Teologia della vocazione. Prospettive alla luce di alcuni documenti ufficiali
Da tempo la pastorale vocazionale sembra derivare più da urgenze e dalla ricerca di una risposta immediata all’attuale crisi delle vocazioni che da un adeguato e convincente orizzonte teologico. È indispensabile uscire fuori da questa empasse e orientarsi ad una rinnovata formulazione che tenga conto del notevole materiale accumulato in questo campo negli ultimi decenni e verifichi la possibilità di una pastorale attenta alle nuove sfide. Non è possibile qui elaborare un’analisi, in prospettiva diacronica e sincronica, di tutti gli interventi del Magistero; ci si dovrà limitare ad una selezione di quelli che più direttamente consentono di avere un quadro paradigmatico della problematica e aprono a proposte significative per il futuro. I documenti ufficiali su cui fondiamo la nostra verifica sono i seguenti:
– Il piano pastorale per le vocazioni in Italia del Centro Nazionale Vocazioni del 1973[1];
– Il documento conclusivo del II Congresso internazionale per le vocazioni del 1981[2];
– Il piano pastorale per le vocazioni della Conferenza Episcopale Italiana del 1985[3];
– Il documento Sviluppi della pastorale delle vocazioni nelle Chiese particolari della Pontificia Opera per le Vocazioni Ecclesiastiche del 1992[4];
– Il documento Nuove vocazioni per una nuova Europa, a cura di varie Congregazioni vaticane del 1998[5];
– Gli orientamenti emersi dai lavori della XLVI Assemblea generale della Conferenza Episcopale Italiana del 1999[6].
L’analisi dei testi cercherà di dare unità sistematica sia all’”esplicito” che all’“implicito” teologico reperibile in essi. Non si mancherà di far riferimento ad altri documenti della Chiesa quando ciò si rivelerà utile: da “Orientamenti e norme” del 1972[7], alla Pastores dabo vobis del 1992[8]. Strutturiamo la verifica in tre passaggi fondamentali:
1. Uno sguardo ai modelli teologici di vocazione emergenti dai documenti.
2. Una proposta di ripensamento della teologia della vocazione in chiave più propriamente cristocentrica.
3. Interrogativi teologici sulle dinamiche dell’esperienza vocazionale.
Con questa verifica intendiamo collegarci all’auspicio già avanzato nel documento “Sviluppi della pastorale delle vocazioni nelle Chiese particolari” del ‘92, dove si riferiva come le Conferenze episcopali, nelle risposte date ai questionari, “riconoscessero che l’elaborazione della dottrina teologica sulla vocazione e le vocazioni richieda approfondimenti maggiori” (n. 34).
Modelli di teologia della vocazione: uno sguardo al passato
Due dati di fatto emergono in modo immediato dai documenti ufficiali: la disomogeneità nell’uso del concetto di “vocazione” e la scarsa consistenza del quadro teologico al quale, volta per volta, essi si collegano. La disomogeneità appare dal diverso significato che l’uso del termine “vocazione” assume in contesti analoghi: a volte evoca la dimensione teocentrica, altre la dimensione antropocentrica; in alcuni casi indica l’aspetto dialogico-relazionale della chiamata; in altri quello dinamico-evolutivo o le problematiche di ordine storico-culturale; talvolta è riferito alla vocazione in senso generico, più spesso alla vocazione particolare e quindi alla vocazione di speciale consacrazione a Dio. Neppure le motivazioni teologiche risultano sempre chiaramente puntualizzate e approfondite. I documenti danno anzi l’impressione che il richiamo al fondamento teologico della vocazione rappresenti più un dato da citare “in obliquo”, quasi come una “pezza di appoggio” di cui non si può fare a meno, che come il contesto realmente fondativo-normativo dell’intero discorso di pastorale vocazionale. Non emerge – in altre parole – una piena corrispondenza di contenuto tra il momento teologico e il momento pastorale. La divaricazione a volte è più marcata, a volte meno, ma quasi sempre è avvertibile.
I due limiti non sono privi di incidenze pastorali. È evidente, infatti, che una teologia della vocazione non chiara, debole o scarsamente convincente finisce per condurre ad una pastorale delle vocazioni dello stesso tenore. Nonostante ciò e pur senza misconoscere la valenza di queste carenze strutturali, rimane possibile e anzi è fondamentale evidenziare – con un’analisi di enucleazione tematica – alcuni modelli vocazionali che fanno da sfondo all’impostazione dei documenti presi in esame.
Modello personalista-esistenziale
Il primo modello può essere qualificato come “personalista-esistenziale”, essendo fondato sul principio della vita come vocazione. Già presente in “Orientamenti e norme” del 1972 (nn. 307-312), il modello costituisce lo sfondo del “Piano pastorale per le vocazioni” del 1973, sia pure solo per cenni. Dopo aver rilevato come “non sia sufficientemente diffusa la visione della vita cristiana come vocazione divina, fondamento delle vocazioni specifiche”, il “Piano” si collega alla Gaudium et Spes, 19 e alla Populorum progressio, 15-17, per spiegare come il mistero della vocazione cristiana e di ogni vocazione nella Chiesa si radichi nel mistero più profondo della chiamata originaria di ogni uomo all’incontro con Dio.
“La ragione più alta della dignità dell’uomo consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio. Fin dal suo nascere l’uomo è invitato al dialogo con Dio: non esiste, infatti, se non perché creato, per amore da Dio, da Lui sempre per amore è conservato, né vive pienamente secondo verità se non lo riconosce liberamente e se non si affida al suo Creatore” (GS 19).
L’impostazione conciliare viene ulteriormente confermata con il riferimento al celebre enunciato della Populorum progressio:
“Nel disegno di Dio, ogni uomo è chiamato ad uno sviluppo, perché ogni vita è vocazione. Fin dalla nascita, è dato a tutti in germe un insieme di attitudini e di qualità da far fruttificare: il loro pieno svolgimento, frutto ad un tempo dell’educazione ricevuta dall’ambiente e dello sforzo personale, permetterà a ciascuno di orientarsi verso il destino propostogli dal suo Creatore” (PP 15).
Entro questo quadro, il “Piano” afferma, più che spiegare, il rapporto della vita come vocazione con la vocazione battesimale, la quale conduce l’uomo alla configurazione a Cristo e all’appartenenza alla Chiesa; è così che “ogni stato di vita risponde ad una vocazione e la Provvidenza guida ogni uomo al compimento del piano divino relativo a lui e a tutto il Popolo di Dio” (n. 28).
“La vocazione – proclama il medesimo documento – è un’unica realtà dinamica che si attua progressivamente nel dialogo con Dio e con gli uomini, nella fedeltà e nel servizio. Questo cammino di fede inizia nel battesimo, radice della vocazione cristiana, e matura nella disponibilità continua all’azione dello Spirito: ogni stato di vita, perciò, deve essere presentato come un’autentica vocazione che investe permanentemente l’essere umano” (n. 28).
Le vocazioni specifiche – da quella al ministero ordinato, alla vita consacrata e all’apostolato missionario – fioriscono come dono dello Spirito all’interno di questo contesto, di questo humus, per il bene di tutto il Corpo di Cristo che è la Chiesa (n. 28). Il documento non elabora organicamente questa prospettiva, per sé ricca di molteplici potenzialità; essa è in ogni caso assunta in modo embrionale e sarà propria della riflessione vocazionale successiva, secondo la triplice scansione: vocazione alla vita, vocazione alla grazia, vocazione all’amore; oppure in relazione ad analoghe ripartizioni quali ad esempio: chiamata alla vita, chiamata alla configurazione a Cristo, chiamata alla Chiesa, chiamata alla santità, chiamata alla testimonianza, chiamata alla gloria del cielo[9].
L’impostazione – al di là delle singole strutturazioni – presenta almeno due pregi fondamentali. Il primo risiede nel proclamare l’unità radicale che sussiste tra vocazione naturale alla vita, vocazione soprannaturale alla grazia in Cristo e le diverse vocazioni a servizio della Chiesa e del mondo. Il secondo nel motivare la vocazione speciale sul fondamento della vocazione all’amore inscritta nell’essere di ogni uomo, pienamente rivelata in Gesù Cristo. È quanto appare dal documento “Nuove vocazioni per una nuova Europa” del 1998. Si muove dal principio che non esiste alcun essere umano “senza vocazione” (11c): esistere è essere chiamati da Dio, la vita è il segno di una scelta divina, di un’elezione di amore.
