Consacrati e Chiesa locale: testimoni di un bene “fragile e raro”: la speranza
È ormai un fatto assodato sotto ai nostri occhi: l’uomo contemporaneo crede più ai testimoni che ai maestri, più all’esperienza che alla dottrina, più alla vita e ai fatti che alle teorie. La testimonianza della vita cristiana, oltre che quella della propria scelta vocazionale, è la prima e insostituibile forma della missione: Cristo, di cui noi continuiamo la missione, è il “testimone” per eccellenza:
Giovanni alle sette Chiese che sono in Asia: grazia a voi e pace da Colui che è, che era e che viene, dai sette spiriti che stanno davanti al suo trono, e da Gesù Cristo, il testimone fedele, il primogenito dei morti e il principe dei re della terra (Ap 1,4-5).
È Lui il modello della testimonianza cristiana.
All’angelo della Chiesa di Laodicèa scrivi: Così parla l’Amen, il Testimone fedele e verace, il Principio della creazione di Dio: conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! (Ap 3,14-15).
Ma abbiamo uno straordinario compagno di viaggio: lo Spirito Santo; egli accompagna il cammino della chiesa e la associa alla testimonianza che Lui stesso rende a Cristo.
Quando verrà il Consolatore che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre, egli mi renderà testimonianza; e anche voi mi renderete testimonianza, perché siete stati con me fin dal principio (Gv 15,26-27).
Sullo sfondo di questa nostra riflessione ci saranno alcune indicazioni e alcuni input che ci vengono dalla traccia di riflessione in preparazione al Convegno di Verona del prossimo ottobre 2006. È questo il nostro QdR.
LA TESTIMONIANZA DELLA VITA CONSACRATA E LE SFIDE DELLA “POST-MODERNITÀ”
Da più parti si leva la voce che stiamo vivendo un periodo di cambio epocale e che questa “crisi raggiunge i livelli più profondi della cultura e dell’ethos collettivo”, così si esprimeva già Giovanni Paolo II nel Convegno di Palermo.
Il rischio che parecchi di noi si sentono addosso, quasi come una febbre che percorre tutte le ossa, è quello di… aver davvero corso invano.
Vorrei utilizzare, in maniera molto evocativa, una metafora che possa rendere in maniera immediata e visiva il contesto culturale in cui noi tutti siamo inseriti e darci una traiettoria per interpretarlo e per viverlo.
Potremmo qui ricordare la bellissima parabola di Leonardo Da Vinci, che in questo caso non ricordiamo nel contesto del “Codice Da Vinci”, il romanzo di Dan Brown che tante letture stravolte e stravaganti ha fatto passare nella mentalità dei suoi milioni di lettori.
Una parabola per ricordare il volo maestoso dell’aquila reale e del suo testamento ai… figli degli uomini.
«Quando l’aquila reale, solitaria su di una altissima roccia, sente avvicinarsi il momento della sua morte, chiama a raduno i suoi aquilotti, li guarda uno per uno e dice loro: “Io vi ho nutriti ed allevati perché siate capaci di fissare l’occhio nel sole. I vostri fratelli che non ne hanno sopportato la vista, sono morti di fame, ma voi siete degni di volare più in alto di ogni altro uccello. Ora io sto per lasciarvi, ma non morirò nel mio nido. Volerò in alto, fin dove mi porteranno le ali; mi protenderò verso il sole, quanto più vicino possibile. I suoi raggi infuocati bruceranno le mie vecchie penne e io precipiterò a terra, cadrò nell’acqua del torrente impetuoso.
Ma da quell’acqua il mio spirito risorgerà, pronto a ricominciare un’esistenza nuova in ciascuno di voi. L’aquila reale non muore finché rimane nel nido un aquilotto reale…”.
Detto questo, l’aquila reale spicca il volo in presenza dei suoi figli, allibiti. Con una virata magnifica ruota intorno alla roccia e poi punta diritta verso l’altissimo azzurro per bruciare nel sole le sue ali maestose. E le sue grandi ali diventano un punto sempre più piccolo, nel lontano orizzonte»[1].
Figli dell’aquila, figli degli uomini, grande e insieme meravigliosa è l’avventura a cui siamo chiamati:
“Volare in alto, avvolti dalla luce e dal calore del sole, per cogliere frammenti d’Amore… frammenti d’Infinito”.
Forse, in maniera un po’ didattica, possiamo aiutarci con un piccolo dizionario della post-modernità, quasi un prét-à-porter, per cogliere le sfumature del tempo in cui noi siamo coinvolti e le sfide che esso propone alla Vita dei Consacrati[2].
Il “post-moderno”
Non designa principalmente una serie d’eventi storici, (che pure ci sono!), ma piuttosto una nuova sensibilità, una nuova modalità di cogliere e di rapportarsi (o non rapportarsi) ai valori; un nuovo approccio al tempo e alla storia; un nuovo modo di vivere, spesso fatto di stili molto “omologati” di comportamento.
È il tempo della “morte del pensiero” e del suo inarrestabile indebolimento. Un pensiero che diviene estremamente duttile e legato essenzialmente alla prassi, al fare, quindi anche alla frenesia della vita: è il trionfo del pragmatismo.
La scienza
Il ruolo affidato a Dio è sempre più marginale: colui che era definito il “grande orologiaio” dell’Universo, sembra non essere più necessario, perché l’uomo possiede tanti segreti della vita e del mondo. Tuttavia è la scienza stessa, con A. Einstein, che introduce il concetto di “relativo” e la mentalità corrente si incentra sempre di più su concetti come probabilità, casualità e, non da ultimo, complessità.
Ci sono parole come relativismo, indeterminazione, casualità, evoluzione, movimento, che sono oramai entrate in maniera prepotente nel vocabolario e nel modo di pensare anche della gente comune.
Quindi c’è la scomparsa della fiducia in un unico punto di identificazione della realtà, che si presenta sempre più con molteplici aspetti e sfaccettature: è una realtà pluralistica e complessa, che non può essere né riconciliata né riunificata e sfugge ad ogni forma di precisa catalogazione.
