stati di vita del cristiano, Milano 1984, p. 226).

[33] Sulla specificità della vocazione al sacerdozio va notato quanto scrive Giovanni Paolo II nella Pastores dabo vobis: “I presbiteri sono chiamati a prolungare la presenza di Cristo, unico e sommo pastore, attualizzando il suo stile di vita e facendosi quasi sua trasparenza in mezzo al gregge loro affidato (…). In una parola, i presbiteri esistono ed agiscono per l’annuncio del Vangelo al mondo e per l’edificazione della Chiesa in nome e in persona di Cristo Capo e Pastore” (n. 15). “Il sacerdozio ministeriale conferito dal sacramento dell’Ordine e quello comune o ‘regale’ dei fedeli, che differiscono tra loro per essenza e non solo per grado, sono tra loro coordinati, derivando entrambi – in forme diverse – dall’unico sacerdozio di Cristo. Il sacerdozio ministeriale, infatti, non significa di per sé un maggiore grado di santità rispetto al sacerdozio comune dei fedeli; ma. attraverso di esso, ai presbiteri è dato da Cristo nello Spirito un particolare dono, perché possano aiutare il popolo di Dio ad esercitare con fedeltà e pienezza il sacerdozio comune che gli è conferito” (n. 17).

[34] Cfr. l’Annuarium Statisticum Ecclesiae, Roma, che dal 1969 pubblica ogni anno l’andamento statistico all’interno della Chiesa cattolica, ed in cui è possibile reperire materiale circa le defezioni in ambito di vocazioni presbiterali e alla vita consacrata. Cfr. anche J.M. IRABURU, Causas de la escasez de vocaciones, Pamplona 1997.

[35] GIOVANNI PAOLO II, Esortazione Apostolicpost-sinodale Pastores dabo vobis, n. 15.

[36] Ivi, n. 16.

[37] Cfr. S. DECLOUX, S.J., La vocazione di fronte alla complessità culturale e al soggettivismo, in op.cit., pp. 43-44.

[38] Cfr. A. CENCINI, Il discernimento vocazionale nel segno della speranza: aspetti spirituali e pastorali, in PONTIFICIA OPERA PER LE VOCAZIONI ECCLESIASTICHE – CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, Le vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata in Europa, op. cit., pp. 67 ss.

[39] Cfr. M. BARTOLINI, Discernimento e verifica vocazionale in chiave comunitaria, in “Gen’s” 4-5 (1989), pp. 146-153.

[40] PONTIFICIA OPERA PER LE VOCAZIONI ECCLESIASTICHE, La pastorale delle vocazioni nelle Chiese particolari d’Europa. Documento di lavoro del congresso sulle vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata in Europa, Roma 1997, n. 86.

[41] Ivi, p. 9.

[42] SINODO DEI VESCOVI, Seconda Assemblea Speciale per l’Europa, Propositio, n. 17; Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Esortazione Apostolica post-sinodale Ecclesia in Africa, n. 94.