“In questa prospettiva della chiamata alla vita una cosa è da escludersi: che l’uomo possa considerare l’esistere come una cosa ovvia, dovuta, casuale… Il semplice fatto di esserci dovrebbe anzitutto riempire tutti di meraviglia e di gratitudine immensa verso Colui che in modo del tutto gratuito ci ha tratti dal nulla pronunciando il nostro nome. E allora la percezione che la vita è un dono non dovrebbe suscitare soltanto un atteggiamento riconoscente, ma dovrebbe lentamente suggerire la prima grande risposta alla domanda fondamentale di senso: la vita è il capolavoro dell’amore creativo di Dio ed è in se stessa una chiamata ad amare. Dono ricevuto che tende per natura sua a divenire bene donato” (16b).
Dire “sì” alla vita significa dire “sì” a Dio che chiama e chiama ad amare. Viene affermata, in questo modo, una vocazione di Dio nascosta nelle aspirazioni più profonde di ognuno di noi. Accogliere la vita e il suo tendere verso “un di più” è già un rispondere a Dio che ci dona continuamente a noi stessi, aprendosi alla scoperta del suo progetto; una chiamata universale che trova la sua rivelazione e la sua intelligenza ultima nell’incontro con il Figlio di Dio fatto Uomo nel quale tutto è stato creato e nel quale tutto trova il suo di-svelamento e il suo compimento ultimo (“Nuove vocazioni”, 17-18). “Vocazione”, sotto questo profilo, è divenire sempre più coscienti che l’identità di ognuno di noi, già data con il dono stesso dell’esistenza, è nascosta con Cristo in Dio e che nel suo volto ci è offerto il nostro volto più alto. È entro questa scoperta che la persona umana, nello Spirito e nell’ascolto della parola di Dio, diviene capace di individuare il nome proprio che Dio le ha dato e di rispondervi secondo la ministerialità specifica a cui è chiamato. Una medesima prospettiva, sia pure in forma più breve, riappare negli “Orientamenti emersi dai lavori della XLVI Assemblea generale della Conferenza Episcopale Italiana” del 1999:
“La vita non è avventura solitaria, ma dialogo, dono che diventa compito. Creato a immagine di Dio, l’uomo è chiamato a dialogare con lui, a conoscerlo, amarlo, incontrarlo, per condividere infine la sua vita nell’eternità… Vera libertà è solo quella che ci fa crescere fino alla pienezza definitiva: essa consiste nell’aderire alla verità e nel compiere il bene. Ogni singola esistenza umana, lungo il suo svolgersi, è contrassegnata da precisi appelli di Dio: alla vita, alla fede, alla condivisione della missione della Chiesa. Ogni giorno ci è dato per rispondere alla nostra vocazione, fino alla chiamata definitiva all’incontro con il Risorto, oltre la fatica della fede” (n. 6).
Modello trinitario-ecclesiale
Il secondo modello può essere qualificato “trinitario-ecclesiale”; esso fa da sfondo sia al “Documento conclusivo del II Congresso Internazionale per le vocazioni” del 1981 che al “Piano pastorale per le vocazioni” del 1985 e ritorna in modo esteso nel documento “Nuove vocazioni per una nuova Europa” del 1998. Non si può comprendere e apprezzare la vocazione cristiana e le vocazioni speciali – spiega il Documento del 1981 – se non si risale al mistero di Dio, al Padre che per libero disegno di amore prende l’iniziativa, al Figlio che, incarnandosi, porta a compimento il disegno del Padre, allo Spirito santo che suscita la Chiesa e l’arricchisce dei suoi doni.
“Ogni vocazione, quindi, si ricollega al disegno del Padre, alla missione del Figlio e all’opera dello Spirito santo” (n. 7). “Tutta la Chiesa è costituita in stato di vocazione e di missione, e quindi ogni membro della Chiesa, ciascuno per la sua parte, è costituito in stato di vocazione e di missione” (n. 8).
Le singole vocazioni appaiono come forme peculiari di attuazione della vocazione/missione fondamentale che è propria della comunità cristiana, a servizio della sua edificazione nel mondo (nn. 9-16). Il medesimo modello è ripreso nel “Piano pastorale” del 1985:
“Un vero dinamismo vocazionale si nasconde nel profondo della Chiesa ed appartiene al suo essere, prima ancora che al suo operare. La vocazionalità della Chiesa affonda le sue radici nel mistero trinitario che essa ha in sé e soltanto da questo ogni vocazione prende origine e significato nella Chiesa” (n. 5).
I nn. 3-5 del “Piano pastorale” dell’85 sono particolarmente suggestivi. La Chiesa è una comunità di chiamati (ekklesía). Il soggetto della chiamata è Dio. La Chiesa esiste come comunità di convocati. E poiché la vocazione divina si realizza secondo un dinamismo trinitario, la Chiesa si presenta come una grande convocazione trinitaria[10] . Il che equivale a dire, come fa il Piano pastorale, che la Chiesa porta in sé il mistero del Padre che tutti chiama alla salvezza, il mistero del Figlio che dal Padre è chiamato e inviato per rivelare l’uomo all’uomo e fargli nota la sua altissima vocazione (GS 22), il mistero dello Spirito che chiama e consacra per la missione e nel quale è riposta la fecondità vocazionale di tutta la Chiesa (n. 4)[11]. Entro questo contesto trinitario, il Piano pastorale rileva come tutti i fedeli – in forza del battesimo – siano chiamati a cooperare alla missione universale della Chiesa e come ogni stato di vita sia nella comunità cristiana vocazione e missione (nn. 5-6). Le vocazioni speciali costituiscono un’espressione in atto di questo dinamismo, lo manifestano e lo servono nelle forme tipiche di ognuna di esse.
“Tutti i cristiani sono chiamati a collaborare per l’avvento del Regno di Dio…, ma il Signore Gesù, nel fondare la Chiesa, ha voluto dotarla di speciali ministeri a servizio della comunità e del suo Regno” (n. 7).
Si spiega inoltre come alcuni di questi ministeri siano necessari all’essere della Chiesa per volontà di Cristo, altri al suo benessere (bene-esse) (n. 7). Un medesimo impianto teologico riappare nel documento “Nuove vocazioni per una nuova Europa” del 1998. L’icona trinitaria fa da contesto del Padre che chiama alla vita, del Figlio che chiama alla sequela, dello Spirito santo che chiama alla testimonianza (nn. 15-18).
“La Chiesa dunque riflette, come icona, il mistero di Dio Padre, di Dio Figlio e di Dio Spirito santo; ed ogni vocazione reca in sé i tratti caratteristici delle tre Persone della comunione trinitaria. Le Persone divine sono sorgente e modello di ogni chiamata. Anzi, la Trinità, in se stessa, è un misterioso intreccio di chiamate e risposte. Solo lì, all’interno di quel dialogo ininterrotto, ogni vivente ritrova non solo le sue radici, ma anche il suo destino e il suo futuro, ciò che è chiamato a essere e a diventare, nella verità e libertà, nella concretezza della sua storia” (n. 15).
Modello comunitario-ministeriale
Un ulteriore modello è quello “comunitario-ministeriale”, incluso in qualche modo nel precedente, ma che ha conosciuto un suo sviluppo parallelo, specie per l’impulso dato dal libro di Y. Congar “Ministeri e comunione ecclesiale” del 1971 (apparso in italiano nel ‘73) e da documenti ecclesiali come Ministeria quaedam del ‘72, Evangelii nuntiandi del ‘75 (specie n. 73 sui ministeri nella Chiesa) e dal programma della CEI, “Evangelizzazione e ministeri” del 1977. Il Piano pastorale del 1973 conteneva già una significativa allusione a questo modello:
“Il dono del ministero ai Vescovi, ai sacerdoti, ai diaconi è dato per l’edificazione del Corpo di Cristo…; si aggiungono i ministeri (lettori, accoliti, salmisti, catechisti, ecc.) che possono essere esercitati anche dai laici” (n. 28).
La formulazione è un po’ sbrigativa e certamente non felice in quel “si aggiungono”; essa rimane comunque indicativa di un’impostazione. Il documento conclusivo del II Congresso internazionale del 1981 sembra supporre il medesimo modello quando descrive la pastorale vocazionale come una pastorale che nasce dal mistero della Chiesa-comunione e si pone al servizio di essa, “affinché i ‘doni gerarchici e carismatici’ che Dio continua ad elargire al suo Popolo trovino ovunque generosa accoglienza” (n. 5). E spiega come la Chiesa, comunità di chiamati, sia al tempo stesso “strumento della chiamata di Dio” (n. 13).
“Tutti, nella Chiesa, hanno ricevuto una vocazione. Tutti, in comunione tra loro e con i Vescovi, in comunione con il Sommo Pastore della Chiesa, devono avere chiara coscienza di essere una comunità di chiamati. Devono scoprire il valore del proprio dono, nella luce del mistero di Dio e della Chiesa” (n.13).
