Una riformulazione “cristocentrica” della pastorale vocazionale
La riflessione teologica e pastorale che si sta riaprendo sul tema della “vocazione”, recuperando la dimensione cristologica di questa tematica, non è certamente nuova e fa venire subito alla memoria l’icona biblica del Vangelo che ci presenta uno Scriba attento e sapiente, che sa trarre dal tesoro del suo cuore e della sua intelligenza “cose nuove e cose antiche”: ma proprio per questo il recupero di una lettura cristocentrica del cammino vocazionale, può avere delle importanti ricadute sul versante psico-pedagogico e spirituale della pastorale vocazionale.
Come ricordava giustamente don Carlo Rocchetta, nella sua recente relazione tenuta a Cascia per un seminario di studio del CNV, ovviamente non si tratta di “partire dall’anno zero”, sotto questo profilo, ma di recuperare una dimensione probabilmente un po’ dimenticata e disattesa in questi ultimi anni, quella cioè di “mostrare come l’incontro con Cristo sia da considerare il fondamento primario e sorgivo di ogni identità vocazionale”[1].
Nel contributo della rivista Vocazioni 2004, citato in nota, è sempre Rocchetta a sottolineare come “il modello tipicamente cristologico, pur essendo ovviamente implicito in tutte le figure, non risulta esplicitamente tematizzato (…), prevalendo piuttosto altri modelli come quello personale-esistenziale, quello trinitario-ecclesiale o quello ministeriale-comunitario.
Una osservazione immediata che balza agli occhi è come “la prospettiva di fondo predominante nei documenti sembra essere specialmente, anche se non esclusivamente, ecclesiologica“.
A. UNA PASSWORD TUTTA DA RISCOPRIRE: “VOCAZIONE”
Per questo, avendo sullo sfondo la figura di “Gesù, Signore e Maestro, centro e fine di tutta la storia umana” (G.S. 10), credo importante rileggere in chiave dinamica e personale il fascino esercitato dal volto di Gesù, dal suo stile di vita, dalla forza delle sue chiamate sempre nuove e originali ai suoi discepoli, per cercare di addentrarci nell’ambito misterioso e affascinante dell’evento “vocazione”, cercando di esplorare questo diamante puro e cristallino nelle sue molteplici sfaccettature, senza ridurci a guardarlo con un’ottica semplicistica e riduttiva.
Così si esprime il Concilio Vaticano II: “La voce del Signore che chiama, non va affatto attesa come se dovesse giungere al nostro orecchio in qualche modo straordinario. Essa va piuttosto riconosciuta ed esaminata attraverso quei segni di cui si serve ogni giorno il Signore, per far capire la sua volontà”[2].
In questa formulazione proposta dal Concilio, ci sono due elementi assolutamente essenziali:
– il Signore chiama, ma in maniera del tutto ordinaria;
– i segni vocazionali sono nell’ambito della vita di tutti i giorni; di quello che uno è nella sua storia e personalità, di quello che uno fa’ o desidera compiere come scelta di vita.
1) Il concetto tradizionale dell’evento “vocazione”
Un’idea molto diffusa di vocazione, presente tuttora in tante persone consacrate che vivono il ministero dell’essere “guide spirituali”, parte da una visione piuttosto statica di questo evento di Grazia: si indugia, cioè, su una visione piuttosto “cosificata ed essenzialista” del rapporto uomo-Dio.
Questo modo di vedere la realtà vocazionale, ci porta a credere a presupporre l’esistenza di un modello comune e omogeneo di vocazione, per cui essa è uguale per tutti, è concepita come un dono, o meglio come una specie di decreto eterno, quasi una sorta di predestinazione, che fissa in anticipo il futuro destino di colui che viene chiamato.
Chi non trova questa strada fissata per la propria esistenza “… sin dall’abisso dell’eterno”, o chi rifiuta questo dono, è destinato a sentirsi per sempre infelice nella vita, e si porta dentro il marchio di un senso di colpa (spesso indotto anche da un certo tipo di “letture esterne” della sua vita e delle sue scelte), per non essere stato disponibile ad accettare questo dono e “privilegio” a lui dedicato.
Spesso, si è ribadito questo tipo di formulazione, con alcune espressioni bibliche che, ancora oggi, sentiamo risuonare nella loro forza, ma non sempre nella loro corretta contestualizzazione: “fin dal seno materno io ti ho chiamato…” (Is 49,1).
