“Amare Gesù e farlo amare”. Accompagnare al centro della vocazione e della missione
Il centro è un’immagine tra le più significative in tutte le culture per esprimere l’idea di ordine, di armonia, di essenzialità, di equilibrio, di forza anche. Tutto il cammino della vita è come un lento incedere verso il centro, per cercarlo e costruire su di esso la propria storia. Il credente ha tutto un suo modo di camminare verso il centro, per partire poi e ripartire ogni giorno da esso verso le mille strade della vita. Teresa del Bambin Gesù ha tracciato in tal senso una via, chiamata “piccola”, un modo originale di realizzare questo cammino, e pure significativo per tutti. O per chiunque sia interessato a scoprire la sua propria strada, la sua vocazione, e ad aiutare altri in questa scoperta.
Vediamo allora in questa conversazione il significato, anzitutto, sul piano psicopedagogico e poi a livello credente di questa espressione: il centro della vita. Poi cercheremo di osservare come si ponga il giovane d’oggi dinanzi a questa ricerca del centro: da intrepido cercatore o da vagabondo consumatore dell’esistenza, da Arameo errante verso una terra promessa o da sfaticato camminatore verso il nulla? E infine tenteremo di dire qualcosa sul cammino d’accompagnamento del giovane stesso verso il suo centro.
Il centro della vita
Ogni essere umano ha bisogno d’un centro; non potrebbe vivere senza. Sarebbe come vivere senza volto, o senza sapere perché. Indipendentemente dal proprio credo religioso o filosofico ognuno dunque deve fare i conti con questa esigenza naturale e imprescindibile.
Funzione del centro nel processo evolutivo
Infatti, le funzioni del centro sono notevoli lungo il cammino di sviluppo della personalità, sia il primo che quello successivo (ovvero compresa la formazione permanente).
a) Dare identità e verità (=logos)
La prima funzione è quella
– di dare identità alla persona, in ogni sua componente, facendole scoprire la fonte della sua radicale positività, ma anche consentendole di accettare il suo limite, e
– di svelarle quello che può dare senso alla sua storia, passata e presente, in quel bene e in quel male che sono parte d’ogni vita.
In una parola, o con un simbolo, diremmo che questa prima funzione risponde al bisogno umano di verità, di logos. Aver un centro, allora, non vuol dire semplicemente avere una certa tensione morale ideale; ma aver trovato qualcosa che riesce a caricare di senso l’essere e l’agire, l’amare e il soffrire, il vivere e il morire, tutto insomma. E non solo nel presente, ma anche nel passato, e in vista d’un futuro da costruire, ovvero d’una scelta vocazionale da fare o da continuare a vivere. Il centro è parte dell’io, è io attuale e io ideale, è possesso e realtà verso cui tendere, come una tensione veritativa. Al tempo stesso è per la persona garanzia di positività e verità. Dunque di stabilità.
b) Attrarre e unificare le energie affettive (=eros)
La seconda preziosa funzione del centro vitale è quella di offrire
– un polo di attrazione attorno al quale unificare le forze vive dell’affettività, della capacità di relazione e alterità, della sessualità, della fecondità umana,
– ma che sia anche punto di riferimento e criterio di giudizio delle stesse forze ed energie emotive.
Con questa seconda funzione il centro vitale manifesta la sua natura tipicamente dinamica. Non è solo centro statico e immobile di significati, ma “è un concetto dinamico…, è il punto di gravitazione…, implica il gravitare verso”[1]. In forza di questa capacità consente di accogliere integralmente le forze vive dell’eros, per non disperderle né viverle conflittualmente, per dare loro pienezza di senso e non “mortificarle” semplicemente, per porle in relazione con la propria identità vocazionale e non subirle passivamente e caoticamente. In tal modo l’affettività-sessualità è integrata col resto della personalità, come forza viva e preziosa, relazionale e feconda.
c) Attivare e orientare la capacità decisionale (=pathos)
Infine il centro esistenziale, fonte di verità per la mente ma che attrae pure il cuore, diventa anche centro di trazione, che sa assieme
– metter in movimento tutto l’apparato psichico, da un lato provocandolo, dall’altro dandogli forza e determinazione di scegliere e progettare liberamente e responsabilmente la vita;
– ma ancora una volta funziona da criterio di discernimento per le scelte della persona.
Questa terza funzione risponde a un’altra dimensione fondamentale della vita umana, quella del pathos. L’esistenza diventa drammatica esattamente quando il vivente se ne assume la responsabilità, decidendo di viverla in modo attivo e intraprendente, con scelte motivate e mirate, che possono anche complicare la vita, ma la rendono in ogni caso qualcosa di originale e coerente con un fine ben preciso, quello di realizzare la propria identità, vocazione e missione. E gli consentono in ogni caso di non subirla né di consumarla apaticamente.