Il piano pastorale per le vocazioni del 1985, pur non sviluppando in modo diffuso questo modello, lo sottende e dedica ad esso un rapido, ma significativo cenno, in rapporto evidente con il programma “Evangelizzazione e ministeri” della CEI:
“La vocazione battesimale conduce il cristiano a compiere la scelta del proprio stato di vita e a concretizzare, ‘in una Chiesa tutta ministeriale’ e ‘nella varietà dei ministeri’, il suo specifico apporto alla redenzione del mondo” (n. 6).
Anche il documento “Sviluppi della pastorale delle vocazioni nelle Chiese particolari” del ’92, pur non tematizzando l’impostazione, ne riflette un’eco quando si preoccupa di situare la vocazione cristiana e le diverse vocazioni particolari nel contesto della Chiesa come “corpo di Cristo”, “popolo di Dio” e “comunione” (nn. 30-31), o quando considera la varietà delle vocazioni (la vocazione dei laici, la vocazione al ministero ordinato e la vocazione alla vita consacrata) come doni molteplici dello Spirito per il bene di tutti, da promuovere come “servizi che ciascuno è chiamato a svolgere nella comunità cristiana” (n. 33). Il modello ha conosciuto, nei primi anni ‘80, una favorevole accoglienza. Secondo questa linea, se “la Chiesa è tutta ministeriale”, si richiede uno sviluppo della pastorale indirizzata a far prendere coscienza che ogni vocazione è ministero: dal ministero ordinato, nei suoi tre gradi, ai ministeri istituiti dell’accolitato e del lettorato e ai ministeri di fatto fino alle diverse forme di vita nella Chiesa: il ministero dei coniugi, il ministero della vedovanza, il ministero della vita consacrata (religiosa o secolare), il ministero della missione. Una figura di teologia vocazionale che tuttavia è presto entrata in crisi, sia per l’uso inflazionato che è stato fatto del termine “ministero”, sia per le discussioni sopravvenute sul laicato che hanno messo in luce la problematicità di un’espressione come quella di “ministero “per designare la condizione secolare dei laici, assieme al rischio di una loro clericalizzazione, sia infine per alcuni esagerazioni portate avanti da una teologia dei carismi inclusiva di tutta la teologia della ministerialità ecclesiale[12].
A parte questi eccessi, ci si può domandare se sia giusto lasciar cadere un modello vocazionale che ha il pregio comunque di evocare la dimensione di servizio, “ministeriale” appunto, di ogni vocazione nella Chiesa, valorizzando l’ecclesiologia di comunione sottesa all’insieme dell’insegnamento del Concilio e che è in qualche modo implicito nella figura giuridica dei christifideles del nuovo Codice. Il documento “Nuove vocazioni per una nuova Europa” del 1997 riprende e evoca questo modello sia richiamando, come si è visto, la struttura trinitaria della vocazione, sia evidenziando come ogni ministero rappresenti un dono dello Spirito a servizio della comunione ecclesiale.
“Allo Spirito Santo si addice anzitutto l’eterno protagonismo della comunione che si riflette nell’icona della comunità ecclesiale, visibile attraverso la pluralità dei doni e dei ministeri. È proprio nello Spirito, infatti, che ogni cristiano scopre la sua assoluta originalità, l’unicità della sua chiamata e, al tempo stesso, la sua naturale e incancellabile tendenza all’unità. È nello Spirito che le vocazioni nella Chiesa sono tante e assieme sono una stessa unica vocazione all’unità dell’amore e della testimonianza. È ancora l’azione dello Spirito che rende possibile la pluralità delle vocazioni nell’unità della struttura ecclesiale: le vocazioni nella Chiesa sono necessarie nella loro varietà per realizzare la vocazione della Chiesa, e la vocazione della Chiesa – a sua volta – è quella di rendere possibili e praticabili le vocazioni della e nella Chiesa. Tutte le diverse vocazioni sono dunque protese verso la testimonianza dell’agape, verso l’annuncio di Cristo Salvatore unico del mondo” (n. 18d).
Un orizzonte analogo riappare, in forma sintetica, negli “Orientamenti emersi dai lavori della XLVI Assemblea generale della Conferenza Episcopale Italiana” del 1999, con una forte insistenza sull’unicità della missione a cui è ordinata ogni vocazione.
“Lo Spirito alimenta la vita e la missione della Chiesa con doni diversi e complementari, con una grande varietà di vocazioni, che però si raccolgono in tre forme generali di vita: quella dei laici, caratterizzata dall’impegno secolare; quella dei ministri ordinati, caratterizzata dalla rappresentanza di Cristo pastore; quella dei consacrati, caratterizzata dalla testimonianza alla vita del mondo che verrà. Ogni vocazione nasce in un contesto preciso e concreto: la Chiesa, vocationis mysterium. Le vocazioni diverse hanno tutte un solo obiettivo: annunciare il Regno di Dio nella storia, rendere visibile il mistero di Cristo, il Figlio mandato dal Padre. In una parola: nella comunità cristiana ci sono molte vocazioni, ma unica è la missione” (n. 8).
Modello della chiamata alla santità
Tra le pieghe dei tre modelli enunciati è rintracciabile un ulteriore orientamento, assunto “a conferma di” o come punto di partenza per un annuncio che motivi il senso della vocazione e delle vocazioni nella Chiesa: si tratta del modello della vocazione universale alla santità, che trova la sua origine immediata nell’impostazione recepita dall’ultima redazione della LG, dove – contrariamente al primo schema – si distingue la vocazione di tutti alla santità dalla vocazione di alcuni alla vita consacrata, affermando che “tutti i fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità” (LG 40). Nessuna condizione di vita nella Chiesa è esclusa da questa chiamata (LG 41). La vita consacrata, con la vera e completa professione dei consigli evangelici, è una via particolare e particolarmente significativa di questa vocazione, ma non è l’unica; anzi, uno dei suoi contenuti fondamentali, è proprio quello di porsi come segno forte della chiamata di tutti alla pienezza della santità in Cristo e nella Chiesa.
Questo modello è implicito a tutti i documenti ufficiali, dal Concilio ad oggi, anche se più come fondamento degli altri modelli che in una forma esplicita e formale. Lo si trova abbastanza articolato in “Orientamenti e norme” del ‘72 (nn. 310-312); meno nei documenti vocazionali successivi, dal “Piano pastorale” del ‘73 (n. 28), al “Documento conclusivo” del 1981, al “Piano pastorale” del 1985 e al documento “Sviluppi delle vocazioni nelle Chiese particolari” del ‘92. Il riferimento, in questi documenti, è quasi solo di passaggio. Storica è l’impostazione del documento “Nuove vocazioni per una nuova Europa” del ‘97 dove si fa riferimento alla sequenza dei santi che ha segnato il cammino europeo e rimane un’esigenza tutt’oggi attuale. Più teologica è la scelta degli “Orientamenti” del 1999 dove la chiamata alla sanità è considerata come alla luce della comunione con le tre Persone divine, recuperando l’aspetto “divinizzante” del battesimo e quindi della dimensione “mistica” del cristianesimo (n. 7). La chiamata alla santità, infatti, non si identifica con voli, estasi o fenomeni particolari; rappresenta piuttosto l’attuazione piena e pienamente vissuta del dono della carità di Dio e delle virtù teologali nell’orizzonte del radicalismo evangelico. Recuperare questo modello significa dunque assumere in modo diretto la dimensione della partecipazione vitale del battezzato all’ontologia trinitaria, riprendendo in tutto il suo realismo il consortes divinae naturae di Pietro (1Pt 1,4), e quindi il concetto teologico di “grazia”; un concetto che, come è noto, era abituale nella grande predicazione dei padri, greci e latini[13] . Il modello orienta, tra l’altro, ad una rilettura della vocazione cristiana in termini di “mistica della trasfigurazione”, prima che di “ascetica della mortificazione”. E di fatto, come si ama dire oggi, “il cristianesimo, prima di essere una morale, è una mistica”, dando alla parola “mistica” il suo senso originario, di immersione nel mysterion e di crescita in esso. Non si dovrebbe tornare con maggior forza alla novità di quest’annuncio? L’affermazione della vocazione alla santità si muove in questa direzione, conducendo a considerare l’esperienza cristiana non come una stasis, un essere fermi, ma come un’ekstasis, una “mistica” della divinizzazione e una mistagogia della carità in risposta all’amore diffuso in noi dallo Spirito riversato nei nostri cuori (Rm 5,5).