Oppure, si corre il rischio di diventare altrettanti personaggi alla…“Giona”, che scappano impauriti e disorientati dall’altra parte del mondo, salvo poi venire raggiunti senza scampo da questo destino ineluttabile.
La vocazione così intesa, sembra quasi una specie di progetto prefabbricato, un embrione già inserito nel DNA psicologico e spirituale del chiamato, che egli deve scoprire, tirare fuori dalle fibre del suo essere e far crescere. È come una specie di copione già scritto, che aspetta solo di essere preso tra le mani e recitato; certo, con una partecipazione il più possibilmente convinta, ma anche con una interpretazione che sia la più fedele possibile alla lettera del testo.
Per ognuno si tratta di trovare, quindi, questa “road map” o, se vogliamo usare una espressione più legata ai sogni infantili e adolescenziali, la propria “mappa del tesoro” che ci fa altrettanti Robinson Crosué e, una volta individuata, di seguirla nei minimi dettagli, perché essa è l’unica e possibile strada della propria personale realizzazione e felicità.
I toni da me proposti, sono qui volutamente estremizzati, per rendere meglio quello che si vuole dire.
E una volta completata questa ricerca, si chiede al giovane interessato di conservare gelosamente questo dono raggiunto, il proprio tesoro trovato: “Attento a non perderlo!” “Guai se perdi la tua vocazione… sarai perennemente infelice!”.
E’ facile trarre la conclusione che questa impostazione vocazionale è davvero poco centrata sullo stile e la figura di Gesù il Maestro, ed è una visione troppo cosificata del nostro rapporto con Dio, anche se alquanto in sintonia con tutto uno stile di riflettere sulla vita cristiana, sulla Grazia e sui Sacramenti: cose da fare o da possedere. E non è questo lo stile né del Vangelo né del Concilio.
La Grazia diviene una … cosa, i Sacramenti sono delle … cose che producono qualcos’altro, il peccato è qualcosa che entra nella vita e bisogna gettare via come un panno sporco da eliminare.
Eppure è quanto mai importante non dimenticare l’icona dello “scriba sapiente”, su cui già si sono posati gli occhi del cuore: occorre cautela; non si tratta di buttare al vento tutto questo patrimonio di riflessione vocazionale e di vita cristiana; ci mancherebbe altro.
In fondo, la chiamata alla vita e ad un modo significativo di viverla, resta pur sempre un evento d’amore, un dono, che tuttavia non ci deve vedere solo come protagonisti passivi, impegnati al massimo a trovare la nostra tana in cui rannicchiarci o la nostra gabbia dorata in cui rinchiuderci dentro.
Sarà anche dorata, ma resta pur sempre una gabbia, dove la libertà è fatalmente annientata o compromessa.
2) Per una riformulazione “cristocentrica” della dinamica vocazionale
Quello che possiamo fare, proprio alla luce delle bellissime chiamate di Gesù nel Vangelo, e del fascino irresistibile che il Signore, oggi come allora, è in grado di sprigionare da sé, è cercare di riscrivere questa dinamica vocazionale troppo cosificata, in una scrittura dialogica e relazionale che ben rispecchia l’incontro con il Signore e il Maestro della vita: ciò significa comprendere la vocazione in una prospettiva “storica, personalistica e quindi cristocentrica”.
La “Dei Verbum”, il documento del Concilio Vaticano II che ci prospetta la ricchezza e la bellezza della Parola di Dio, afferma:
“Dio invisibile, nel suo grande amore, parla. Egli parla agli uomini come amici, e si intrattiene con essi per invitarli ed ammetterli alla comunione con Sé”.
Ora per noi questo aspetto è chiaro: Dio parla soprattutto attraverso il volto, le parole, la vita di Gesù, e tutto ciò si fa’ rapporto; Egli non dà solo qualcosa, ma si mette in una vera e profonda relazione di comunicazione con noi. Dio si mette in contatto con noi attraverso la storia personale di ciascuno, fatta di persone, di parole, di eventi; ed è la strada normale che Dio segue nel comunicare. È una lettura, questa, che ha il suo fondamento irrinunciabile e fecondamene pedagogico e spirituale, nella Parola di Dio.
Come non riandare alla narrazione della creazione, così come la troviamo raccontata, ovviamente con il suo linguaggio antropomorfico, nei primi 3 capitoli della Genesi? Dio si intrattiene con Adamo, lo cerca ogni sera, sino al momento della sfida e del peccato, quando è Adamo a nascondersi, a sfuggire il momento dell’incontro.