Identificazione del centro
Il centro diventa dunque come il punto di riferimento costante della vita. Da un lato risponde a esigenze fondamentali dell’essere umano (del logos, dell’eros, del pathos), dall’altro è ciò in cui si riconosce se stessi, la propria identità vocazionale e missione. Per questo nel cammino di identificazione del centro vanno tenute presenti alcune attenzioni preliminari, così come ce le segnala l’approccio psicologico in particolare.
a) L’io non può esser il centro di se stesso
L’operazione di ricognizione del centro è ben condotta quando conduce l’individuo a cercare e trovare fuori di sé il punto di riferimento della vita. È un principio psicologico importantissimo quello che ci ricorda che l’io non può esser il centro di se stesso, altrimenti farebbe la fine di Narciso, nella frustrazione totale e nell’immobilità pure totale. Lo specchio è sempre fallace, e rimanda un’immagine falsa di sé, perché “immediata”, non mediata dall’altro, da un tu, da un’oggettività trascendente. Ci deve essere una trascendenza radicale, con ciò ch’essa significa sul piano psicologico: oggettività, alterità, sensazione di qualcosa che supera l’individuo, coerenza verso qualcosa che non può essere ridotta su misura del soggetto e dei suoi gusti.
b) Il centro deve essere significativo, attraente ed esigente
Ovvero deve saper rispondere alle tre funzioni ed esigenze viste sopra. Dunque capace di dare senso a tutto della storia e della vita della persona. Deve saper dare senso non solo alle realtà positive e facilmente comprensibili, ma anche a ciò che pare senza senso, anche alla morte e alla sofferenza, ad es., altrimenti semplicemente non mi serve. In tal senso il giovane va provocato a riflettere seriamente su ciò che sta mettendo al centro della sua storia, per non correre il rischio di avere un centro debole e incapace di imprimere verità alla sua avventura esistenziale o di rispondere alla sua domanda di senso. Così pure il centro deve essere capace di attrarre, o esser in se stesso attraente, ovvero dire ed esprimere qualcosa di bello in sé, ma anche aver il potere di attrarre a sé, di far convergere le forze affettive della persona, come abbiamo detto, di offrir loro un criterio coerente che metta ordine nella a volte convulsa vita affettiva del giovane. Il bello che è lo splendore del vero attira per natura sua, mette in un movimento creativo e costante; l’apparentemente bello che è sganciato dal vero è invece qualcosa che è solo da consumare, e si brucia in un attimo. Anche qui, dunque, il giovane va invitato a porre attenzione a ciò che sembra porsi naturalmente (o istintivamente) al centro della sua vita affettiva, all’insegna del “mi piace”, ma poi semina solo confusione nel suo cuore e lo tradisce.
Stessa cosa per la terza caratteristica. Il centro deve essere esigente, ovvero aver forza provocante, chiedere al soggetto il massimo di quel che può dare ed essere, se gli chiede qualcosa che si pone un centimetro al di sotto delle sue reali potenzialità non è degno di stare al centro della sua vita. Un centro, dunque, al tempo stesso significativo, attraente ed esigente, ovvero, significativo proprio perché attraente ed esigente, attraente perché fonte di verità e capace di attivare la capacità di scelte del soggetto, esigente perché conduce alla verità e all’unità della persona. È fondamentale che restino sempre assieme le tre qualità.
c) Il centro è punto non solo d’arrivo, ma di partenza
Si tende verso il centro, perché attira a sé, abbiamo detto, ma si parte anche dal centro per andare verso la vita, gli altri. Come dire, il centro attira e provoca. E dunque c’è nella vita umana un dinamismo centripeto e uno centrifugo, un momento contemplativo e uno attivo, una tensione verso l’io e una verso il tu, che in fondo rimanda alla polarità tra vocazione (=chiamato da) e missione (=inviato per), tra amare ed esser amato, tra amare e far amare. L’una non può stare senza l’altra. In un dinamismo costante di convergenza verso il centro e di esplorazione della periferia della vita.
I giovani d’oggi e il centro della vita
Dunque ricerca e scelta del centro della vita costituiscono un momento centrale nel cammino evolutivo della persona. Il problema del centro dell’uomo, cioè del riferimento fondamentale dell’uomo è problema reale: “l’uomo è un essere che ha bisogno di riferirsi a, di trovare un riferimento ultimo”[2]. Tanto più un giovane. Eppure, questa esigenza universale e tipicamente giovanile non sembra oggi tanto esplicita e confessata, o addirittura sembra ignorata e smentita, banalizzata e forse addirittura irrisa. Ma è in ogni caso presente, e va riconosciuta nelle forme pur apparentemente illogiche e contraddittorie cui dà luogo.