Modello storico-salvifico
Al modello vocazionale appena delineato, se ne collega un altro che potremmo definire storico-salvifico; un modello non particolarmente presente, in verità, nei documenti in questione, anche se in qualche modo supposto, specie in riferimento all’insegnamento più generale del Magistero e ai discorsi fatti in occasione delle giornate vocazionali. Questo modello si fonda sulla chiamata a rispondere, come cristiani e in quanto cristiani, ai bisogni del mondo. Paolo VI si era fatto portavoce, a suo tempo, di una simile figura di vocazione con il suo celebre appello: “Ascoltate la voce dell’umanità!”. I fondamenti di questo modello, particolarmente sviluppato al tempo del programma della CEI “Evangelizzazione e promozione umana” e riaffermato nel Sinodo mondiale sulla giustizia nel mondo del 1975, sono essenzialmente due: l’invocazione di aiuto che emerge dalla storia umana e la consapevolezza che la risposta a questa invocazione è possibile solo nell’accoglienza di Gesù, Salvatore dell’uomo e del mondo.
“Nessuno – proclamava Paolo VI nella Populorum progressio – può rimanere indifferente alla sorte dei suoi fratelli tuttora immersi nella miseria, in preda all’ignoranza, vittime dell’insicurezza. Come il cuore di Cristo, il cuore del cristiano deve muoversi a compassione di questa miseria: Ho compassione di questa folla”.
La vocazione giunge alla coscienza della persona quando essa diviene capace di vedere queste sofferenze, di udire questo grido, di sentirsi debitrice di fronte all’invocazione di salvezza che sorge dal grembo dell’umanità. Ma di quale salvezza il mondo ha bisogno? Bastano le soluzioni ideologiche, politiche o sociali, i progressi scientifici perseguiti o da perseguire? È sufficiente creare delle migliori condizioni economiche o culturali per rispondere alle istanze più profonde dell’uomo che invoca salvezza? La vocazione è accogliere il grido dell’umanità e rispondere offrendo a tutti la salvezza integrale del Risorto; una salvezza che riguarda tutto l’uomo e ogni uomo, il suo passato, presente e futuro, l’oggi e il domani. La salvezza di Cristo non si identifica evidentemente con la promozione umana, ma la suppone, l’assume e la conduce a pienezza, rivelando all’uomo la via della sua piena realizzazione e dell’attuazione della città dell’uomo nell’orizzonte della città di Dio. Questo modello, come si è avuto modo di osservare, risulta in gran parte assente dai documenti vocazionali ufficiali; è reperibile a livello di animazione vocazionale e di predicazione ordinaria, non altrettanto a livello di teologia della vocazione. Ci si può domandare se non sarebbe opportuno tematizzarlo in termini più diretti ed espliciti. Le linee di sviluppo potrebbero essere almeno due:
– il grido dell’umanità visto all’interno della storia totale della salvezza come appello di Dio a mettersi dalla sua parte per l’attuazione del mysteriun salutis manifestato in Cristo in favore di tutta l’umanità;
– l’inseparabile unità che si pone nella fede – come nella croce – tra la coordinata verticale e la coordinata orizzontale, tra l’amore di Dio e l’amore del prossimo, la contemplazione e l’azione, pervenendo per tale via a coniugare in unità il modello storico- salvifico con il modello della vocazione universale alla santità.
Modello mariologico
I documenti ufficiali implicano, trasversalmente, anche un modello di ordine mariologico, seppur ripreso più “a conferma di” che come figura vocazionale propria, da valorizzare in sé e per sé. Il “Piano pastorale” del ’73 si limita, ad esempio, ad un cenno circa la disponibilità di Maria di fronte alla chiamata di Dio, citando LG 65 sulla Madre di Gesù come esemplare di ogni chiamata nella Chiesa (n. 28). Più articolato è il documento conclusivo del 1981, al n.17, dove la figura di Maria è delineata come mediatrice di vocazioni e icona di riferimento “nel conoscere il disegno divino di salvezza; nei rapporti con Dio, Padre, Figlio, Spirito santo; nella disposizione a servire il Signore secondo la sua volontà; nel desiderio di donare Gesù al mondo; nell’accettazione della croce; nell’amore verso la Chiesa”.
Il “Piano pastorale” del 1985 ricalca quest’impostazione in una forma più concisa (n. 8). Del resto, la medesima ottica riemerge in quasi tutti i documenti magisteriali: il riferimento a Maria è dato a conclusione dell’esposizione svolta, quasi come un sigillo che corona l’insieme. Ci si può legittimamente domandare se tale riferimento non possa e non debba essere assunto in una forma più diretta, per esempio nella linea di LG 56-58 dove la Vergine è delineata come la prima credente che “ha progredito nel pellegrinaggio della fede” e facendo ripercorrere il suo itinerario di vita, dall’annunciazione alla pentecoste[14]. Un’altra prospettiva utile potrebbe consistere nel vedere Maria come la prima testimone di Gesù e quindi il modello tipico di una pedagogia di collaborazione che attraversa tutta la storia della salvezza e rimanda, in quanto tale, alla collaborazione dei santi, dei fondatori e di ogni battezzato nella Chiesa. Dio salva l’uomo attraverso l’uomo; per questo chiama alcuni a collaborare in forme ministeriali più strette al suo progetto, rendendoli suoi testimoni. Maria è il modello centrale di questa pedagogia. Accenni di questo genere sono reperibili nei documenti “Nuove vocazioni per una nuova Europa” del 1977 e in “Orientamenti” della CEI del 1999.
Bilancio complessivo
Un dato comune sembra emergere, con evidenza, dall’insieme della verifica svolta: la prospettiva di fondo che determina i singoli modelli vocazionali è primariamente ecclesiologica. Il primo modello (personalista-esistenziale) in misura minore, almeno come fondamento e approdo possibile; in modo esplicito, il secondo e il terzo modello (trinitario-ecclesiale e comunitario-ministeriale); direttamente, il modello della vocazione universale alla santità e quello mariologico; indirettamente, il modello storico-salvifico. La dinamica di fondo che guida l’impostazione globale dei documenti è, in ogni caso, costantemente e radicalmente ecclesiologica. Si è consapevoli che il concetto di vocazione è connesso con il concetto di Chiesa. Come sintetizza il documento del ‘92 “Sviluppi della pastorale delle vocazioni nelle Chiese particolari”, richiamandosi alle risposte pervenute dalle Conferenze episcopali e dagli Organismi vocazionali: “Per comprendere e apprezzare la vocazione cristiana e le vocazioni alla vita consacrata occorre considerare queste vocazioni alla luce del mistero della Chiesa” (n. 30); e aggiunge: “Frequentemente le difficoltà riguardanti le vocazioni sono connesse ad una conoscenza insufficiente della Chiesa” (n. 31). L’istanza è indubbiamente valida, perché è evidente che il discorso sulla vocazione è inseparabilmente collegato al discorso della Chiesa, alla sua vocazione e alla sua missione. Ci si può tuttavia domandare se in questa accentuazione si sia tenuto nel debito conto la dimensione cristologica della teologia della vocazione e se essa non debba essere opportunamente assunta e integrata in un orizzonte specifico, specie nel clima culturale odierno. È quanto vorremmo ora porre in evidenza.
Il modello cristocentrico: una suggestione per il futuro
Diciamo subito – anche se è evidente per se stesso – che la prospettiva cristocentrica non va intesa in alternativa a quella ecclesiocentrica, ma piuttosto come la radice e l’anima che conferisce ai singoli modelli il loro pieno contenuto e significato. Si deve inoltre rilevare – anche a costo di apparire ovvi – che il modulo cristologico è in qualche modo sotteso ai documenti esaminati. Il dato di fatto è che non viene mai sviluppato in forma esplicita. Il documento conclusivo del 1981, ad esempio, rimanda a GS 10 dove si fa cenno a Cristo come risposta alla suprema vocazione dell’uomo e vertice di tutta la storia umana, ma senza trarne le dovute conseguenze in chiave vocazionale. Indicativo è specialmente il bel passo di “Sviluppi della pastorale delle vocazioni nelle Chiese particolari” del ‘92 dove, parlando dei valori sui quali fondare una pedagogia vocazionale costruttiva, si afferma che “al primo posto vi è sempre il fascino esercitato sui giovani dalla persona del Cristo, dal suo stile di vita e dalla sua sequela radicale” (n. 79). Questo suggerimento è però inserito nella sezione pastorale del documento invece che in quella teologica e quindi lasciato lì, senza che se ne veda la fecondità in ordine ad una rinnovata teologia della vocazione.