La strada del dialogo, dell’incontro con il volto di Dio, è assolutamente presente in tutte le grandi vocazioni bibliche: Abramo, Mosé, Isaia, Geremia, Giona, Osea… i discepoli di Gesù, e soprattutto le chiamate vocazionali di Pietro e di Saulo o Paolo di Tarso.
Una chiamata vocazionale, quindi, si deve leggere all’interno di alcuni aspetti essenziali che interagiscono tra di loro: Dio, l’uomo e la sua storia.
– Dio, Parola viva che chiama in Gesù
Sì, perché l’iniziativa di amore è sempre sua. Qui c’è un elemento di contatto e di continuità con la tradizione precedente, circa il concetto di vocazione.
C’è una presa di iniziativa divina che precede e fonda ogni possibile risposta umana: questo è un dato irrinunciabile del Vangelo e costitutivo nella vocazione stessa. E ciò esclude anche ogni pretesa di auto-chiamarsi, di auto-invitarsi: “Io vorrei farmi prete… vorrei farmi suora… vorrei … vorrei..”.
Nessuno può imporre a se stesso o agli altri una vocazione: se è un dono, è un evento gratuito e non è un diritto di nessuno. Essa non è, quindi, un semplice progetto personale; Dio si presenta in maniera discreta alla porta della nostra vita: “Ecco, sto alla porta e busso…” (Apocalisse 3,20).
È una costante azione “creativa” di Dio; non è un fatto avvenuto una volta per sempre. Dio ci crea e ci ricrea continuamente, ci plasma e ci riplasma, così come in maniera splendida ci ricorda l’immagine del “vasaio” in Geremia 18.
Il suo creare non è un semplice atto di potenza, ma è una “Parola”; non è un fare qualcosa, ma è piuttosto un “dire qualcosa”. È un dialogo che non ha nulla di miracoloso, ma che si inserisce nella storia personale di ciascuno, soprattutto rispettandola.
Pensiamo a Saulo di Tarso: non era esattamente un “good boy”; stava perseguitando accanitamente la chiesa di Gesù. Noi lo avremmo subito ripudiato, messo al bando perché deviante e violento, e invece Dio lo chiama.
Come potremmo identificare i tratti di questo dialogo, di questa relazione, che troviamo ben presente in tutte le chiamate di Gesù nel Vangelo?
– è incondizionato: Egli ci chiama per puro amore e non in base alle nostre personali qualità.
– è irrevocabile: nel senso che noi possiamo anche tirarci indietro da questo rapporto, ma Dio non si ritira mai e si lega a noi con una fedeltà indissolubile. In questo senso la vocazione non si “perde” mai, perché l’alleanza amorosa stabilita da Dio rimane per sempre. Ciò vale anche per lo stile che Gesù dimostra verso i suoi discepoli anche nella loro incredulità, nella durezza di cuore, e persino nel tradimento
– è una missione, un compito, un invio: la vocazione ha le sue radici nella missione; non é per se stessi, ma per gli altri; è per qualcuno da amare, da abbracciare, da aiutare, da servire, da consolare e da benedire; è per il Regno di Dio (che è Amore), da annunciare.
Dice S. Giovanni, nella sua prima lettera: “Quello che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (…), tutto questo noi lo annunciamo a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo perché la nostra gioia sia perfetta ”. (1Gv 1,1-4)
– La libertà della persona umana
“La libertà è essenziale alla vocazione. Una libertà che nella risposta positiva si qualifica come adesione personale, profonda, come donazione d’amore, come ri-donazione al Donatore che è Dio che chiama” [3].
“Non vi possono essere vocazioni, se non libere”, diceva con forza papa Paolo V.
Una vocazione non può nascere dal fatalismo, dalla predestinazione, dal senso della prigionia, dalla paura di tradire, dal senso di colpa di venire meno a qualcuno.
Se l’offerta non è libera e spontanea, scevra da quegli elementi che la rendono “costretta dentro”, non può essere generosa e totale; sarà sempre condizionata, impaurita, sottoposta alla paura di un giudizio negativo di Dio su di noi.
Le chiamate di Gesù, nel Vangelo, non prescindono mai da una profonda adesione di libertà a Lui e dal fascino che il suo invito, ma soprattutto la sua vita, esercita su coloro che egli chiama alla sequela. Resta paradigmatica, sotto questo profilo, la bellissima chiamata di Levi Matteo, in cui lo sguardo di Gesù e la sua parola sanno incrociare perfettamente i desideri e le nostalgie profonde, nascoste nel cuore di Levi il pubblicano (cf Mt 9,9-13).