La complessità del mondo e dell’io
Pulsioni originarie come eros e aggressività (siamo nella teoria di Freud), entrano in contrasto con le norme che cercano di disciplinarle, portando l’individuo umano a recitare su due diversi palcoscenici: il conscio e l’inconscio.
Tutto si complica e anche il passato più remoto e lontano arriva a condizionare il presente ed il futuro.
Ma soprattutto, ciò comporta un’ulteriore demolizione della religione, che in Freud diviene “nevrosi-malattia”, insieme al ridimensionamento del concetto di responsabilità, sommersa e quasi annientata dall’inconscio.
Il nihilismo
Esso trova sostanzialmente molte delle sue radici nel pensiero filosofico di F. Nietzsche, quando afferma l’inconsistenza radicale di tutte le elaborazioni della ragione umana e culmina nella celebre affermazione della “morte di Dio” a vantaggio dell’uomo stesso.
Dio, come tentativo di dare un fondamento oggettivo e normativo-etico al mondo e all’uomo, “è morto”, e siamo noi che lo abbiamo ucciso… L’uomo resta solo ad affrontare la sfida della vita; nulla ha consistenza e valore: il mondo, la verità, i valori sono solo delle belle favole!
Questa visione è tipica di molta letteratura e filmografia contemporanea, in cui la sessualità (o più spesso l’erotismo), è sempre più affiancata alla morte e all’uccisione dell’altro (un esempio abbastanza interessante potrebbe essere la filmografia di Stanley Kubrik, a partire dal suo famoso film-scandalo “Arancia meccanica”). Ciò comporta anche tutto il filone della trasgressività tipica di alcune reti televisive (Italia 1, MTV e altre, rivolte come target esclusivo ai giovani): è un imperversare di trasgressione nella violenza e nel sesso; ed ora è anche il tempo della oramai onnipresente e onnipotente lobby dei “gay”.
Una religiosità politeistica
Queste società del postmoderno conservano, tuttavia, un carattere di religiosità che la secolarizzazione non ha distrutto, e queste tematiche riemergono in maniera talvolta strana, all’inizio del nostro 3° millennio: pensiamo al successo del romanzo sopra ricordato, “Il Codice Da Vinci” di Dan Brown, e di tutto l’interesse per il Graal, i templari, le varie sette pseudo-religiose.
Da un lato si avverte il bisogno di recuperare la dimensione del sentimentale e dell’irrazionale, che controbilancino il freddo appiattimento scientifico della mentalità tecnica; dall’altro c’è una rivalutazione della mitologia e di tutto quello che è esoterico, in una forma di neopaganesimo o di politeismo postcristiano, che sta alla base della nuova religiosità fortemente sincretista e tollerante di tutto: direi un’affermazione piuttosto evidente dello gnosticismo attuale e della New Age, anche nei romanzi sopra citati.
A questo contribuisce anche il crescente multiculturalismo, con cui ci stiamo confrontando sempre più, filtrato spesso in maniera irrazionale e priva di una reale conoscenza storica e critica.
Il modello consumistico
È sintetizzato nella parola globalizzazione, desunta dall’economia, ove indica l’entrata in scena di nuovi soggetti economici, soprattutto quelli asiatici e dei paesi dell’ ex-socialismo sovietico.
La mentalità indotta nel consumatore è quella della soddisfazione illimitata dei desideri, portandolo ad un’omologazione dei gusti e dei desideri. Ciò porta ad un appiattimento delle capacità critiche e conoscitive, della curiosità e dell’apertura al mondo.
Beviamo tutti la Coca-Cola, vestiamo con gli stessi jeans, guardiamo le stesse fiction, siamo appiattiti tutti sugli stessi format dei reality show, le nostre case contengono gli stessi oggetti per dormire e mangiare… le differenze sono destinate a cedere alla forza della omogeneità.
La riconferma, se ne avessimo bisogno, è la dequalificazione della scuola e l’impoverimento delle produzioni artistiche.
L’uomo di questa società consumistica, diviene sempre più banale, vive nell’inautenticità della chiacchiera e dei “si dice”, ove sopra tutto imperversa il gossip: intuizione già presente in M. Heidegger, con la sua proposta dello… “spaesamento dell’essere”.
Anche la religione viene vista nella logica del supermarket, e questa è la teoria del sociologo T. Luckmann[3]; si prendono gli aspetti più interessanti, per lasciar perdere quelli non in linea con la propria sensibilità.
La società multimediale: la scomparsa della realtà e del tempo
Il mondo dei media crea imitazione, ma soprattutto porta alla perdita del senso del reale e della temporalità, perché tutto può essere “manipolato”… È il punto culmine della realtà virtuale e dell’intelligenza artificiale.
Puntando tutto sull’immagine, questi mezzi impediscono l’analisi e generano indifferenza e assuefazione: ognuno si crea il suo “muro di gomma” su cui tutto rimbalza.
Non avendo più l’uomo un suo centro, tutto diviene significante e accumulabile (le notizie hanno la stessa valenza), senza però mai diventare storia.
Ecco l’attimo fuggente, in cui il futuro è già passato: è esattamente la patologia denunciata da Kosellech. Non c’è più distanza tra lo spazio dell’esperienza e quello dell’attesa del futuro, e questo porta inesorabilmente alla perdita della “memoria” e al diventare preda di una “amnesia esistenziale…”.
LA VITA CONSACRATA …PER ACCENDERE IN CUORE LA “SPERANZA”
Nell’etimologia greca la parola “crisi” non ha solo una valenza conflittuale o negativa, come spesso viene accentuato, ma significa letteralmente scelta e decisione, quindi ci porta verso una fecondità e una creatività della vita stessa, anche se maturata in momenti difficili, faticosi e sofferti.
Non possiamo esimerci dal fare delle scelte, per non essere travolti da questi cambiamenti. L’abbandono di alcune certezze, ci può portare alla scelta di nuove vie, magari anche coraggiose, per accendere la speranza nel cuore degli uomini e delle donne del nostro tempo, spesso annichiliti da un profondo senso di smarrimento, di confusione e di vuoto interiore.