È impossibile che un giovane non sia alla ricerca del suo centro. Arte educativa è riuscire a fargli vedere, al di là dell’apparenza contraria, questa ricerca di un punto di riferimento centrale nella sua vita, ma soprattutto fare scoppiare la contraddizione, o indicare come spesso tanti cosiddetti problemi e tensioni giovanili nascano da una ricerca sbagliata di qualcosa di giusto. Di fatto, ci ritroviamo con giovani
Egocentrici (=io narcisista)
Sono giovani terribilmente egoisti e bambini, autoreferenziali e sempre a rincorrere un’improbabile autorealizzazione; oppure assolutamente chiusi e incapaci del minimo senso di alterità, tranquilli e senz’alcuna velleità di superamento di sé; teorici dell’autoaccettazione, ma spesso con problemi proprio di accettazione di sé e in cerca irresistibile di visibilità (il massimo, quella televisiva). Sono i classici adultescenti. Nella loro vita tutto parte dall’io e tende verso l’io, passa attraverso l’io e torna all’io: dinamismo impossibile e strada impraticabile, bloccata in un ingorgo spaventoso (l’ingorgo dell’io), per giungere a una qualche disponibilità vocazionale[3].
Eccentrici (=io emarginato)
Sono individui che mettono al centro della vita realtà o (pseudo) valori che non possono esser centrali né possono dare senso pieno e duraturo alla vita (sesso, denaro, successo…). Non si accorgono della sottile violenza che in tal modo mettono in atto contro se stessi e contro un io che viene praticamente emarginato e non riconosciuto nella sua propria dignità. A volte sono proprio personaggi strani in quel che fanno, da un lato mistici della vita spericolata alla Vasco Rossi, dall’altro imprevedibili ed eccentrici, come chiunque viva senza un costante punto di riferimento, e fuori dalla verità. Ed è proprio questo legame o dipendenza dell’io da ciò che non è la (sua) verità a inibire e svuotare ogni proposta vocazionale.
Scentrati (=io minimo)
Questi tipi il centro proprio non ce l’hanno, né hanno mai pensato seriamente alla cosa. Sono dunque giovani senza centro, indifferenti e vuoti, instabili e ballerini, superficiali e o che vivono relazioni solo virtuali (cfr. il più recente “io immaginario” o “virtuale”, appunto). Normalmente chi ha un io minimo è anche un grande inconcludente, che non porta a termine nulla nella vita: niente comprende, niente prende sul serio, niente gusta, niente soffre, di niente gode, niente decide, in niente riconosce la propria identità…[4]. L’assenza d’ogni passione rende improbabile ogni discorso e disponibilità vocazionale.
Ipercentrati (=io obeso)
Sono quei giovani che un centro ce l’hanno, eccome!, ed è anche ben visibile, ma ne fanno un uso strumentale, lo esibiscono come una bandiera, lo difendono o forse si difendono dietro di esso; o sembrano quasi appesi a esso come a un’ancora di salvezza. In definitiva si servono del centro, per trovare in esso la forza che non hanno, o per nascondere dietro a esso problemi personali (d’inferiorità, di relazione, d’identità, d’insicurezza…). Di fatto, poi, molto spesso, questo tipo di legame o riferimento finisce per bloccarli e irrigidirli, impedendo loro di partire dal centro e andare incontro alla vita e agli altri, di comprendere gli altrui punti di vista mentre assolutizzano i propri, fino al punto d’esser incapaci di misericordia. Il loro è un io obeso, incapace di muoversi. A volte tali soggetti sono molto interessati a un discorso vocazionale, ma occorre stare attenti a una sua possibile strumentalizzazione.
Il centro nella vita del credente: il mistero pasquale
Centro vitale per il credente è la Pasqua del Crocifisso e Risorto. Affermazione chiara e addirittura scontata sul piano teologico e dei valori ideali, ma che deve diventare vera e praticabile anche sul piano pedagogico ed esistenziale, nella vita di tutti e ogni giorno. È il cosiddetto modello della integrazione, che sul piano psicopedagogico cerca di accogliere l’invito di Paolo a “ricapitolare tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra”, della propria storia e della propria personalità, della vita passata e presente del soggetto credente in Cristo e nella sua croce[5]. La croce, infatti, all’interno del mistero pasquale risponde a quelle tre caratteristiche prima segnalate come tipiche del centro vitale (e alle esigenze correlate dell’essere umano).
Dona senso e verità
Nulla come la croce può dare significato a tutto, veramente a tutto nella storia della persona, perché nulla è stato così insensato come la condanna del Giusto, il quale, però, accettando la condanna senza reagire, ha riempito di senso ciò che ne era privo o gli ha dato un senso nuovo, ha messo amore laddove c’era odio, bene dove c’era male, ha ricondotto il Padre laddove gli uomini lo avevano estromesso. Noi siamo stati salvati proprio da questo atteggiamento “significativo”, capace di riattribuire senso. Siamo stati salvati dal rischio dell’insignificanza, dal non senso del male che si ripete e rigenera, della sofferenza inutile fondamentalmente, e resi capaci esattamente di dare senso. Da allora non esiste più l’assurdo. E tutto può esser caricato di senso e verità alla luce della croce.