– Una persona “situata” nel contesto di una storia personale, relazionale, spirituale e sociale.
Una vocazione esiste solo quando c’è una libertà “storica”, quindi legata ad un essenziale contesto di vita che la accoglie.
Che cosa significa questo? Abbiamo detto che la vocazione non è un pacco-dono preconfezionato; essa si costruisce piano piano in me, anche attraverso il cammino della vita e i segni che in esso posso scoprire attraverso il dono del discernimento, che è frutto dello Spirito.
“È camminando che si apre il cammino!”, recita un antico proverbio caro ai pellegrini e alla gente di montagna. Nulla di più vero anche nell’ambito vocazionale; e nulla di più mirato e intenso anche nel cammino progressivo che Gesù fa compiere ai suoi discepoli.
Dall’averli chiamati a sé “perché stessero con Lui” (cf Mc 3,13-19), inizia un cammino graduale di attenzione a loro, di formazione e di crescita per farne degli evangelizzatori. Questo è molto evidente nella seconda parte del Vangelo di Luca.
Anche per i discepoli, camminando con Gesù lungo le strade della Galilea, della Samaria e della Giudea, si sono dischiusi orizzonti nuovi e inattesi, e il senso della loro chiamata si è fatto sempre più chiaro e preciso, nonostante resistenze, incredulità e fatiche interiori a comprendere e ad accettare tutto ciò.
Mentre cammino nella mia vita, ascolto la Parola di Dio e mi appassiono ad essa.
Mentre cammino nella mia vita, vivo un servizio o un gesto d’amore.
Mentre cammino nella mia vita, entro in sintonia le sofferenze e i desideri del cuore di qualcuno.
Mentre cammino nella mia vita, vivo una esperienza forte che mi dona luce nuova e intuizione interiore.
Mentre cammino nella mia vita, trovo dei nuovi codici per leggere gli accadimenti che succedono, nasce e cresce in me una disponibilità sempre più intensa e arrivo al punto di decidermi per…
La vocazione è una chiamata che prende forma dentro alla propria storia, nella scoperta dei limiti e delle potenzialità, nella lettura dei sentimenti, dei desideri e delle paure che tutti ci portiamo dentro, nei sogni e nelle delusioni, nelle aspettative e nelle nostalgie, nei distacchi che ci sono richiesti e negli incontri che ci viene donato di vivere.
È camminando che si apre il cammino della beatitudine nella propria vocazione.
Ecco un elemento da recuperare nella teologia e pedagogia vocazionale: la decisione non è susseguente alla vocazione, ma è un elemento costitutivo della vocazione stessa. Finché non si è deciso, non possiamo sentirci chiamati.
Crediamo, allora, che le piccole scelte a cui ci provocano le circostanze della nostra vita, concorrono a plasmare la nostra vocazione, a farla emergere sempre più dalla indeterminatezza e dall’appannamento, come una scultura che prende forma dalla roccia. Sono scelte semplici e ordinarie, che tuttavia danno una identità precisa alla nostra storia, che andrà poi qualificandosi come storia consacrata, presbiterale, missionaria o monastica, oppure laicale e matrimoniale.
Dio (in Gesù), io e la mia storia: tre elementi che interagiscono insieme e ci aiutano a non entrare in corto circuito, in quella ricerca angosciante di una vocazione che, per ciascuno di noi, sia solamente qualcosa di nascosto o depositato da qualche parte della vita, e che richieda fatica e affanno per essere finalmente rintracciata.
Tre aspetti di una stessa dinamica della “chiamata”, che ci chiedono di agire con libertà e semplicità, ma soprattutto con affetto e gioia grande, per gustare e amare la propria vita e, guidati e consigliati da chi sa guardare ad essa e leggerla con i grandi occhi della Vergine Maria, così tipici nelle icone russe, trovare la scia luminosa e appagante, anche dentro il buio e la nebbia che talvolta possono avvolgere l’esistenza [4].
B. QUALI OPPORTUNITÀ PER UNA PASTORALE VOCAZIONALE “CRISTOCENTRICA”?
Il ricentrare la pastorale vocazionale attorno alla figura e al volto di Gesù, come già si è notato, non è certamente una operazione di particolare novità; ma potrebbe diventarlo, nella misura in cui si mettono in luce alcuni aspetti particolari del fascino del volto di Cristo, a cui i giovani oggi possono rivelarsi veramente più attenti e sensibili. Vorrei provare a suggerire, fra le tante possibili, tre piste di approfondimento e di accompagnamento vocazionale, in sintonia con la realtà del nostro mondo giovanile.