La debolezza dell’uomo come fonte di crescita e positività
Essa ci aiuta a capire noi stessi prima e a trasmettere anche agli altri questo messaggio “forte”: ciascuno di noi è un “debole strumento”…
La ragione era stata divinizzata al punto di vedersi attribuire le stesse caratteristiche di Dio. Ciò ha portato ad una razionalità forte, intollerante e violenta. Ecco la cura dimagrante proposta dal filosofo Gianni Vattimo, quando parla della “razionalità debole”.
L’uomo Prometeo torna a ricordarsi della sua origine da fango della terra (Gn 1,26-27; 2,7).
Evitando gli eccessi della svalutazione, si ritorna a parlare di limite e debolezza dell’essere umano, in quella doppia distanza tra il nulla e Dio, che costituisce il suo primario modo di esistere.
L’invito alla debolezza può esser letto come invito all’umiltà, a non confondere il compito di custode e lavoratore del Giardino con quello di proprietario.
Egli è chiamato ad interpretare una realtà che gli viene affidata senza nomi, quindi ad umanizzarla… È chiamato a bilanciarsi tra la tentazione dell’autosufficienza e la sua situazione di essere in dialogo, che invoca aiuto, per poter far funzionare e non distruggere la creazione posta nelle sue mani.
Vivere la ricerca della Verità come “Mistero”…
C’è un’interessante interpretazione di P. Marko Ivan Rupnik, teologo gesuita ben conosciuto, sul termine “verità” in quattro differenti accezioni e tradizioni linguistiche[4].
– In ebraico il termine verità = emet, deriva da un verbo, aman, che significa essere solido, sicuro e degno di fiducia. Infatti, il popolo ebraico identifica in JHWH questa sua incrollabile fiducia e verità.
– Il termine greco alétheia significa non nascosto, svelato, ma anche non dimenticato. È l’aspetto conoscitivo della verità in ciò che si rende visibile e conoscibile alla razionalità umana.
– Il latino veritas sottolinea di più il Mistero da essa evocato, in quanto deriva il suo significato dall’aggettivo “vero, cioè degno di essere creduto”…
– Il termine slavo che significa verità è istina: il suo significato deriva da due termini che indicano tutto ciò che esiste e che respira; è la conoscenza di tutto ciò che rappresenta una realtà vivente.
Come subito notiamo, questa è una lettura sinfonica del termine, ce ne dà una valenza ampia, non ridotta al suono di un semplice strumento.
L’ultima accezione ci apre alla comprensione della verità neotestamentaria, identificata nella persona stessa di Gesù (Gv 14,6). La verità si dispiega nella sua intima essenza che è l’amore. Solo l’amore è capace di fare unità nella pluralità, senza violenze.
La verità introduce quindi alla relazione, alla alterità più intima e profonda.
Italo Mancini, sulla scia di E. Lévinas, afferma che oramai è tempo di abbandonare la logica occidentale tutta centrata sull’essere e poi sull’io, per andare verso la logica più biblica del “volto”.
L’io è una identità unificante e totalizzatrice che esclude il confronto e la valorizzazione della diversità, intesa come apertura all’altro. Per spezzare questo orizzonte occorre recuperare il senso profondo che ha nella iconografia classica il colore Blu… cioè un tornare ad immergersi nella sfera dell’Infinito Altro. Esso ci ricorda l’impossibilità di esaurire tutta la realtà entro gli schemi umani che la pensano. E il rimando all’Infinito viene anche dal volto dell’altro, che con la sua diversità ed alterità ti provoca ad uscire da te stesso.
La diversità e la tolleranza alla base della “Accoglienza”
La proposta di Lévinas è incentrata sull’accoglienza di ogni volto, perché è volto, ancora prima di essere bello o brutto, sano o malato, dallo sguardo ostile o benigno. E questo ci rimanda alla dimensione del mistero di cui ogni uomo è portatore.
Di fronte a queste suggestioni, vorremmo ricordare come il cuore del mistero cristiano è certamente l’unità di Dio, però un’unità che si compone dell’unità e dello sguardo d’amore delle tre persone divine[5].
La Trinità dà veramente il fondamento ultimo di una vera tolleranza sociale. Esso è l’archetipo di come possa nascere e mantenersi l’unità nella diversità: nel servizio libero e amorevole reciproco. La parole chiave diventa quindi “accoglienza”; quale via migliore per incarnare oggi la scelta della vita consacrata?
Questo è anche il tempo della… misericordia
Uno degli aspetti più nefasti della nostra cultura, come abbiamo sottolineato sopra, è il diffondersi del nihilismo. Questo spalanca un abisso d’angoscia, ma insieme apre lo spiraglio per l’annuncio della misericordia del Padre.
Sempre secondo P. Rupnik, l’epoca attuale può essere paragonata al momento in cui il figlio prodigo, dopo essersi allontanato dal padre, che riteneva un padrone, si ritrova schiavo… tra i porci (Lc 15,15).
Credendo di trovare la libertà allontanandosi dal padre, ha trovato la peggiore schiavitù: quella di se stessi. Qui però può nascere l’ultima tentazione: il figlio rientra in se stesso e pensa a quanto accadeva nella casa del padre. Pur partendo dal ricordo e dalla nostalgia, esso è indice di un cammino spirituale.
Ma il figlio della parabola, rientrato in sé, è tentato di autopunirsi, mantenendosi in una condizione di schiavitù: “Trattami come uno dei tuoi garzoni” (Lc 15,18-20)[6].
L’ultima tentazione cerca di farci rimanere atei, di non entrare nella dimensione autenticamente religiosa. Cerca di sostituire una fede “relazionale” con una fede “etica”; il pensiero del bene diviene un agire secondo pensieri pii e devoti.