Motivazioni
La prima ragione per una formale tematizzazione del modello cristocentrico si fonda sull’identità stessa dell’esistenza cristiana come vocazione a Cristo e vocazione di Cristo. Risiede in questo fondamento unico, il fascino decisivo del cristianesimo. Sarebbe istruttivo, a riguardo, elaborare una tipologia delle concezioni di cristianesimo che si continuano a trasmettere nelle nostre comunità: ritualiste, moraliste, sociologiche oppure superficiali, mediocri o solo negative. L’annuncio vocazionale è anzitutto un problema di proposta di cristianesimo; una proposta che sia in grado di affermare la pienezza del mistero di Gesù il Cristo e di proclamare come solo Lui sia in grado di rispondere ai grandi interrogativi della vita e trovare quella riconciliazione profonda a cui aneliamo. Solo quando si riesce a mostrare, come fa la Gaudium et Spes, in che modo la vocazione personale, sociale e storica di ogni uomo si incontri con la venuta dell’Unigenito incarnato si è in grado di strutturare un’adeguata teologia della vocazione.
“La Chiesa crede che Cristo per tutti morto e risorto, dà sempre all’uomo, mediante il suo Spirito, luce e forza per rispondere alla sua suprema vocazione… Crede egualmente di trovare nel suo Signore e Maestro la chiave, il centro e il fine di tutta la storia umana” (GS 10; anche 22).
È questo il cristocentrismo vocazionale da riscoprire; un cristocentrismo che si coniuga con la necessità di rispondere alle attese del contesto odierno. Ed è questa una seconda ragione dell’opportunità di una piena valorizzazione del modello cristocentrico. Di fatto, i nostri ambienti sono frequentati – oltre che dai fanciulli da iniziare – quasi soltanto da pensionati e casalinghe di una certa età, mentre la stragrande maggioranza dei giovani e la parte più attiva della popolazione (dai 20-25 anni ai 50-55) è per lo più assente o non si identifica con la nostra prassi. Si tratta solo di un fatto di cattiva volontà o c’è dietro il problema del “come” viene presentato oggi il messaggio cristiano? Perché tanti giovani – spesso desiderosi di impegnarsi – si orientano alle spiritualità orientali, ai gruppi esoterici, alla new age o alla nest age?
Non è corretto pensare che si tratti solo di un fenomeno di moda o l’espressione di una mancanza di generosità. Il diffondersi delle nuove sette è legato, in buona parte, alla presentazione di un cristianesimo infantile, separato dalla vita, incapace di attirare e coinvolgere i giovani in modo “fascinoso”. Se questo è vero, non è più sufficiente parlare di vocazione in una prospettiva ecclesiologica; si richiede uno spostamento di accento in chiave cristologica, con il ritorno all’annuncio di Gesù di Nazareth, come il Signore e il Maestro, e con il pieno recupero di un cristocentrismo paolino e giovanneo che permetta di interpretare tutta la realtà, compresa la nostra identità corporea e il cosmo. Solo per questa via si è in grado di offrire una convincente proposta vocazionale. Non si tratta evidentemente di limitarsi ad elaborare una verifica sulle diverse metodologie di annuncio, ma di domandarsi come annunciare Gesù, il Redentore dell’uomo e del mondo, alle nuove generazioni. La proposta è talmente semplice da sembrare ovvia, eppure è l’unica: tornare al cristocentrismo della rivelazione, recuperandolo come fondamento decisivo e peculiare di una rinnovata teologia della vocazione e su cui impostare ogni strategia di pastorale vocazionale[15] .
Coordinate (indicative)
Quali possono essere le coordinate maggiori di un simile ritorno al modello cristocentrico? Allo scopo di evitare sia il genericismo che un’eccessiva analiticità, ci si limita, in questa sede, ad enunciare cinque possibili piste indicative:
– il cristocentrismo come sequela radicale di Gesù, il Maestro e Signore;
– il cristocentrismo come riconoscimento della centralità salvifica di Cristo nella storia;
– il cristocentrismo come signoria cosmica del Risorto, il Kyrios, vivente in eterno;
– il cristocentrismo come “vita nello Spirito”;
– il cristocentrismo come protagonismo dei battezzati nella storia.
Cinque coordinate da vedere come una traccia d’insieme, bisognosa ovviamente di sviluppi e di verifiche ulteriori, utile tuttavia per una teologia della vocazione che faccia unità dei diversi modelli enunciati e li recuperi in una sintesi vitale.
Cristocentrismo come sequela radicale di Gesù
Una prima esigenza, specie per quanto riguarda i giovani, è il bisogno di un cristianesimo che non si volga a mezze misure o a compromessi; un cristianesimo come esperienza forte e scelta totalizzante di vita. Non è questo l’itinerario proposto dai Vangeli?[16] Non è questo in particolare il filo rosso dei Vangeli di Marco e di Matteo? Un discepolato esigente che richiede il “tutto” e il “per sempre”, un amore totale e senza scorciatoie. È noto come Marco scriva un Vangelo che vuole essere una sorta di itinerario catecumenale alla sequela di Gesù: una memoria dell’esperienza vissuta dalla comunità dei discepoli fino al riconoscimento di Gesù Cristo come il Figlio di Dio (Mc 1,1); una memoria da rivivere nelle stesse comunità provenienti dal paganesimo come esperienza di incontro e riconoscimento del Signore (Mc 15,39). Il Vangelo di Matteo segue la stessa traccia, ma arricchita dai cinque grandi discorsi che fanno da contesto interpretativo delle corrispondenti sezioni narrative. Seguire Gesù è mettersi alla sua scuola, come discepoli del Maestro che chiama e istruisce i suoi, accettando di passare dalla vecchia alla nuova economia come veri discepoli del Regno. Secondo lo spirito delle beatitudini e del discorso della montagna il discepolato implica la totalità della vita, compresa la persecuzione e il martirio. Riconoscere Gesù, come Messia e Figlio di Dio, e accogliere il suo messaggio sono un tutt’uno; entrambi richiedono di seguire Gesù fino alla Croce, facendo della propria vita un’offerta di sé per amore, sul modello del Signore della Pasqua. Secondo il giudizio finale matteano, sussiste piena identità tra il riconoscere Gesù e il farsi vicino a chi è nel bisogno; mai l’uno senza l’altro.
In tutti e tre i Sinottici uno speciale rilievo viene dato ai racconti della passione. Il Gesù che muore è colui che fa morire una concezione trionfalistica e “miracolistica” di Dio e rivela l’immagine di un Dio che liberamente si dona, perché l’uomo possa essere salvato e riceva i doni della Pasqua. Il non scendere di Gesù dalla Croce e il non intervenire del Padre in favore del Figlio crocifisso (Mt 27,42- 43) esprimono una verità fondamentale sull’uomo: veramente libero è colui che è capace di assumere con amore la propria vita e farne dono agli altri. È qui che la libertà raggiunge la sua piena realizzazione: quando l’uomo si fa “oblazione”, quando la sua esistenza diviene pro-esistenza.
Cristocentrismo come centralità storico-salvifica di Cristo
Il bisogno di una visione della storia che dia senso al nostro “esserci”, che ci sottragga al vuoto esistenziale e al senso di inutilità, è una delle più forti istanze del cuore umano, specialmente nei giovani. Il cristianesimo si presenta come una grande teologia della storia che trova in Gesù di Nazareth e nella sua Pasqua il suo centro paradigmatico e la sua esegesi definitiva. È questa la prospettiva di fondo, in particolare, dell’opera di Luca: Cristo, evento dello Spirito, è al centro della storia universale, da Adamo alla pienezza dei tempi; la Chiesa, evento dello Spirito, si pone in cammino nella storia come comunità che crede, celebra, vive il mistero del Signore Gesù e lo testimonia “fino all’estremità della terra”. È il senso del dittico lucano Vangelo+Atti. Assieme alla ripresa della sequela radicale di Gesù e alla rivelazione del volto misericordioso di Dio (Lc 15), Luca offre una teologia della storia della salvezza che vede l’accadimento della venuta del Figlio di Dio come il compimento centrale e la chiamata di tutti i popoli alla salvezza. Una prospettiva di grande respiro. Il Cristo si presenta, in questa ottica, come l’éschaton definitivo e la chiave interpretativa della vicenda umana totale. La comunità ecclesiale appartiene a questo evento escatologico e ne è la testimonianza vivente tra i popoli della terra. È entro questa weltashauung che si esce dal non-senso e la storia rivela il suo orizzonte definitivo. Non è forse la domanda di senso che guida le scelte dei nostri giovani?