☞ La via “Estetica” nell’incontro con Gesù
Sappiamo bene come i nostri fratelli della Chiesa Orientale hanno sempre tenuto in grande considerazione la “dimensione del bello” presente nel cammino umano e spirituale di ciascuno. Potrebbero farne fede gli scritti sempre molto affascinanti del teologo orientale Pavel Evdokimov [5]. In lui prende risalto tutto lo straordinario mondo della icone, per darci una chiave di lettura quanto mai significativa della “via della bellezza” come via per incontrare il volto di Dio. C’è una sua espressione che trovo particolarmente significativa ed emblematica:
“Dio rifulse nei nostri cuori per far risplendere la conoscenza della sua gloria che è sul volto di Cristo” (2Cor 4,6). La luce risplende nei volti dei tuoi santi -canta la Chiesa-. L’icona è una simile dossologia, un torrente di gloria, e la canta con i suoi propri mezzi. La vera bellezza non ha bisogno di prove: è una evidenza eretta come argomento iconografico della verità divina. È questa qualità a dare il contenuto intelligibile alle icone, che è dogmatico, e perciò l’icona non è bella come opera d’arte, ma è bella come la verità. Una icona non può mai essere graziosa; essa è bella, e per questo esige una maturità spirituale per essere riconosciuta. (…) L’immobilità esterna delle figure è molto paradossale, perché essa crea una forte impressione che qualche cosa si muove all’interno” [6].
Anche la teologia occidentale, seppur in misura più ridotta e castigata, ha avvertito l’importanza di questo sentiero da percorrere e sicuramente il grande testimone di questa modalità di approccio resta il teologo Hans Urs Von Balthasar (1905-1988) [7].
La mia suggestione non intende percorrere gli straordinari abissi di queste vie teologiche, che pure sono al fondo di una rinnovata riflessione “estetica”, anche in chiave vocazionale. Sto semplicemente pensando a quanto sia stata profetica l’affermazione di Fedor Dostoevskij, nel suo romanzo “L’idiota”, quando affermò: “La Bellezza salverà il mondo”. E quando si entra nel vasto territorio della bellezza, i confini sono sterminati e ci si può lasciare andare lungo queste immense praterie, che si perdono a vista d’occhio.
Non è un riferimento angusto ai canoni estetici della bellezza che la moda dilagante, soprattutto quella estiva, oggi ci propone con le sue sfilate di vip più o meno tali; con i suoi areopaghi in cui parlare di questo (reality show e talkshow televisivi, in cui ritagliarsi a tutti i costi un pezzetto di visibilità ostentata); con il circo mass-mediatico in cui imperversano gli istrioni dei canoni estetici e le proposte, spesso al di là di ogni limite della decenza, di lifting, beautyfarm, creme, pozioni e soluzioni magiche per ogni tipo di problema fisico.
È davvero il ritorno al Circo fatto di clown, donne cannone, nani e ballerine: non certo al Circo amato dai bambini o dai grandi poeti del circo stesso: Fellini, Benigni, Jacques Tati…
Come si può arrivare al volto di Gesù, riscoprendo la molteplici vie della bellezza umana?
– Personalmente credo ci sia solo l’imbarazzo della scelta, anche se è importante poi individuare i generi letterari appropriati per ogni assemblea a cui ci rivolgiamo: la via delle icone a cui ho fatto cenno è certamente un approccio suggestivo, anche se richiede una certa raffinatezza spirituale.
– Un’altra via possibile da percorrere, e alla portata di molti, oggi, è quella dell’arte: e non semplicemente perché in essa troviamo un’enorme presenza di soggetti religiosi, ma perché la conoscenza dell’arte, antica o rinascimentale, moderna o contemporanea, fornisce dei criteri di lettura straordinari per capire il cuore dell’uomo. In ogni opera d’arte l’artista cela qualcosa di sublime, che rivela qualche tratto del volto di Dio.
È davvero straordinario girare per i tanti musei e le mostre di arte che sempre con più abbondanza vengono proposte e trovare famiglie con bimbi anche piccoli, in grado di guardare con passione l’opera dell’artista. E lo stesso si può dire per il mondo dei giovani, che sempre più trovano nell’arte la possibilità di scoprire non solo le risorse straordinariamente vive e creative dell’ingegno umano, ma soprattutto alcune vie per giungere diritti ai sentimenti e al cuore.