Ma la nostra scelta di vita ce lo insegna: credere è essenzialmente amare, rinunciando ad ogni protagonismo, anche se di tipo spirituale. È l’invito offerto anche da P. Silvano Fausti in “Elogio del nostro tempo”, a non confondere il senso di colpa con il senso del peccato[7].
Il primo è “la coscienza di ciò che sono e ciò che dovrei o vorrei essere”, mentre il secondo “è la coscienza della mia distanza da colui che mi ama”.
È questa misericordia del Padre che prima di tutto abbraccia e riveste il figlio peccatore, che oggi può e deve essere annunciata, per ridare radici ad un autentico programma di ricostruzione morale.
L’ARTE DI ESSERE “NARRATORI”, CON LA VITA, DELLA SPERANZA
La Speranza è un bene fragile e raro…
“Il primo giorno dopo il sabato, di buon mattino, si recarono alla tomba, portando con sé gli aromi che avevano preparato. Trovarono la pietra rotolata via dal sepolcro; ma, entrate, non trovarono il corpo del Signore Gesù. Mentre erano ancora incerte, ecco due uomini apparire vicino a loro in vesti sfolgoranti. Essendosi le donne impaurite e avendo chinato il volto a terra, essi dissero loro: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato. Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea, dicendo che bisognava che il Figlio dell’uomo fosse consegnato in mano ai peccatori, che fosse crocifisso e risuscitasse il terzo giorno». Ed esse si ricordarono delle sue parole. E, tornate dal sepolcro, annunziarono tutto questo agli Undici e a tutti gli altri” (Lc 24,1-9).
“La proclamazione della speranza della risurrezione riveste oggi particolare significato per dare forza e vigore alla testimonianza. In un tempo dominato dai beni immediati e ripiegato sul frammento, i cristiani possono lasciarsi omologare alla mentalità corrente, ma devono seriamente interrogarsi sulla forza della loro fede nella risurrezione di Gesù e sulla speranza viva che portano con sé. Credere nel Risorto significa sperare che la vita e la morte, la sofferenza e la tribolazione, la malattia e le catastrofi non sono l’ultima parola della storia, ma che c’è un compimento trascendente per la vita delle persone e il futuro del mondo”.
“La speranza è un bene fragile e raro, e il suo fuoco è sovente tenue anche nel cuore dei credenti. Lo aveva già intuito Charles Péguy: «La piccola speranza avanza tra le sue due sorelle grandi [la fede e la carità] e non si nota neanche». Quasi invisibile, la «piccola» sorella sembra condotta per mano dalle due più grandi, ma col suo cuore di bimba vede ciò che le altre non vedono. E trascina con la sua gioia fresca e innocente la fede e l’amore nel mattino di Pasqua. «È lei, quella piccina, che trascina tutto»” (da Il portico del mistero della seconda virtù).
Se la speranza è presente nel cuore di ogni uomo e donna, il Crocifisso Risorto è il nome della speranza cristiana. Vedere, incontrare e comunicare il Risorto è il compito del testimone cristiano” … e, aggiungiamo noi, del Consacrato e della Consacrata oggi” (cfr. Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo – Instrumentum laboris per il Convegno di Verona, n. 2).
Come custodire e far crescere questo bene fragile e raro che è la speranza? Possiamo individuare alcuni sentieri di vita e di fede…
Ritrovare il coraggio di “desiderare”
Sappiamo tutti, per esperienza diretta, che non sempre e non tutti i desideri che nascono in noi, trovano realizzazione; eppure credo fermamente che il nostro cuore abbia il diritto, anzi oserei dire il dovere, di desiderare e quindi di sperare…
Troppo a lungo un certo tipo d’educazione ha compresso tutto il mondo dei “desideri”; intendo parlare della corrente di quei desideri legittimi che ci aprono su orizzonti più ampli del nostro piccolo mondo finito, reso asfittico e legnoso perché carico di illusioni e disillusioni; desideri che ci proiettano non tanto in un mondo di fantasie infantili, quanto in una modalità di vita che ci dà il coraggio di cercare il di più, di cercare più in là, che in fondo ci aprono un passaggio attraverso una “Stargate – la porta delle stelle”, su quel mondo che potremmo chiamare “il fascino del nuovo”; un mondo che evoca e provoca il coraggio di cercare o, forse, di saper ancora aspettare.
È un fascino che attira e polverizza ogni dinamica di risucchio nella monotonia, nella banalità, nella mediocrità di un cuore angusto e stretto, che non fa abbeverare a quelle “cisterne screpolate” di cui parla il profeta Geremia, segnate dalle nostre paure, dai nostri condizionamenti, dai nostri conformismi, dalle nostre insicurezze, rassegnazioni e sfiducie.
Credo che il cielo stellato dei desideri si regga su due colonne: la voglia della novità, non fine a se stessa, ma capace di un colpo di ala alla nostra vita, e la perseveranza della attesa, perché il coraggio della attesa paziente, alla lunga, viene premiato.
Ci viene in aiuto, per comprendere questo, un bellissimo testo di S. Paolo: Rm 8,18-25.
“Io ritengo, infatti, che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi… Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Poiché nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza”.
Certo, se una di queste colonne si spezza, tutta la “volta celeste dei desideri” è seriamente minacciata…
Sentirsi chiamati a crescere
È significativo l’incipit del n. 8 del Documento preparatorio:
Di fronte al credente testimone sta un cammino di crescita e di responsabilità: «Anche noi possiamo camminare in una vita nuova»(Rm 6,4). La metafora del cammino introduce l’idea del tempo, della fedeltà e della libertà, e dà alla vita cristiana un carattere “drammatico”; la libertà, cioè, si mette in gioco, attraversa il deserto dell’esistenza ed è sottoposta alla prova per entrare nella terra promessa di una vita libera e salvata. Per descrivere la vita cristiana, Paolo usa metafore riferite agli sport duri: lotta, pugilato, corsa di resistenza. Solo con una testimonianza offerta in forma “agonistica” si cammina nella vita nuova, si vive cioè quel difficile e “agonico” dono di sé che non teme neppure la morte, perché è abitato dalla speranza del Risorto.