Cristocentrismo come signoria cosmica del Risorto
Una delle ragioni del successo delle spiritualità esoteriche è il loro riferimento all’incontro quasi “mistico” con la natura e con il vissuto della corporeità, in una sorta di fusione panteista con la materia, per arrivare all’Atman o al Nirvana, all’unità e all’armonia. La rivelazione ci dice che tutto è stato creato in Cristo, che tutto sussiste in Lui e tutto va verso di Lui (dia, en, eis), proclamando in tal modo come esista una relazione ontica col Logos creatore che precede la nostra stessa autocoscienza e fonda il nostro “esserci” storico come un essere in Lui e per Lui. Per quale via recuperare questo cristocentrismo cosmico? In quale modo mostrare il significato cristocentrico della nostra corporeità in vista di una piena integrazione unitaria del nostro essere e della nostra relazionalità con il cosmo e con il suo vertice, il Kyrios vivente in eterno (1Cor 3,22; 8,6)? La proclamazione di “Gesù Signore” (Kyrios Jesus) rappresenta il contenuto centrale dell’annuncio neotestamentario (Fil 2,10-11). La vittoria di Cristo connota in profondità la fede della comunità delle origini. L’éschaton della Pasqua indica una frattura nella storia, tra ciò che è prima e ciò che è dopo. Niente avrà mai tanta rilevanza per la condizione umana quanto la risurrezione di Gesù. Tutto è ormai sotto il segno della sua gloria pasquale. Il Risorto è il vivente nei secoli eterni. Il cristianesimo è questo straordinario proclama. Già i Sinottici evidenziano la signoria di Cristo quando lo presentano come il Risorto ascendente al cielo (si pensi alla conclusione del Vangelo di Matteo o del Vangelo di Luca); ma sono soprattutto il Vangelo di Giovanni e il corpus paolino a porre in evidenza il significato cosmico degli eventi pasquali.
Secondo la prospettiva giovannea, la morte di Gesù è già l’inizio della sua glorificazione e l’inaugurazione della riconduzione di tutto verso di Lui (Gv 3,13-15). Se l’incarnazione è stata la manifestazione dell’escatologia nella storia, la Pasqua rappresenta l’ingresso della storia nell’escatologia: dal Padre al mondo, dal mondo al Padre. La cristologia del prologo del quarto Vangelo afferma che la venuta dell’Unigenito nel mondo non si situa come un avvenimento estraneo al contesto del mondo; al contrario, è la rivelazione e il recupero pieno di un cosmo che già gli appartiene. L’Unigenito incarnato, infatti, è al tempo stesso il Logos creatore per mezzo del quale tutto è stato fatto e senza il quale nulla sussiste (Gv 1,3) e Colui che si fa “carne” (1,14) e dona la grazia al mondo (1,16-17). L’innalzamento sulla croce segna l’inizio del ritorno di tutto verso il Padre (Gv 12,32-33) ed è segno del dono dello Spirito alla Chiesa (Gv 19,30). La cristologia paolina approfondisce ulteriormente la signoria universale del Signore Gesù. Basta pensare alla scala cosmica enunciata in 1Cor 3,22-23: “Tutto è vostro, sia il mondo, sia la vita, sia la morte, sia il presente, sia il futuro; tutto è vostro. Ma voi siete di Cristo, e Cristo è di Dio”; a Rm 8 o agli inni cristologici di Filippesi 2, Efesini 1, Colossesi 1: tutto è stato creato per, in, in vista di Lui; tutto è ricondotto per mezzo di Lui nello Spirito al Padre; Cristo “pienezza” (pleroma), centro e realizzazione definitiva del senso dell’universo e della storia. La creazione è compresa in relazione a Gesù Cristo: nella sua origine, nella sua significazione e nella sua destinazione ultima. La salvezza che il Redentore apporta non si colloca a metà strada tra il cielo e la terra, ma concerne la riconciliazione del cielo e della terra e rappresenta l’inaugurazione della creazione escatologica. Una cristologia cosmica perfettamente riassunta in quella bella antifona dei Vespri dove proclamiamo: “Il disegno del Padre è fare di Cristo il cuore del mondo”. Un cristocentrismo quasi del tutto assente dalla nostra abituale predicazione.
Cristocentrismo come “vita nello Spirito”
In stretto rapporto con tale visione, si pone il discorso dell’unità radicale tra l’essere ricreati in Cristo Gesù e la vita nuova nello Spirito; un aspetto essenziale dell’annuncio cristiano e della formazione umano-cristiana dei giovani. Questo dato è perfettamente delineato dal “Documento base” della catechesi dove si spiega che “dal Signore risorto e gloriosamente asceso al cielo, “primogenito dei morti”, si riversa su tutti lo Spirito che dà la vita. Con la sua risurrezione ha inizio la piena redenzione di tutto il Corpo, la Chiesa. Dio ci ha “con-vivificati” e “con-risuscitati” con Cristo, noi morti a causa del peccato, per farci sedere con Lui nella vita eterna”[17]. La vocazione cristiana discende direttamente dall’essere diventati uomini nuovi nell’Unigenito incarnato e nel dono del suo Spirito. Il battesimo è l’evento sorgivo di questa vocazione come “vita nuova”, con i frutti che la caratterizzano. Questa “vita” è il fondamento delle scelte etiche del cristiano. Come è noto, le lettere paoline sono costantemente strutturate in due parti: la prima, centrata sull’indicativo (“sei una nuova creatura”; “sei risorto con Cristo Gesù”); la seconda, sull’imperativo (“devi vivere da nuova creatura”, “devi vivere da risorto”). Dall’essere, il poter essere e il dover essere; dalla teologia della grazia la novità di vita. Il tema della vocazione universale alla santità e quello della dimensione “mistica” del cristianesimo, di cui si è avuto modo di parlare, si situano in questo fondamentale quadro di riferimento.
Cristocentrismo come protagonismo dei battezzati nella storia
Secondo la teologia paolina e giovannea, i cristiani non sono dei semplici spettatori della storia; vi sono coinvolti in prima persona. Cristo Gesù, il Risorto, rappresenta la prolessi, l’anticipazione del futuro, ma questo futuro è da costruire, in una situazione di “teodramma” a cui nessun battezzato può sottrarsi. La vittoria di Cristo è ormai data, ma solo nella parusìa sarà visibilmente compiuta. In questo frattempo, c’è una lotta perché la gloria del Signore Gesù riempia la nostra vita e si realizzi il futuro di Dio. L’Apocalisse è un saggio di questo cristocentrismo che riempie il tempo intermedio, il tempo della Chiesa come tempo tra le due venute, e lo caratterizza come protagonismo dei redenti nel bene e nel male. Sussiste una profonda corrispondenza tra la vocazione cristiana e l’attuazione della storia della salvezza nel mondo. In forza del battesimo, i cristiani – e la chiamata ai diversi ministeri nella Chiesa – entrano a far parte del medesimo dinamismo. I battezzati appartengono all’ordine delle “persone teologiche”, secondo il linguaggio di H. U. Von Balthasar; è in essi e mediante essi che si dispiega la storia della salvezza. Coloro, in particolare, che tra i cristiani sono chiamati ad un compito speciale di ministerialità e di profezia (ministero ordinato e vita consacrata) rappresentano l’espressione di una forma di esistenza che assume l’estensione stessa della chiamata-missione di Cristo e la manifesta nel tempo attuale.
Cinque coordinate per una rinnovata teologia della vocazione. Si tratta, ovviamente, solo di piste indicative, insufficienti rispetto alle “insondabili ricchezze” di Cristo, “all’ampiezza, alla lunghezza, all’altezza e alla profondità” del suo mistero (Ef 3,5-18); esse possono tuttavia divenire orientative di un orizzonte di riscoperta, di un itinerario teologico vocazionale che muova dalla figura storica di Gesù di Nazareth e arrivi al riconoscimento di Lui come il “punto focale” della storia, il Vivente in eterno (Eb 13,8), l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine (Ap 1,8).
Va in questa direzione l’impostazione di fondo della prima Enciclica di Giovanni Paolo II, Redemptor hominis. “Il Redentore dell’uomo, Cristo Gesù, è il centro del cosmo e della storia. A lui si rivolgono il mio pensiero e il mio cuore in questa ora solenne, che la Chiesa e l’intera famiglia dell’umanità contemporanea stanno vivendo” (n. 1). Il documento pontificio proseguiva, in linea con la GS, spiegando come Cristo riveli la vocazione più alta dell’uomo (nn. 11 e 18), e come la vocazione della Chiesa sia interamente inscritta in quella del Signore Gesù, del suo Spirito (n. 21). “L’uomo che vuole comprendere se stesso fino in fondo deve, con tutta la sua inquietudine e incertezza, avvicinarsi a Cristo: entrare in Lui con tutto se stesso, assimilare tutta la realtà dell’incarnazione e della redenzione per ritrovare se stesso” (RH 10). Parlare di modello cristologico vuol dire riferirsi a questa impostazione. “Niente di nuovo sotto il sole”, osserverà qualcuno. Sta di fatto che nei modelli di teologia vocazionale che fanno da base all’attuale pastorale vocazionale questo modello non appare formulato in termini diretti, pur essendo sottinteso o dato per presupposto. Forse nei decenni passati è stato sufficiente limitarsi ad enucleare i fondamenti ecclesiologici della vocazione cristiana; oggi non è più così; si richiede un recupero esplicito del paradigma cristologico.