Mai potrò dimenticare una recente visita alla Pinacoteca di Brera a Milano: mentre compievo il mio piccolo tour personale, ecco l’incontro con un gruppo di bambini delle prime classi della scuola elementare, accompagnati dalle loro straordinarie maestre. Esse, partendo dal piccolo “escamotage” di far individuare ai bambini gli animaletti dipinti in quadri molto famosi, davano delle chiavi di lettura “giocosa” per far loro gustare, pur così piccoli, la bellezza dell’opera d’arte nel suo insieme e per tracciare l’identikit dell’artista.
Oppure, potremmo anche ricordare gli itinerari sempre più frequenti di “arte e spiritualità”, che vengono proposti in città famose come Venezia, Firenze o Roma, tanto per citarne solo qualcuna e che fanno gustare un itinerario interiore che vale tanto quanto una intensa e profonda meditazione… Provare per credere!
– Vicino all’arte accosterei, poi, la via della musica: in essa, nelle sue molteplici espressioni, i giovani trovano dei riferimenti mirati e chiari per leggere i loro stati d’animo, gli affetti e i sentimenti, i loro desideri, il loro modo di guardare alla vita e di coglierla nella sua complessità, con tutte le possibili contraddizioni, ma anche con le sue positive suggestioni.
– E si potrebbe aggiungere, vicino alla musica, la via della danza e di ogni espressione della corporeità che diviene una notevole opportunità di espressione del linguaggio del corpo e dei sentimenti. Ahimé, queste sono delle vie sulle quali spesso, noi consacrati, siamo davvero poco allenati o muniti di strumenti piuttosto inadeguati, se non… antiquati.
-E poi potrei aggiungere la via della letteratura, della poesia e del romanzo; molti autori contemporanei aiutano, attraverso i loro scritti e le loro intuizioni, a dare voce a quelle che saranno le tendenze di un futuro prossimo e a cogliere spaccati importanti per decodificare la realtà culturale in cui ci si muove.
– C’è poi tutto il mondo della filmografia e della lettura dell’immagine: oggi si comunica moltissimo attraverso questo mezzo, e una adeguata scelta di quanto viene proposto ci aiuta a tastare il polso della situazione su tematiche emergenti, di fronte alle quali spesso noi facciamo la figura di… “Alice nel paese delle meraviglie”.
-E ancora come non riproporre, attraverso un contatto diretto e forte, la bellezza della natura e del creato; ci saremo accorti un po’ tutti che i nostri statici campi scuola non trovano molte adesioni, ma se si propone un “cammino”, un “pellegrinaggio” che sappia anche gustare la bellezza dei luoghi attraverso i quali si passa, questa opportunità trova molta più accoglienza e adesione. Anche se dobbiamo sottolineare il rischio di una inflazione di proposte, spesso non sempre curate e significative sotto questo profilo.
-E non vorrei dimenticare la bellezza del “miracolo stesso della vita”: è un aspetto che diamo per scontato, ma oggi, in questa cultura di cinismo e di morte che come una nebbia radente avvolge tutto, è importante tornare ad evidenziare la bellezza del dono della vita e di come spenderla con scelte significative: qui diviene piuttosto spontaneo e immediato l’aggancio vocazionale con la figura di Gesù, con le sue varie “chiamate” raccontate nel Vangelo; e ancora con le testimonianze a volte eroiche, ma più spesso semplici e ordinarie di “testimoni”, che hanno amato la vita e l’hanno gustata e trasmessa con sapienza e con gioia.
Questa è la via della bellezza, che può diventare un cantiere vocazionale sempre aperto e nuovo; come diceva Pavel Evdokimov, essa non ha bisogno di prove e ragionamenti, ha solo bisogno di essere proposta con “verità”: nulla è più coinvolgente e affascinante della verità. E la bellezza di Gesù si riassume proprio in una espressione quanto mai legata a questo processo di ricerca: “Io sono la Via, la Verità e la Vita”.
☞ La via “affettiva” nell’incontro con Gesù
Il tema degli affetti e dei sentimenti, dell’amicizia e dell’Amore è sempre una fonte notevole di catalizzazione dell’interesse dei giovani, e lo diviene ancor più quando esso è applicato ad un cammino di ricerca vocazionale.
Per questo, credo che un recupero della centralità della figura e della bellezza del volto di Gesù, proposta e vissuta in chiave “affettiva”, possa essere una straordinaria chiave di lettura per vivere un cammino di discernimento vocazionale [8].