È centro di attrazione di tutto l’organismo
La croce attira tutto e tutti a sé (“Quando sarò elevato da terra attirerò tutti a me”, Gv 12,32), ma in particolare, segno più grande dell’amore più grande, attira il cuore, indica l’amore e il senso dell’amore vero (l’ordo amoris), svela che esso ha un’intima struttura pasquale, porta le stigmate; dà la certezza definitiva a chiunque d’esser amato da sempre e per sempre, e la certezza d’esser capace d’amare per sempre; giudica quindi il cuore e le sue espressioni, purifica e orienta la sessualità perché raggiunga i suoi obiettivi naturali (ordo sexualitatis). Per questo attrae potentemente a sé ogni vivente e tanto più ogni credente, come ci racconta una ricchissima storia al riguardo. Fra i tantissimi esempi che potremmo citare, prendiamo quanto dice Thomas Merton quando descrive la sua conversione, e in particolare il momento successivo al suo battesimo di 23enne addirittura ostile, prima, a qualsiasi riferimento e senso religioso della vita, e poi catturato irresistibilmente dalla straordinaria bellezza di questo progetto divino:
“…Ero finalmente entrato nell’eterno moto di quella gravitazione che è la vita e lo spirito di Dio: la gravitazione di Dio verso le profondità della Sua natura infinita, della Sua bontà senza confini. E Dio, questo centro che è dovunque, questo cerchio la cui circonferenza non è in nessun luogo, trovandomi, attraverso la mia incorporazione col Cristo, incorporato in questo immenso e terribile moto di gravitazione che è amore, che è lo Spirito Santo, mi amava. E mi lanciava il Suo richiamo dal profondo degli infiniti Suoi abissi”[6].
C’è tutta la vita ed esperienza cristiana in quell’“eterno moto di gravitazione…, immenso e terribile”. C’è tutto il mistero divino in quell’immagine di Dio come “centro che è dovunque…, e cerchio la cui circonferenza non è in nessun luogo”[7]!
Stimola alla decisione libera e responsabile
Se nulla come la croce svela verità della vita e della morte, nulla come la croce provoca la responsabilità a prendersi in mano la vita e decidere di conseguenza. Nulla, infatti, è così responsabilizzante come l’amore. Di conseguenza, nessuno può stare dinanzi alla croce e non sentire l’appello a fare altrettanto, a dare la sua vita, a spezzare il suo corpo facendo memoria dell’Agnello innocente… Ma allora e solo allora la vita assume tutto il suo valore drammatico, di qualcosa che solo tu puoi fare e decidere in quel momento preciso della tua esistenza. E con conseguenze che vanno ben oltre i suoi confini.
Come accompagnare al centro, ovvero la …piccola via della integrazione
Non vorrei qui fare forzature indebite, ma mi sembra che possiamo ritrovare delle interessanti convergenze tra l’esperienza spirituale di s. Teresa del Bambin Gesù e il cosiddetto modello dell’integrazione, o della ricapitolazione in Cristo. Indicherò solo alcuni punti di contatto, in particolare quelli che potrebbero divenire anche delle tappe e proposte pedagogiche, lungo le quali aiutare il giovane ad avvicinarsi al suo centro. E che raccogliamo attorno alle tre qualità fondamentali del centro vitale.
Tensione veritativa
È sorprendente come in Teresa, ragazza semplicissima e senza particolare cultura, sia forte la tensione verso la verità. “Chi non vuol sentire la verità non deve rivolgersi a me”[8], sino a poter dire di sé e della propria vita: “Sì, mi sembra di aver cercato sempre solo la verità”[9] . È con questa passione coerente e incrollabile della verità che Teresa ha corroso ogni barriera di ambiguità, meschinità, opacità che si frapponesse nella felpata vita monastica, nella spiritualità inconsistente, nei discorsi devoti, ma fantasiosi, nell’agiografia immaginifica e fuorviante. Ma – data la sua consapevole ricerca della verità – ha rischiato inconsciamente di credere che il problema fosse facilmente risolvibile ritirandosi “dentro di sé”, come tante proposte spirituali suggerivano, dando, o rischiando di dare, eccessiva importanza ai propri sentimenti, anzi, assumendoli quasi come prova e garanzia della verità dell’esperienza spirituale. In tal senso la clausura, quale forma radicale di ricerca solitaria della verità, avrebbe potuto offrire un pericoloso tranello. È in fondo il pericolo che si corre anche oggi, anche nel nostro modo di proporre la DS come forma di accompagnamento dei giovani verso la vocazione: quello di non sottolineare abbastanza tale cammino come tensione verso la verità, o verso quel centro che esiste indipendentemente dal soggetto, al di là dei suoi sentimenti e risentimenti. E allora ecco alcune norme pedagogiche, che ci accontenteremo solo di enunciare, in pratica.