L’abbiamo già accennato sopra: il contesto culturale in cui noi viviamo e dal quale non possiamo prescindere, perché fa da sfondo ad ognuna di queste riflessioni, privilegia l’istante rispetto alla durata, l’esperienza immediata ed intensa rispetto a quella riflessa, preparata e riletta senza affanno e con disincanto; non si cresce prescindendo dalla durata, dal tempo assimilato, dalla pazienza accettata.
La speranza non diventa allora solo un’esperienza emotiva: in essa si ha la consapevolezza piena che nel nostro cuore l’uomo può andare a fondo in un abisso di disperazione, ma può anche alzare gli occhi al cielo e credere che egli può salire… e non solo cadere.
Felice il pellegrino della vita che porta la sinfonia della speranza nel cuore: essa lo aiuta a superare le paludi, il deserto arido e sassoso, il bosco oscuro e impenetrabile nei momenti più difficili della vita.
Ma questa speranza non s’improvvisa; è necessario imparare a farla crescere, cercare in noi stessi tutte le risorse di vita e di fecondità che Dio ha posto nel cuore di ogni uomo.
Del resto la prima parola di Dio all’uomo è, guarda caso, proprio un appello a crescere; in Genesi 1,2-28 la Sua parola risuona decisa: “Crescete, siate fecondi e riempite la terra”.
Non è solo appello ad una crescita biologica o demografica; è anche un appello ad intendere tutta la vita come una “forza di crescita” (è la “dìnamis” greca!).
Nel Vangelo troviamo tantissime immagini che ci richiamano alla mente e al cuore la dinamica della crescita: il seme chiamato a maturare, il lievito che fermenta, la rete che si riempie di pesci, la sala da nozze verso cui convergono (o non) gli invitati, la città che viene edificata sulla cima della montagna…
In una esperienza di “relazione”
È quanto ci suggerisce il n. 5 del Documento preparatorio del Convegno:
“L’incontro con il Risorto, infine, è esperienza di relazione. La missionarietà della Chiesa non ha lo scopo di dire “altro” o di andare “oltre” Gesù Cristo, ma di condurre gli uomini a lui. Il modo è uno solo: una relazione “spirituale”, capace di trasformare la vita personale e sociale. Il mistero della Chiesa, il senso dei suoi gesti e delle sue iniziative, la forza della sua testimonianza hanno il compito di introdurre gli uomini alla relazione viva con il Risorto”.
Non penso di parlare solo per esperienza personale: sempre più mi vado convincendo, guardando alla storia di ognuno di noi, giovani e meno giovani, che “non si cresce da soli, ma in una relazione possibilmente vera e profonda”.
Nella relazione con gli altri, (che poi diviene anche uno specchio spesso assai realistico della nostra relazione con Dio), noi portiamo quello che siamo, talvolta anche senza accorgercene: in essa viviamo la possessività o l’oblatività, l’aggressività o la fiducia, la docilità o il senso di competitività e di dominio che ci urgono dentro, la gioia e la serenità o l’inquietudine e la malinconia del nostro essere e del nostro esistere.
È fondamentale riandare all’importanza dell’Amicizia, per far nascere in noi la speranza; ora potremmo semplicemente aggiungere quanto sia importante l’Amicizia per crescere.
Dice la scrittrice Zenta Maurina Raudive, in uno dei suoi stupendi squarci di percezione d’umanità, che “l’Amicizia è una pietra preziosa, la fedeltà è l’oro che tutta la abbraccia, e senza questo sicuro abbraccio il prezioso gioiello non arriva a risplendere in tutta la sua bellezza e finisce per perdersi”.
Ma la relazione non è solo strada piana e sicura: può anche essere un insieme d’imprevisti e la fedeltà ad essa conduce a fare l’esperienza della notte. Crescere significa accettare “le morti” che l’incontro con l’altro ci fa vivere. Non sempre una relazione vive nella luce piena…
Ci sono momenti in cui il legame sembra attenuarsi fin quasi a sparire, in cui la rinuncia sembra pesare più della gioia di quello che s’incontra, in cui i passi con l’altro si fanno incerti e silenziosi; quello che mai si pensava potesse succedere, invece può accadere in un istante.
Eppure, anche queste “morti” possono diventare un passaggio di crescita.
Voler crescere in una storia
È sempre il n. 5 a guidarci…
“Testimone è chi sa sperare. La testimonianza cristiana è contrassegnata dalla speranza di Pasqua, dal giudizio sul peccato del mondo che non ha accolto il Salvatore e dalla riconciliazione con cui il mondo viene redento e trasfigurato. Il luogo di questa riconciliazione è l’uomo nuovo, restituito alla buona relazione con il Signore e reso capace di plasmare la vita, di condurre un’esperienza quotidiana di relazione in famiglia, con gli amici, al lavoro, nella società. In questi scenari si attua l’esercizio del cristianesimo radicato nella speranza della risurrezione”.
È anche molto bello e intenso uno degli input per la riflessione, che segue subito dopo:
“Il cuore della proclamazione e della testimonianza cristiana è Gesù Cristo Risorto, fonte di speranza per il credente e fondamento del suo impegno per rinnovare la vita e il mondo. In un clima sociale e culturale in cui gli orizzonti sono spesso fissati su piccoli frammenti di vissuto, come può la speranza cristiana mobilitare le energie spirituali, purificare e orientare le speranze fragili, sostenere i momenti di delusione?”.
Un presente di speranza assume significato riferito ad un passato di “memorie buone” e aperto ad un avvenire di “promesse”. Ma quali sono le “memorie buone”?
Penso a quegli eventi che hanno segnato in maniera positiva la nostra vita e che noi spesso tendiamo o a dimenticare o a sottovalutare, dando maggior peso a quelle realtà di negatività o di fallimento che ci hanno coinvolti e, generalizzandole, finiamo col ripeterci: “Lì non sono riuscito… quindi non valgo niente!”.
Siamo disposti a riconoscere che questa generalizzazione è indebita, eppure ci ostiniamo a muoverci su questo binario di negatività.