In Gv 19,5 abbiamo un quadro di grande intensità, quando sulla grande scalinata del Pretorio compare una figura sanguinante e lacera: “ECCO L’UOMO”, dice Pilato alla folla, e non sa di affermare una verità così profonda e così grande, che pur nella sua drammaticità, riesce ad esprimere e a declinare in pienezza proprio l’umanità di Gesù: quello che sta di fronte alla folla (e a noi), non è il Figlio di Dio solamente; egli è anche il Figlio dell’Uomo.
Quello che ci sta di fronte, fisicamente ridotto ad una nullità, è il punto topico della grande intuizione dei mistici, dei poeti, degli artisti: la Sofferenza si fa Amore e l’Amore si fa Sofferenza; come nel parto, come nel gesto supremo di donare la vita per qualcuno, come nel martirio.
– Anche Gesù è stato amato
Alcuni strani studi psicoanalitici di aria junghiana e freudiana, vedono in Gesù un figlio che ebbe un buon rapporto con il padre e che invece fu oppresso dall’amore materno (sic!).
Sappiamo poco del padre di Gesù, Giuseppe (l’uomo del silenzio, nel Vangelo di Matteo); un carpentiere, della discendenza di Davide; conosciamo sicuramente qualcosa di più circa Maria, attraverso il Vangelo di Luca.
Ci sono molte leggende, tornate di grande attualità ai nostri giorni, attraverso il marketing ben orchestrato attorno a qualche Vangelo apocrifo: sono racconti che hanno proliferato parecchio nel Medioevo e in alcune “Storie di Gesù”, apparse anche in epoca recente.
Questo per dire che l’argomento di come Gesù vive la “bellezza dei suoi affetti”, non è solo una scoperta dei nostri giorni, ma una ricerca spesso in atto nella storia.
Il Protestantesimo ha sottolineato maggiormente il legame paterno e ha creato “la religione del Padre”.
Il Cattolicesimo coltiva di più la nostalgia infantile della madre, che rassicura e protegge (vedi la devozione alla Vergine Maria). Il rischio, in fondo, è pur sempre di non diventare adulti.
Gesù, così come appare nel Vangelo, pur non rinnegando questi legami, li supera, perché egli vuole uomini e donne autoresponsabili, capaci di giocarsi e di decidersi.
– Dice Jean Vanier che il volto e i lineamenti di Gesù dovevano essere simili al volto e ai lineamenti di Maria, perché essa era l’unico suo principio vitale. Colui che vede il Figlio, conosce e vede la Madre.
– “Figlio, tuo padre ed io, angosciati, ti cercavamo”: ecco la delicatezza di Maria che pone davanti la figura di Giuseppe. Una presenza, quella di Giuseppe, che appare tutt’altro che sbiadita o superflua: un uomo capace di leggere i segni, di “discernere” e di prendere decisioni anche gravi, ma irrinunciabili.
– È una famiglia che ha le sue difficoltà, che vive l’emigrazione in una terra straniera, eppure nulla traspare di un rapporto che non sia stato affettivamente sereno, intriso di quella capacità di “accorgersi dell’altro”, che permea tutte le relazioni e l’affettività di Gesù anche nei suoi tre anni di missione per il Regno.
– Come si potrebbe dire di Gesù nel Vangelo: “Ne provò compassione perché vide che erano come pecore senza pastore”. Oppure egli stesso affermare: “Venite a me voi tutti che siete affaticati ed oppressi, ed io vi darò ristoro”. Credo fermamente che Gesù abbia trovato nella sua famiglia quel clima affettivo che gli ha permesso di “imparare” queste modalità di relazione e di affetto. Sono espressioni, queste, che non si improvvisano nella vita.
– I tratti della figura di Gesù esprimono una umanità fatta di tenerezza e di decisione, di accoglienza e anche di distanza, là dove ce ne fosse stato bisogno: è una affettività che, nelle proprie relazioni, sa integrare il maschile e il femminile. Egli esprime una capacità di relazioni che sa vivere con pienezza e senza tabù il rapporto con la corporeità e la sessualità.
In questo caso è il Vangelo di Marco quello che meglio esprime una corporeità sensibile al benessere, alla gioia e al dolore. Sotto questo profilo, Matteo e Luca sono un po’ più freddi e distaccati.
Per Marco, Gesù è un corpo e un cuore che sente, che si sente bene, che prova dolore o gioia, che si sente abbandonato, che sperimenta il desiderio [9].