a) L’oggettività precede (e rivela) la soggettività
Si tratta, anzitutto, di educare al senso dell’oggettivo, ovvero a cogliere tale cammino di ricerca come vincolato a norme oggettive, e non ridotto alla scoperta delle proprie simpatie e attrazioni. La DS vocazionale non consiste in una somministrazione di tests attitudinali, né si conclude con la comunicazione dei risultati (di questi tests) come fossero tout court “la” verità del soggetto, cui “obbedire” e da eseguire e basta. Non so francamente quanto abbiamo recepito nella pastorale vocazionale quel prezioso principio indicato da Nuove vocazioni per una nuova Europa: “Sarà importante che l’educatore vocazionale provochi nel senso d’un impegno che non sia su misura dei gusti del giovane, ma sulla misura oggettiva dell’esperienza di fede, la quale non può, per definizione, esser qualcosa di addomesticabile. È solo il rispetto di questa misura oggettiva che può lasciar intravedere la propria misura soggettiva. L’oggettività, in tal senso, precede la soggettività e il giovane deve imparare a darle la precedenza, se vuole davvero scoprire se stesso e quello che è chiamato a essere”[10].
È una mentalità estremamente favorita dalla cultura odierna quella che rifiuta per istinto tutto ciò che sa di oggettivo o normativo o vincolante per tutti, e non consente al giovane di capire che ha tutto l’interesse di dare la precedenza all’oggettivo. L’oggettivo protegge e custodisce il soggettivo, e garantisce il cammino verso la propria soggettività, perché non sia cammino verso il caos. Il centro della vita, costituito dalla Pasqua del Signore, è questo oggettivo, rappresenta il punto di riferimento abituale dell’esistenza credente. Ma è pure il luogo dell’animazione vocazionale, dell’accompagnamento vocazionale, del discernimento vocazionale. Poiché la Pasqua di Gesù è il luogo ove l’oggettività del dono svela la soggettività del destinatario del dono, ovvero il dono rivela non solo l’identità del Donatore, ma anche la vocazione di chi riceve il dono.
b) Verità pasquale
E allora, sempre sul piano pedagogico, diventa importante e addirittura decisivo un esercizio: imparare a leggere la propria vita assumendo la pasqua di Gesù come criterio di lettura. Che è come dire: cogliere e imprimere una verità pasquale alla propria storia come un senso al tempo stesso già presente in essa, e assieme come un senso da dare, specie per alcuni eventi[11]. In altre parole, la Pasqua è la verità della vita, ne svela il senso, a volte evidente, a volte nascosto. Cercare tale senso è un procedimento laborioso, e naturalmente va commisurato al reale livello di maturità credente del soggetto. Ciò che è importante è che la persona giunga a cogliere il cosiddetto principio ermeneutica vocazionale: la vita è in ogni caso un bene ricevuto che tende, per natura sua, a divenire bene donato. Questo è il principio che spiega la vita (e la sua struttura kenotica in quanto dono che viene dall’alto), le dà un senso, e glielo dà nella prospettiva esattamente della Pasqua di Gesù, che sulla croce celebra al massimo grado proprio l’indissolubile nesso tra bene ricevuto e bene donato. Da un lato tale principio o verità pasquale favorisce una lettura (o, tanto meglio, scrittura) positiva dell’esistenza e della persona, induce a cogliere tutto il bene ricevuto. Dall’altro apre alla responsabilità nei confronti del bene ricevuto, e lascia intuire come la scelta di donarsi a propria volta quale scelta vocazionale non abbia nulla di eroico e speciale, ma sia invece parte della logica del dono, e della coscienza del dono ricevuto, e dunque si ponga come esigenza naturale e inevitabile.
E allora questo principio spiega non solo il bene, ma anche il male o il negativo presente nella vita passata e presente; più in particolare indica quale sia l’unica risposta possibile al male, se non si vuole che esso divenga maledizione che si rigenera. Sempre a immagine del Figlio che sulla croce risponde al male con il bene. Solo a questo punto la Pasqua di Gesù si colloca davvero al centro della vita della persona, e ne ispira la scelta vocazionale. Una vocazione nasce autentica solo qui. Come espressione della verità pasquale della vita umana! Una verità da applicare-imprimere a tutti gli istanti e frammenti di vita, come verità degli esseri e delle cose, del passato e del futuro!