Valenza del modello cristocentrico
Il modello cristocentrico, oltre ad offrire un’idea di cristianesimo in grado di affascinare i giovani, consente di recuperare in unità i modelli vocazionali di cui si è parlato; recupero che non è un dato di poco conto, almeno per un duplice motivo: 1°, perché finora non è avvenuto: i documenti esaminati muovono da uno o dall’altro modello, oppure si limitano a qualche accostamento tra l’uno e l’altro, ma senza che se ne veda la connessione organica; 2°, perché consente di motivare il discorso della chiamata in un orizzonte che sia non rivolto soltanto ab intra della comunità ecclesiale, ma a tutti, anche a coloro che sono lontani dalla comunità ecclesiale, in una forma forte e convincente.
Unità dei modelli vocazionali
Il modello personalista-esistenziale viene recuperato nel quadro del “sì” alla vita e del cristocentrismo cosmico: sussiste infatti una profonda corrispondenza tra la vocazione alla vita, come chiamata a realizzarsi verso un-di-più e l’accadimento dell’Unigenito incarnato, la sua Pasqua di morte e risurrezione che rivela l’uomo all’uomo e rende possibile la realizzazione della sua più alta vocazione. Il modello trinitario-ecclesiale e quello comunitario-ministeriale sono affermati nella loro radice cristologica, fontale ed esemplare: la partecipazione alla vocazionalità trinitaria della Chiesa sgorga dall’incontro con il Risorto e dall’essere in Lui; ogni ministerialità, all’interno della comunità ecclesiale, si modella sull’icona della ministerialità di Cristo, il servo fedele di Jahwé, e si plasma su di essa. Lo stesso per il modello della vocazione alla santità; esso si appoggia sull’ontologia del “carattere” e il dono della grazia santificante donata nell’evento del battesimo, e si realizza come conformità a Cristo Gesù, alla sua oblazione di Croce e al suo Vangelo. Il modello storico-salvifico trova la sua compiutezza solo se la risposta al grido dell’umanità si realizza nel portare ad essa e ad ogni uomo la salvezza integrale del Redentore; una salvezza come “dono dall’alto”, e quindi non ideologizzabile e non riducibile ad evento solo spiritualistico o ultramondano. Il modello mariologico assume tutta la sua pienezza in relazione al Redentore, come è stato per la stessa Maria. È così che la prospettiva cristocentrica può permettere di strutturare una teologia della vocazione entro cui i singoli modelli non siano colti separatamente, come appare nei documenti esaminati, ma in una reale unità, all’interno di un discorso omogeneo e organico.
La Pastores dabo vobis
Un’autorevole conferma all’impostazione cui ci riferiamo viene dall’esortazione apostolica di Giovanni Paolo II, Pastores dabo vobis. Pur essendo per sé riferita alle vocazioni sacerdotali, essa offre delle linee indicative che corrispondono perfettamente al cristocentrismo della vocazione. La sezione che ci interessa è la IV, nn. 34-37, strutturata secondo quattro grandi icone.
L’icona di Cristo che passa e chiama (Gv 1,35-42). Il gesto è riletto come esemplarità del “mistero della vocazione”: “La Chiesa, quale comunità dei discepoli di Gesù, è chiamata a fissare il suo sguardo su questa scena che, in qualche modo, si rinnova continuamente nella storia… La Chiesa coglie in questo “vangelo della vocazione” il paradigma, la forza e l’impulso della sua pastorale vocazionale” (n. 34). Una direttiva di fondo di notevole significato.
L’icona della Trinità come fonte e modello della Chiesa, comunità di convocati. Una lettura propriamente teologica della vocazione non può prescindere da una lettura del mistero della Chiesa come mysterium vocationis (n. 34). Ora, il mistero della Chiesa è essenzialmente un mistero di convocazione trinitaria. “La Chiesa non solo raccoglie in sé tutte le vocazioni che Dio le dona nel suo cammino di salvezza, ma essa stessa si configura come mistero di vocazione, quale luminoso e vivo riflesso del mistero della Trinità santissima” (n. 35). Ogni vocazione speciale “sussiste nella Chiesa e per la Chiesa” in quanto “dono grazioso, gratia gratis data (charisma)”, per l’edificazione della Chiesa e la sua crescita (n. 35).
L’icona della vocazione dei Dodici presso il monte. La storia di ogni vocazione cristiana, e in particolare di ogni vocazione speciale, è la storia di un incontro, di “un dialogo ineffabile tra l’amore di Dio che chiama e la libertà dell’uomo che nell’amore risponde a Dio”. Una storia illustrata dalla Pastores in riferimento alla pericope marciana: “Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che volle ed essi andarono da lui” (Mc 3,13), dove si scorge come “da un lato vi sia la decisione assolutamente libera di Gesù, dall’altro l’‘andare’ dei Dodici, ossia il loro ‘seguire’ Gesù” (n. 36).
L’icona dell’oblazione libera di Gesù sulla Croce. Citando Paolo VI, Giovanni Paolo II ricorda come la vocazione sia “la voce umile e penetrante di Cristo che dice, oggi come ieri, più di ieri: vieni” (n. 36). La risposta a questa voce richiede un’adesione cosciente e totale. La libertà è posta di fronte ad un’opzione decisiva, quella della generosità e del sacrificio. “L’oblazione libera, che costituisce il nucleo intimo e più prezioso della risposta dell’uomo a Dio che chiama, trova il suo incomparabile modello, anzi la sua radice viva, nell’oblazione liberissima di Gesù Cristo, il primo dei chiamati, alla volontà del Padre: Ecco io vengo per fare, o Dio, la tua volontà, Eb 10,5-7” (n. 36).
La Pastores dabo vobis rappresenta un passaggio di grande rilievo per il discorso teologico della vocazione e conduce a chiederci, in particolare, se le quattro icone non possano costituire un itinerario organico, cristolologico-ecclesiale, per l’elaborazione di un’approfondita teologia vocazionale. Personalmente ritengo che la risposta possa essere affermativa, anche se occorrerebbe inserirle in un cristocentrismo più ampio, a sfondo cosmico e storico-salvifico, e recuperare in modo esplicito la categoria di Regno di Dio. Lo sfondo cosmico e storico-salvifico offrirebbe un respiro più esteso al discorso della vocazione, facendolo uscire dalle strettoie in cui viene spesso collocato e recuperando il mistero della vita e della storicità dell’uomo come vocazione nell’incontro col Cristo, nel quale tutto è stato fatto e nel quale tutto riceve il suo significato definitivo, essendo il Verbo incarnato, “il punto focale dei desideri della storia e della civiltà” (GS 45). La categoria di Regno di Dio riequilibrerebbe il discorso vocazionale, sottraendolo ad un “ecclesiocentrismo introverso” per aprirlo ad un’“ecclesiologia estroversa”, in grado di aprire alla visione del dialogo e alla missione. La Chiesa è “il germe e l’inizio” del Regno di Dio (LG 5), ma non vi si identifica tout court, né lo esaurisce. Il Regno di Dio è oltre ed è presente in tutti quei luoghi o ambiti, anche fuori dei confini ecclesiali visibili, nei quali si pratica la verità e la giustizia, si ricerca la pace e si opera per il rispetto della vita umana e la difesa dei diritti umani. La Chiesa è nel mondo; il mondo è nel piano di Dio; la Chiesa e il mondo rimandano alla pienezza del Regno di Dio inaugurato dal Risorto.
Dinamiche teologiche dell’esperienza vocazionale: interrogativi aperti
L’opzione cristologica consente di aprirsi a questi spazi vocazionali e di recuperarli in unità organica. Non tutto diventa immediatamente chiaro; molti aspetti restano da determinare ed esigono riflessioni ulteriori, ma la strada è intravista e può condurre a mete feconde.
Teologia della “vocazione” e/o teologia delle “vocazioni”?