Tuttavia noi sappiamo che si può “cavare il bene” anche dalle situazioni di fallimento e che Dio spesso segue questa via, in verità molto misteriosa ai nostri occhi e spesso indecifrabile. Per fare questo, però, è importante che il passato sia vissuto come “memoria”.
Il dimenticare quello che siamo stati, vuol dire perdere degli essenziali punti di riferimento per quello che siamo e che potremo essere. Vivere nell’amnesia ci rende degli automi in balia d’ogni evento della vita, senza una storia, senza un futuro, senza una meta. Vivere la “memoria” è cominciare a rileggere la nostra vita alla luce di Dio, con i suoi occhi, che sono occhi di tenerezza e di misericordia e non d’inappellabile ed esigente giudizio.
È la scoperta della continuità del flusso dei doni di Dio, del fatto, come dice un bellissimo racconto assai noto e utilizzato, che Lui ha continuato a portarci in braccio, anche nei momenti in cui non ce ne siamo proprio accorti. Solo così il presente è accolto nella fede e in un realismo che sa di speranza; il nemico più subdolo del presente è quella forma d’idealismo irrealistico, di fantasie d’onnipotenza infantile che ci ricacciano indietro in forme di “non crescita” umana e spirituale, che ci immettono in un tunnel fatto d’improbabili sogni di cambiamenti, invece di vivere l’oggi di Dio a cui siamo chiamati.
Sempre di più mi vado convincendo di una grande ed essenziale verità: si va a Dio non “nonostante” i nostri sbagli ma “con” il proprio limite, la propria fragilità e anche il peso oscuro e misterioso del proprio peccato.
E poi la nostra storia non avrebbe un senso se non fosse finalizzata: l’incontro con DIO, ma anche con il DESIDERIO più profondo del cuore umano, si apre sempre su di un “Avvenire” e si fonda su di una “Promessa di Speranza”; non è solo una parola pensare al nostro Dio come al Dio della Promessa. Ma occorre ripetercelo più e più volte ancora: bisogna lasciare qualcosa, anche di quello che ci sembra importante e… saper attendere.
Il “Dio della Promessa” diviene anche il “Dio dei distacchi”.
Tutto ciò è indispensabile per non ridurre il nostro anelito all’angusto orizzonte del nostro piccolo e limitato desiderio.
Giocando a dama…
C’è un racconto che ben sintetizza questo cammino di “crescita nella Speranza”. È tratto dalle opere del filosofo Martin Buber, profondo conoscitore di molti racconti della letteratura ebraica e soprattutto della Scuola dei Chassidim.
“In uno dei giorni della festa della Dedicazione del Tempio (tra novembre e dicembre), Rabbi Nahum entrò all’improvviso nella Scuola del Talmud e trovò gli studenti che giocavano… a dama, come è d’uso in quei giorni. Quando videro entrare il maestro, si confusero e smisero di giocare; ma questi scosse benevolmente la testa e chiese: «Ma conoscete anche le leggi del gioco della dama?».
E siccome essi non aprivano bocca per la vergogna, si rispose da se stesso: «Vi dirò io le leggi del gioco della dama.
– Primo: Non è permesso fare due passi alla volta.
– Secondo: È permesso solo andare avanti e non tornare indietro.
– Terzo: Quando si è arrivati in alto, beh, allora si può andare dove si vuole»”.
Tre leggi di vita da capire, da interpretare, da attuare. Tre leggi per far crescere in noi la Speranza.
PRESENZE VIVE DI SPERANZA E UNITÀ NELLA CHIESA LOCALE
Gli uomini che attendono Cristo sono ancora in un numero immenso: gli spazi umani e culturali, non ancora raggiunti dall’annuncio evangelico o nei quali la Chiesa è scarsamente presente, sono davvero tanto ampi, da richiedere l’unità di tutte le forze.
“Vi esorto dunque io, il prigioniero nel Signore, a comportarvi in maniera degna della vocazione che avete ricevuto, con ogni umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportandovi a vicenda con amore, cercando di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti. A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo. Per questo sta scritto: Ascendendo in cielo ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini” (Ef 4,1-8).
Vorrei fare qualche sottolineatura sul terzo ma cruciale aspetto della nostra riflessione oggi: “Come la Vita Consacrata può essere presenza viva di Speranza in una Chiesa locale e in particolare nella pastorale vocazionale? E che cosa ne riceve in cambio?”.
È un aspetto, questo, sul quale ho cercato spesso di riflettere insieme con alcuni amici religiosi, religiose e consacrati laici, soprattutto in questi anni di cammino e di lavoro comune all’interno del CDV.
Vorrei qui riproporre alcuni aspetti essenziali di questo rapporto di reciprocità, così come insieme credo l’abbiamo vissuto e condiviso, in una ricca e feconda esperienza di vita ecclesiale e di pastorale vocazionale.
Innanzitutto credo sia importante sottolineare quanto sia fondamentale che all’interno di un CDV si respiri una forte dimensione di ecclesialità, proprio perché le diverse vocazioni sono presenti non da spettatrici, ma in maniera attiva e dinamica, in maniera tale da sentirsi tutte coinvolte e valorizzate. Questo comporta anche scelte pratiche nel costituire un Centro Diocesano Vocazioni (per es. seguendo il criterio di una rappresentatività estesa nel costituire la Commissione CDV e nel coordinarla con un’agile lavoro di Segreteria).
Sono certo che a tutte le diverse espressioni vocazionali, ma alla Vita Consacrata in particolare, una Chiesa locale e il suo CDV possano offrire la possibilità di esprimere la propria specificità nei tanti ambiti degli impegni pastorali che si propongono.
– È innanzitutto un apporto di riflessione, quello che la Vita Consacrata stessa può esprimere, portando la propria ricca sensibilità all’interno di quanto una Chiesa locale, nel suo cammino, va riflettendo e maturando, perché proviene da un’ottica sensibile, integrativa e quindi più feconda.