Attrazione emotiva
Questo centro che è la croce del Figlio-Servo-Agnello attrae e unisce le potenze affettive della persona. Per due ragioni almeno, che diventano come altrettanti percorsi pedagogici. E che vediamo straordinariamente espressi nella vita di Teresa di Lisieux, tutta dominata da un anelito d’amore o da un bisogno d’esser amata e d’amare che sembra incontenibile e incontentabile, che a volte pare assumere atteggiamenti e cadenze infantili, e che invece trova a un certo punto piena risposta.
a) Le due certezze
La morte di Gesù in croce è un evento determinato unicamente dall’amore, come una scelta libera fatta in forza dell’amore di Dio per l’umanità intera. Dunque la croce racconta all’uomo la grandezza senza confini dell’amore dell’Eterno, o dona al singolo la certezza radicale d’essere amato, e non in modo qualsiasi e per un tempo limitato, ma da sempre e per sempre, perché l’amante è Dio, colui che è da sempre, l’Eterno, appunto. Dunque la croce consola, proprio perché dà questa certezza. Ma, al tempo stesso la croce provoca. Ovvero dà l’altra certezza: quella d’esser capaci d’amare. E, ancora una volta, non in modo qualsiasi, ma con la stessa benevolenza, intensità d’amore, libertà interiore… del crocifisso stesso. Dio ci ha amati fin a questo punto, di renderci capaci d’amare come lui! Siamo stati dunque salvati esattamente dall’egoismo, dall’incapacità d’amare, dalla ricerca smodata e disperata (e dunque incontentabile) d’amore, dalla paura d’esser benvoluti, dalla pretesa di meritare l’amore, dallo squilibrio tra l’urgenza (infantile) di ricevere e la libertà (adulta) di dare… Tutti sinonimi di non libertà affettiva, tutte espressioni d’una fondamentale incertezza in queste due aree, e dunque anche d’una radicale disperazione. Quell’incertezza che appare molto evidente in fra Adalberto[12] , anzi che è all’origine del percorso tortuoso della sua inconsistenza affettiva, un’inconsistenza che è vera e propria dipendenza, infatti, il contrario della libertà affettiva.
La croce non è semplicemente e genericamente il segno dell’amore divino, ma ciò che dà al tempo stesso quelle due certezze che sono, a livello psicologico, le condizioni della libertà affettiva; davvero è il punto centrale del cosmo intero che tiene assieme queste due polarità della vita di tutti che sembrerebbero contrapposte, l’amore ricevuto e l’amore donato, e ci fa invece capire e sperimentare che non esiste l’una senza l’altra, e che non esiste autentica scelta vocazionale se non all’interno di questa esperienza della croce, il segno più grande della verità della vita, bene ricevuto che tende, per natura sua, a divenire bene donato. È questa l’autentica esperienza della croce, quella che attrae, come disse Gesù (cfr. Gv 12,32), perché porta alla libertà affettiva e alla scoperta della propria vocazione come espressione di libertà affettiva.
b) Sessualità pasquale
Avere un centro forte nella vita, o possedere un centro vitale ricco di grazia e verità, consente di non perdere neanche un frammento della propria umanità e personalità, permette di dare senso a tutto, di raccogliere tutto (esattamente come Gesù che fece raccogliere anche gli avanzi dopo la moltiplicazione dei pani), anche ciò che sembrerebbe in sé distante o …immondo o troppo terreno e solo naturale, come ad es. la sessualità. Un centro forte consente d’integrare tutto. E questo è molto importante nel cammino evolutivo e di ricerca vocazionale del giovane.
La sessualità è realtà troppo importante e benedetta da Dio per esser messa tra parentesi o considerata immonda, continuando a dare la strana idea che consacrato e presbitero siano persone asessuate, che celibato presbiterale o verginità religiosa siano soprattutto una forma di controllo e contenimento se non addirittura di negazione e sacrificio della propria sessualità. Credo che in effetti tanti giovani abbiano rinunciato in partenza a una certa possibile opzione vocazionale perché condizionati, magari inconsciamente (o da qualche maldestro accompagnatore?), da questa mentalità retrograda e pure profondamente radicata in una certa memoria affettiva (poco) credente e ancor meno intelligente (e tanto meno verginale). Diventa allora decisivo nel cammino di accompagnamento spirituale favorire in tutti i modi questa integrazione della sessualità attorno al mistero della pasqua, che dovrebbe lentamente condurre il giovane credente a sperimentare come la prospettiva pasquale costituisca la più alta possibilità di espressione e valorizzazione della propria energia affettivo-sessuale. Poiché nulla come la croce apre all’alterità e alla fecondità della relazione (le due caratteristiche centrali della sessualità), perché l’amore ha una struttura pasquale, e il corpo umano è vero, e non mente, solo quando esiste nella forma del dono[13], o nella forma eucaristica.
In concreto ciò vorrà dire un lento e costante “passaggio” obbligato: quello della affettività-sessualità attraverso il vaglio e il giudizio della croce e della resurrezione, perché ne assuma lo spirito e la forza. Lasciandosi quotidianamente
– giudicare da essa, in ogni sua espressione, dagl’impulsi ai desideri inconfessati, poiché solo l’amore (vero) può riconoscere l’amore (falso);
– purificare, perché il cuore amando “solo” Dio impari ad amare alla maniera di Dio, cioè tutti e intensamente;
– orientare, tornando a oriente, alle origini, a quell’amore che è il primo e l’ultimo e che ora è effuso in ogni cuore, nel quale sono compresi tutti gli altri amori e al quale ogni affetto deve obbedire per esser vero;
– liberare da ogni paura e disperazione, egoismo e presunzione, preoccupazione di sé e chiusura all’altro…, e quant’altro è segno della paura primitiva dell’uomo, quella di non essere abbastanza amabile;
– salvare, perché la carne sia sempre più riconosciuta e “vissuta” come dimora dello Spirito, e resa da esso feconda[14].