Un problema prioritario che rimane aperto è quello relativo al rapporto che sussiste tra teologia della vocazione e teologia delle vocazioni. Come considerare questo rapporto? Il modello cristologico consente di vivificare questo rapporto e arricchirlo almeno sotto un triplice aspetto:
1) orientando a superare un modello di teologia del sacerdozio e di teologia della vita consacrata più incentrato sulla dialettica “sacro-profano”, tipica delle religioni e in parte dell’ebraismo, che sull’éschaton unico di Gesù Cristo e sulla novità assoluta della sua Pasqua;
2) indirizzando a recuperare il significato della vocazione di speciale consacrazione a Dio in un quadro antropologico più attento alla persona e ai suoi dinamismi, al significato della corporeità sessuata e della maturità affettiva, all’interno della vocazione nativa e fondamentale della creatura umana all’amore e alla comunione (FC 11), vedendo in Cristo, nuovo Adamo, il prototipo e il modello esemplare;
3) rimandando ad una valutazione più equilibrata del rapporto che sussiste nella Chiesa tra vocazioni speciali e vocazione al matrimonio, mostrandone la reciprocità e la mutua complementarietà in rapporto alla pienezza della carità di Dio da testimoniare nel mondo e in ordine ad un’integrale profezia del Regno di Dio.
Il dono della vocazione come “appello interiore”
Un problema più specifico a cui la riflessione teologica è chiamata a dedicare più attenzione riguarda il rapporto della vocazione come “dono dall’alto” e “l’appello interiore” che si pone, e talvolta si impone, nella coscienza dell’individuo chiamato da Dio ad una vocazione particolare; “appello interiore” inteso come “impulso forte”, “emozione privilegiata”, “luminosa certezza”. Non pare un simile rapporto sia stato approfondito a sufficienza, almeno a livello tipicamente teologico. I documenti della Chiesa, prima esaminati, lo ignorano quasi del tutto. Solo nella Pastores dabo vobis sono reperibili dei cenni, ma abbastanza vaghi e generici. Eppure è qui che si decide il mistero e il senso profondo della vocazione. Che rapporto si intravede tra la vocazione speciale come esperienza tipicamente personale e il dono (carisma) della chiamata di Dio? E, viceversa, quale relazione è reperibile tra la vocazione come accadimento soprannaturale e l’esperienza umana del soggetto? Non si tratta di interrogativi accademici: è in gioco l’identità stessa della vocazione speciale come “evento-dall’alto” indirizzato a passare, in modo inevitabile, attraverso le strutture dell’umano, coinvolgendole in tutto il loro essere.
L’“appello interiore” come progetto di vita
In corrispondenza all’interrogativo appena posto si situa la questione del rapporto tra l’appello interiore e un progetto radicale di vita come quello di una vocazione speciale che richiede il “tutto” e il “per sempre”. In che modo l’appello interiore si fa progetto vitale, creativo di significati totalizzanti e definitivi? Quali contenuti entrano in gioco in questa scelta? La domanda di senso? Porsi a servizio della fedeltà della Chiesa al suo Fondatore? Operare per il suo rinnovamento nel presente della storia e dei segni dei tempi? Servire l’umanità e il suo sviluppo integrale? Porsi a servizio degli “ultimi”? Divenire protagonisti della salvezza nella storia per il compimento del Regno di Dio? Quali dinamiche intercorrono – in altre parole – tra l’appello interiore e la/e motivazione/i di una scelta di vita come quella di una vocazione di speciale dedicazione a Dio e alla parola di Gesù? Come entra la dinamica affettivo-oblativa nel “sì” alla chiamata divina e nell’accettazione di un progetto di esistenza posto totalmente sotto il segno della pro-esistenza del Crocifisso? Quale ruolo gioca in tutto questo lo Spirito santo, il “Divino Iconografo”?
Rientrano, in definitiva, nell’ambito di questi interrogativi anche tutte quelle problematiche legate ai criteri di idoneità e discernimento vocazionale, e in particolare al problema delle motivazioni delle scelte vocazionali e, come rovescio della medaglia, la verifica delle cause di molti “fallimenti” vocazionali. Quand’è che una vocazione speciale è riuscita? Quando non lo è? La domanda non dovrebbe essere posta al negativo. Occorrerebbe elaborare una teologia della/e vocazione/i in grado di offrire dei paradigmi di riferimento relativi ai contenuti positivi e più significativi di una vocazione che realizza in Cristo la pienezza del suo senso e la sua configurazione plenaria. L’esperienza dei santi, criticamente vagliata, potrebbe fornire utili elementi per poter dire quando si può dire che una vocazione è ben riuscita. E non sarebbe un passo di poco conto in ordine ad un’integrale teologia della vocazione. È evidente che si tratta solo di alcuni tra i tanti interrogativi che si potrebbero formulare. Le risposte non sono affatto ovvie. Si ha anzi l’impressione che questioni come quelle segnalate siano lasciate solo, se non esclusivamente, ai direttori di spirito o agli psicologi, quasi che la riflessione teologica non abbia niente da dire. È significativo che la voce “vocazione”, presente in tutti i Dizionari di teologia biblica, di spiritualità e di morale, risulti generalmente assente in quelli di dogmatica. Evidentemente non la si ritiene degna di sviluppi teologici in senso stretto. La verifica condotta in questo studio dimostra esattamente il contrario.
Note
[1] CENTRO NAZIONALE VOCAZIONI, Piano pastorale per le vocazioni in Italia. Linee programmatiche approvate dalla Commissione Episcopale Italiana per l’Educazione Cattolica, Roma 1973.
[2] II CONGRESSO INTERNAZIONALE DI VESCOVI E RESPONSABILI DELLE VOCAZIONI ECCLESIASTICHE, Sviluppo della cura pastorale delle vocazioni nelle Chiese particolari. Esperienze del passato e programmi per l’avvenire. Documento conclusivo, Roma 1982.
[3] CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Vocazioni nella Chiesa Italiana. Piano pastorale per le vocazioni, Roma 1985.
[4] PONTIFICIA OPERA PER LE VOCAZIONI ECCLESIASTICHE, Sviluppi della pastorale delle vocazioni nelle Chiese particolari, Roma 1992.
[5] CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, CONGREGAZIONE PER LE CHIESE ORIENTALI, CONGREGAZIONE PER GLI ISTITUTI DI VITA CONSACRATA E LE SOCIETÀ DI VITA APOSTOLICA, Nuove vocazioni per una nuova Europa, Roma 1998.
[6] CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Vocazioni al ministero ordinato e alla vita consacrata nella prassi pastorale della Chiesa, Roma 1999.
[7] COMMISSIONE EPISCOPALE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, La preparazione al sacerdozio ministeriale. Orientamenti e norme, Roma 1972.
[8] GIOVANNI PAOLO II, Pastores dabo vobis. La formazione dei sacerdoti nelle circostanze attuali, Roma 1992.
[9] Cfr. C. CASTAGNETTI, Vocazione, in S. DE FIORES E T. GOFFI, Nuovo Dizionario di spiritualità, Roma 1979, pp. 1695-1696.
[10] Quest’identità trinitaria della Chiesa, come è noto, è ampiamente sviluppata dalla LG, ai nn. 2-4 e dall’AG, ai nn. 2-5. Si ricordi inoltre la splendida sintesi di UR 2: “Il supremo modello e principio del mistero della Chiesa è l’unità nella Trinità delle persone di un solo Dio Padre e Figlio nello Spirito santo”. Una prospettiva che ha costituito la base della scelta di Comunione e comunità della Chiesa italiana per gli anni ’80.
[11] Una risonanza di questo modello è reperibile, in dipendenza dai precedenti documenti del 1981 e del 1985, anche nel testo della PONTIFICIA OPERA PER LE VOCAZIONI ECCLESIASTICHE del 1992: Sviluppi della pastorale delle vocazioni nella Chiese particolari, n. 36,1.
[12] Esempio tipico di quest’ultimo approdo è l’impostazione di M. KELLER, Teologia del laicato, in “Mysterium salutis”, vol. 8, pp. 485- 520.
[13] È sufficiente ricordare come i pescatori di Ippona applaudissero con entusiasmo Agostino quando, trattando del Vangelo di Giovanni, annunciava loro il mistero della deificatio, della vita divina diffusa in noi.
[14] L’enciclica di GIOVANNI PAOLO II Redemptoris Mater offre importanti indicazioni in questa linea.
[15] Una buona prospettiva cristocentrica era presente già nel Documento-base della CEI, Il rinnovamento della catechesi, del ’70, riconsegnato alle comunità ecclesiali italiane nel 1988. Personalmente, non ho l’impressione che i catechismi pubblicati successivamente siano stati altrettanto cristocentrici.
[16] Sul tema del radicalismo evangelico, tra gli innumerevoli studi, rimando a T. MATURA, Il radicalismo evangelico. Alle origini della vita cristiana, Roma 1981.
[17] CEI, Il rinnovamento della catechesi, Roma 1970; testo riconsegnato nel 1988, n. 67.