– Si tratta inoltre anche di un apporto concreto nella operatività, riguardante le attività specifiche nei vari ambiti tipici dei carismi della Consacrazione stessa, o di quanto in particolare un CDV mette in corso d’opera. Penso, a titolo esemplificativo, al lavoro di équipe comune nel preparare e nel condurre gli Esercizi Vocazionali per adolescenti e giovani, ai Week-end di spiritualità, alla preparazione e proposta comunitaria della Veglia vocazionale in vista della GMPV annuale, ai vari Gruppi di spiritualità e discernimento vocazionale, ai Campi scuola o ai Pellegrinaggi vocazionali, vissuti con entusiasmo e con frutto insieme, all’apporto nell’ambito della disponibilità per essere Guide spirituali… Sono queste iniziative e mille altre ancora, dentro alle quali la Vita Consacrata ha l’opportunità non solo di collaborare, ma anche di dire una “parola forte di Speranza”, offrendo una specificità carismatica, propria delle diverse spiritualità.
– È una valorizzazione piena dei singoli carismi, nella bellezza di una comunione che mette insieme tutte le vocazioni. Perciò, se da una parte questo comporta un prendere coscienza del dono originale del proprio specifico, sull’altro versante esso impegna ad una valorizzazione, ad un apprezzamento e alla conoscenza quasi caleidoscopica delle altre vocazioni presenti. È come se ognuna prendesse luce – e quindi “bellezza” – dalla luce e dalla bellezza delle altre.
È il dono e la testimonianza della comunione: ed è un dono straordinario che proviene dalla esperienza di appartenenza al CDV ed è offerto a tutta la Chiesa locale, in maniera più intensa che in altri ambiti pastorali, pur significativi. Esso è il frutto di un legame solidale e profondo che ogni consacrato vive nella relazione, non solo funzionale, con i preti diocesani e gli altri consacrati.
Un simile cammino di coinvolgimento non porta a far risaltare delle “appartenenze privilegiate”, (sarebbe un controsenso alla luce di quanto indicato sopra…), ma è piuttosto all’interno della realtà del CDV che le iniziative di ogni singolo Istituto trovano una forte eco e amplificazione. Davvero può essere il CDV stesso che si propone come mezzo di divulgazione, nell’ambito della Chiesa locale, di quanto i vari Istituti propongono nei loro cammini di spiritualità e pastorale vocazionale, per una maggiore conoscenza e condivisione: così si crea un “tam-tam” e un fraterno “passaparola” che fa giungere le informazioni anche là dove altrimenti forse mai arriverebbero.
Chi si coinvolge, giocandosi nella comunione, sperimenta di non lavorare privatamente o individualmente in un angusto spazio privato, ma di dare tempo e lavoro, tutti insieme, nella grande vigna del Signore, raccogliendo frutti più copiosi (magari non secondo le proprie aspettative, ma secondo la legge della gratuità…), perché lavorare da soli richiede un dispendio molto alto di energie, spesso con scarsi risultati, mentre il mettere insieme le risorse e le forze, nella comunione, al di là dei risultati, ci fa capire di non aver corso invano…
Vorrei concludere questa rapida carrellata di spunti per incoraggiare un lavoro comune nelle nostre Chiese locali, riportando le parole cariche di speranza che, appena qualche giorno fa, una cara amica, laica consacrata impegnata nell’ambito della Chiesa locale e del CDV, mi consegnava. Ne riporto solo qualche stralcio:
“Rileggendo la mia piccola storia all’interno del CDV, alla luce della Parola di Dio, come donna consacrata secolare sento che, nel mio specifico, la prima espressione dell’annuncio evangelico è quella di vivificare, con la forza del Vangelo, l’ambiente in cui vivo, perché ogni uomo ritrovi se stesso in Cristo… Questa presenza allargata alle varie forme di Vita Consacrata e non (laici, catechisti, sposi, ecc.), è la grande ricchezza del CDV, per il dono che ognuno porta in sé, ed è ricchezza che rifluisce all’interno di ogni Istituto o forma di vita qui rappresentati…
…Colgo e vivo questa esperienza del CDV, nella mia realtà di Chiesa locale, come una opportunità allargata di ricchezza di doni, espressioni e proposte; come un aiuto sincero e appassionato per i giovani, affinché possano anche loro vivere e fare esperienza di Dio nella propria vita. Credo che per tutti noi Consacrati sia davvero una realtà grande e straordinaria mettere in comune i doni che ognuno esprime, con il risultato di realizzazioni, proposte e itinerari che altrimenti non sarebbero per nulla possibili…
…CDV e CHIESA LOCALE: una realtà che va creduta con passione e coltivata con amore. Purtroppo constato con una certa sofferenza che, almeno in alcuni ambiti, essa sembra davvero inesistente: qualche nostro sacerdote non sa neppure cosa sia il CDV! Per altri aspetti, questa dimensione entra ancora con tanta fatica nella Chiesa locale; ma occorre anche dire che, seminando con pazienza, in altre realtà della nostra Chiesa questa pastorale “comunitaria” comincia ad essere solidamente radicata. È una realtà in cammino, che va integrandosi pian piano, con fatica ma anche con convinzione. Vedo che è essenziale crederci.
CDV e VITA CONSACRATA: è una straordinaria esperienza da parte degli Istituti che, più che sottrarre risorse ed energie, ricevono ricchezza e stimoli al rinnovamento, alla conversione, ad un’apertura sempre nuova che ci rimette sempre in discussione e riflessione. Una dinamica comune che ci rimette costantemente in gioco e questo stimola a rimanere giovani, nell’indicare in GESÙ colui che tutti dobbiamo seguire, come fece Giovanni Battista con i suoi discepoli:
“Ecco l’Agnello di Dio! …E i due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù” (Gv 1,36-37).
IN GESÙ RISORTO… LAMPIONAI DELLA SPERANZA
Come sono attuali le parole intense e profonde del Salmo 40:
“Ho sperato: ho sperato nel Signore
ed egli su di me si è chinato, ha dato ascolto al mio grido.