Dovrebbe essere come un esercizio costante quotidiano, nel quale l’affettività-sessualità, lungi dall’essere il luogo del conflitto permanente, diventa sempre più il luogo della scintilla pasquale, della presenza dello Spirito dell’amore, e non sia più solo “materia delicata” da confidare con qualche rossore al confessore, o luogo d’un contrasto insanabile, o zona franca ove ognuno si gestisce per conto suo facendosi larghi sconti o imponendosi inutili automutilamenti. Mi pare che anche in questo l’atteggiamento dei Teresa di Lisieux rappresenti un esempio riuscito di persona che non ha rinunciato a un frammento della propria emotività e affettività, ma tutto ha saputo vivere in pienezza e persino esuberanza in forza della sua fede.
Decisione responsabile
La terza caratteristica del centro vitale, abbiamo visto, è quella di possedere la capacità di mettere in movimento il dinamismo decisionale del soggetto. Non sta al centro, insomma, solo per esser contemplato, ma per divenire punto di riferimento che indica una direzione e sollecita in continuazione una presa di posizione. Che può anche complicare la vita, ma che svolge anche una funzione importante ai fini del discernimento vocazionale. Chi non ha un centro non può scegliere nulla nella vita, anzi, non entra nemmeno nella logica della vita come vocazione. Sul piano pedagogico accenno qui a due proposte metodologiche.
a) Coerenza e unità di vita
Il segreto della pedagogia è di proporre itinerari mirati con tappe intermedie che si succedano con una certa consequenzialità logica e spontaneità per consentire il raggiungimento dell’obiettivo finale. Ebbene, qui, nel nostro caso, il segreto sarebbe proprio quello di procedere e aiutare a procedere in modo lineare dalla scoperta della verità in quel nucleo veritativo che è la pasqua del Signore, all’attrazione emotiva per colui che è appeso al legno, e da qui alla decisione d’esser come lui. Che è in fondo il passaggio consequenziale dalla libertà affettiva come condizione di base (resa possibile dalle due certezze già viste) alla libertà affettiva come prassi e stile di vita. La quale consiste nella decisione di dipendere in tutto quel che uno fa, dice, pensa, progetta, desidera… da ciò che (o da chi) uno ama ed è chiamato ad amare.
Questa è la vera libertà (e libertà affettiva), anche se può sembrare paradossale che al centro dell’idea di libertà non vi sia, come molti pensano, l’autonomia e la voglia (più o meno selvaggia) di “fare quel che mi pare e piace”, ma vi sia invece il suo …contrario, ovvero la dipendenza; ma in realtà questa è la piena coerenza con se stessi, con la propria verità e identità, che è amata, ovvero apprezzata nella sua verità bellezza-bontà, al punto di divenire concretamente modo di essere e di vivere. È la piena unità di vita, poiché qui la persona s’identifica con ciò che ama, sino a dipenderne in tutta la sua vita, in tutta la propria personalità. Più concretamente, l’oggetto dell’amore diventa anche il modo d’amare, di stabilire relazioni. Ed è già scelta vocazionale.
b) Coscienza pasquale
Ma è anche coscienza pasquale. Ovvero coscienza del figlio, tipicamente filiale. Del figlio che si sente assolutamente libero, proprio nel senso chiarito più sopra, libero perché del tutto certo dell’amore del Padre, libero dunque di lasciarsi benvolere ancora e soprattutto di darsi totalmente all’altro, facendosi carico di lui. In piena responsabilità, che è il vertice della libertà. Ecco il punto decisivo che vediamo quanto mai evidente nell’esperienza di Teresa del Bambin Gesù: il coraggio della responsabilità per l’altro. Come espressione dell’autentica coscienza credente, e del credente che sperimenta sempre più la salvezza come dono del tutto immeritato ma che ora lo riempie in abbondanza. E allora non può non decidere di pensare la sua vita e la sua persona non più in chiave di sé, neppure ponendosi semplicemente l’obiettivo della propria salvezza o, più sottilmente ancora, della propria perfezione, ma mettendosi decisamente nella prospettiva dell’altro, dell’altro da accogliere incondizionatamente, dell’altro da amare e il cui peso caricarsi sulle spalle.
È solo il figlio, o chi è assolutamente certo dell’amore ricevuto, che può fare questo, con coscienza tipicamente pasquale, ovvero ripetendo o facendo con gli altri e per gli altri quel che il Signore Gesù ha compiuto per lui. In assoluta libertà e responsabilità. Ancora una volta è la Pasqua di Gesù il passaggio decisivo, vocazionalmente decisivo. Anche dal punto di vista pedagogico, o dell’esperienza da fare e della opzione di vita che ne dovrebbe sgorgare. “Dopo il peccato (dei nostri progenitori), – dice infatti R. Cantalamessa – la vera grandezza d’una creatura umana si misura dal fatto di portare su di sé il minimo possibile di colpa e il massimo possibile di pena del peccato stesso. Cioè nel non commettere il male e tuttavia accettare di portare le conseguenze di esso. Questo – continua p. Raniero – è il tipo di sofferenza che avvicina a Dio. Solo Dio, infatti, se soffre, soffre da innocente”[15].
È quello che ha sentito con estrema intensità di dover fare Teresa, giunta a sperimentare un profondissimo senso di solidarietà coi peccatori. Se la sua via è chiamata “piccola”, ciò si riferisce alla semplicità, certamente, della sua logica e alla coscienza del suo niente, ma fa pensare, soprattutto, a quei paradossi cristiani per cui chi rinuncia a mettere il proprio io al centro della vita (e dunque è piccolo) dimostra poi una forza straordinaria, e si fa capace di portare il peso degli altri, di farsi solidale coi peccatori, al punto di sperimentarne il senso penosissimo della lancinante lontananza da Dio, com’è successo a Teresa[16]. Ebbene, questo è il punto di forza d’una autentica AnVoc, il senso di responsabilità per la salvezza altrui. Per questo la “piccola via” è l’unica via (cfr. C.M. Martini), via semplice, praticabile da tutti, autentica e genuina. Anche per l’animazione vocazionale.
Note
[1] G. MOIOLI, Il centro di tutti i cuori, Milano 2001, p. 72.
[2] MOIOLI, Il centro, 73.
[3] Mi sembra perfettamente corrispondente alla logica narcisista (e alla prassi che ne segue) la straordinaria intuizione di P. Florenskji circa la natura del male, definito con stringata e felice sintesi, come “autoaffermazione inospitale” (P.A. FLORENSKJI, La colonna e il fondamento della verità, Milano 1974 (1998), p. 222). “Un’autosufficienza che rende inetti al dono e ad ogni accoglienza, fino a portare la persona alla frantumazione del suo nucleo interiore”, cioè del suo centro, commenta Valentini (N. VALENTINI, L’arte della gratuità, Introduzione a FLORENSKJI, La colonna, 29).
[4] Probabilmente a questi personaggi è rivolto l’appello di mons. F.X. Nguyen Van Thuan, per lunghi anni carcerato e torturato nelle prigioni vietnamite: “Non lasciarti contaminare dalla superficialità. Questa malattia causa la morte graduale della volontà. I suoi sintomi sono un continuo cambiamento di opinione e di attività. Che la tua vita non diventi un cimitero di progetti non realizzati”.
[5] Circa questo modello cfr. A. CENCINI, L’albero della vita. Verso un modello di formazione iniziale e permanente, Cinisello B. 2005.
[6] T. MERTON, La montagna dalle sette balze, Milano 1968, p. 269.
[7] Altra mirabile espressione del potere attrattivo-unificante della croce è l’esperienza nella e della sofferenza proprio d’un frate carmelitano, p. Maurizio Vigani: “La croce ha un potere di unificazione portentoso, dal momento che la vittima ha voluto consacrare se stesso come luogo di annientamento della dispersione, della divisione, del peccato… aprendo la porta a tutte le potenzialità positive e buone” (p. MAURIZIO DI GESÙ BAMBINO, L’ostrica perlacea. Diario di una malattia, Pessano 1998, pp. 138-139). Anche l’atteggiamento del vescovo Savio durante la malattia che lo porterà alla morte va in questa direzione: “Che possiamo sentire la morte e resurrezione di Gesù con una contentezza che riempie la vita e ce la fa sentire una meraviglia” (CENCINI, L’albero, 297).
[8] TERESA DI LISIEUX, “I miei pensieri”. Scritti autobiografici, Pessano 1997, p. 20.
[9] Ibidem.
[10] Nuove vocazioni per una nuova Europa, 28.
[11] È la logica che Manenti chiama del “senso posto e senso dato”, cfr. A. MANENTI, Vivere gli ideali/ 2. Fra senso posto e senso dato, Bologna 2003.
[12] Si tratta del caso discusso nei gruppi durante il convegno vocazionale, e tratto da CENCINI, L’albero, 268-273.
[13] Cfr. A. CENCINI, Verginità e Celibato oggi. Per una sessualità pasquale, Bologna 2005, pp. 114-115.
[14] Ibidem, 115-120.
[15] R. CANTALAMESSA, Il mistero del Natale, Milano 1999.
[16] “Sentii che l’amore mi entrava nel cuore col bisogno di dimenticare me stessa per far piacere agli altri, e da allora fui felice”. La passione si fa compassione sia verso Dio che verso gli altri (TERESA DI LISIEUX, “I miei pensieri”, 23).