Mi ha tratto dalla fossa della morte, dal fango della palude;
i miei piedi ha stabilito sulla roccia, ha reso sicuri i miei passi.
Mi ha messo sulla bocca un canto nuovo, lode al nostro Dio.
Quanti prodigi tu hai fatto, Signore Dio mio,
quali disegni in nostro favore: nessuno a te si può paragonare…
Non ho nascosto la tua grazia e la tua fedeltà alla grande assemblea.
Esultino e gioiscano in te quanti ti cercano,
dicano sempre: «Il Signore è grande», quelli che bramano la tua salvezza.
Io sono povero e infelice; di me ha cura il Signore.
Tu, mio aiuto e mia liberazione; mio Dio, non tardare”.
Quanto sin qui abbiamo cercato e proposto costituisce un itinerario, una ricerca, un progetto e un impegno non facili da tradurre in pratica nella propria vita.
Per essere “lampionai di speranza”, l’abbiamo ben chiaro anche dall’Instrumentum laboris per il Convegno di Verona, occorre innanzitutto partire da se stessi: significa imparare ad accendere la Speranza “dentro” di noi. Le cose “vere” della vita nascono sempre dal di dentro, perché solo nell’interiorità e nel silenzio esse possono crescere e maturare senza forzature e manipolazioni.
– La via della convinzione: la speranza diviene possibile e vivibile solo se noi stessi, per primi, la crediamo tale. Quante persone perdono la Speranza forse proprio perché smarriscono la via dell’interiorità del cuore. Quanti dicono sconsolati: “È così!… Per me sarà sempre così, non posso fare nulla per cambiare la mia vita”. E si arrendono. Ma la vera vittima, nella vita, è soltanto chi si rassegna: vittima di se stesso, della sua sfiducia, della sua non speranza.
– La via dell’accoglienza, che sana le ferite di chi non si è sentito capito, accettato e soprattutto amato. Un grande psicoanalista e psicoterapeuta contemporaneo, S. Nacht, usa un’immagine che mi ha profondamente colpito: «Se qualcuno viene da te per raccontarti le sue angustie e le sue ansie, tu non classificarlo subito, non giudicarlo, non imbrigliarlo dentro alle “tue” illuminazioni o sensazioni. Sii piuttosto per lui come… “una comoda poltrona” in cui egli possa sedersi, rilassarsi, sentirsi davvero a suo agio, accolto e ascoltato». Il cuore inteso come… “comoda poltrona”. Quando si vive qualche momento di sofferenza, di malinconia, di tristezza (e la vita, in questo senso, non fa sconti a nessuno!), questi diventano macigni insopportabili se si uniscono al peso della solitudine. Chi è solo trova con difficoltà la forza di reagire e di cercare, di rialzarsi e di ricominciare; insomma, la forza di “sperare”. La solitudine taglia le gambe molto spesso: da fantasma aleggiante ed impalpabile diviene ingombrante e insopportabile realtà.
– La via della compagnia: non solo e non tanto perché “insieme è bello”, ma perché insieme il cuore può superare tante paure. E qui diventa importante, forse davvero essenziale, trovare chi accetta di condividere il proprio “lumicino” di Speranza e camminare con noi, tenendo il ritmo del nostro passo, anche se appesantito, vacillante e incerto. Queste sono le vie dei cuori semplici, di coloro che hanno imparato (e non certo senza fatica) a “soffrire… sperando”. Del resto anche l’aver vissuto solo qualche contatto con qualsiasi realtà legata all’handicap, alla malattia o alla sofferenza psicologica e morale, diventa una miniera preziosa di come imparare dai più deboli ad affrontare la vita, coniugando insieme pianto e sorriso. Ci sono dei testimoni preziosi e feriali di questa Speranza, a cui ognuna delle nostre vite può attingere…
– Questa, alla fin fine, è la via dell’abbandono nella fede: è la consapevolezza non rassegnata né subita, ma offerta, che ogni esistenza ha la sua croce; ogni cuore ha la sua spina che lo trafigge e lo fa sanguinare un poco; ogni vita può manifestare debolezza e fragilità, magari quando meno te lo aspetti. A tutto ciò il Signore dà una risposta sola, la stessa di cui ci parla autobiograficamente s. Paolo, nella Seconda lettera ai Corinti (12,9): «Amico, amica mia, ti basta la mia GRAZIA».
E allora, per finire…, sento importante dire che in questa ricerca sui sentieri della Speranza, che Gesù Risorto ci dona, questi sono certamente pensieri poveri e semplici, magari riflessioni meno tratte dai libri e più cercate e apprese nella vita e dal cuore della gente semplice, nelle loro storie fatte di sofferenza e di desideri, di nostalgie e di Speranza.
Pensieri di una ricerca che rimane “aperta”… più che consegnata alle certezze acquisite. A questo punto le mie, anzi le nostre parole sulla Speranza, lasciano spazio alle parole del Silenzio.
Nella consapevolezza profondamente acquisita che…
più che sapere, occorre saper essere,
più che guardare, occorre vedere,
più che parlare, occorre vivere.
Uniamoci per camminare insieme. Grazie!
Note
[1] La parabola di Leonardo è tratta dal testo a cura di L. VAGLIASINDI, La morale della favola, Gribaudi, Torino 1984, pp. 129-130.
[2] Per una lettura più completa di queste note rimando ad una mia personale rielaborazione più approfondita in N. DAL MOLIN, Verso il Blu: lineamenti di psicologia della religione, Messaggero, Padova 2001, 2° ed., pp. 41-50.
[3] LUCKMANN T., La religione invisibile, Il Mulino, Bologna 1969.
[4] RUPNIK M.I., Dire l’uomo, Lipa, Roma 1996.
[5] FORTE B., Trinità per atei, Cortina ed., Milano 1996.
[6] RUPNIK M.I., Gli si gettò al collo, Lipa, Roma 1997.
[7] FAUSTI S., Elogio del nostro tempo, Piemme, Casale Monferrato 1996.