Non serve la parola per dover chiarificare tutto (come la nostra cultura insegna); bastano dei gesti, una tangibile, palpabile vicinanza fisica: la saliva sugli occhi del cieco, le dita sugli orecchi e la bocca del sordomuto.
In Marco, Gesù è più essere umano, più “affetto”, più “corpo” che in altri vangeli: soffre con gli altri, ne cerca la vicinanza, si lamenta, mostra grande sensibilità, si dona con tutta la persona.
Non è l’eroe solitario, senza macchia e senza paura: un “Braveheart” dello spirito. Egli vive intensamente anche la consolatoria vicinanza delle donne. E lotta contro i conflitti del suo ambiente sociale e culturale:
– non teme di toccare il lebbroso per guarirlo;
– non teme di prendere per mano la giovane figlia di Giairo, morta, per risuscitarla (in Lazzaro e nel giovanetto di Nain non c’è contatto);
– infine, c’è il contatto con il massimo dell’impurità: il sangue della donna mestruata (Mc 5,24), che aveva emorragie croniche da dodici anni: ella sente, nel suo corpo, di essere stata guarita e Gesù sente nel suo corpo una forza che esce da lui e che lo rende “ritualmente” impuro;
– la stessa libertà è presente nella relazione davvero speciale con Maria di Magdala e nel rapporto profondamente affettivo che li lega: e ciò non comporta nulla né di erotico né di amoroso, come una letteratura anche recentissima e assolutamente fuorviante – leggi Dan Brown e il suo “Codice Da Vinci” – ha voluto banalmente rappresentare. Egli dà nuova vita a queste donne, che sperimentano anche una “liberazione fisica e psicologica”, e temerariamente, il mattino di Pasqua, anche loro vogliono ungere il corpo di un morto, quasi a continuare la vicinanza corporale che da Lui hanno appreso.
– Gesù: una affettività autentica e profonda
In Gesù le relazioni umane sono cariche di intimità, ma esse sono sempre libere e trasparenti, come acqua di sorgente quando zampilla alla sua origine e non è inquinata:
– l’unzione di Betania: un gesto di amore, ma anche di provocazione, in cui una donna sfida il falso perbenismo di un uomo-discepolo, Giuda, e acquista una sua indipendenza di relazione e di identità (Elisabeth Moltmann-Wendel);
– la Maddalena, a suo modo veramente “affascinata” dalla figura di Gesù, il cui rapporto con il Maestro sembra celare per molti autori estasi, felicità ed erotismo; corre il rischio di divenire la bella “Elena” del Cristianesimo, che si guarda allo specchio come seminuda bellezza, in alcuni quadri del XVI e XVII secolo. Essa viene oggi più che mai liberata dal ghetto di una sensualità intesa in senso stretto e diviene una compagna fidata e rassicurante, che lo piange, che lo cerca, che lo annuncia, che lo precede… Nel bellissimo musical degli anni ’70, “Jesus Christ Superstar”, lei e le altre donne stanno vicine a Gesù nel momento supremo, come terapiste della tenerezza: “Tutto va bene, sì, tutto è a posto”, ripetono in un ritornello che non è menzognero e che sa coniugare il momento topico dell’Ecce Homo: la sofferenza e l’amore;
– ecco perché Gesù può liberare i nostri cuori da tante paure affettive, sessuali, corporee: con il silenzio di questi rapporti, con la loro delicatezza e tenerezza. La durezza di cuore è spesso causata da una divisione interiore nella nostra affettività e nelle relazioni umane: per questo diventiamo duri, critici, diffidenti e frustrati. Per placare le nostre paure bisognerebbe insegnare all’uomo a far nascere Maria dalla donna, e non la seduttrice; e insegnare alla donna a far nascere, in ogni uomo, Gesù. Solo lo Spirito può penetrare questi ambiti profondi del nostro cuore.
E qui si pone una domanda di fondo, che giustifica questa applicazione vocazionale del tema dell’affettività in Gesù: “Di che cosa ho paura? Come posso placare le mie resistenze e paure?”.
Solo la presenza di Gesù, un rapporto profondo con lui, l’abbandono del nostro cuore a Lui possono dilatare e placare gli affetti impauriti di un cuore che vuole veramente donarsi per Amore.
Come dice Aristotele, noi non siamo una mandria di mucche che pascolano tutte nello stesso prato. Ognuno ha la sua via, il suo cammino particolare, cioè la sua “Vocazione”, che si mette a fuoco in un contatto personale, vivo e amante con il Signore e Maestro.
Ma questo è un contatto anche esigente: non sugli aspetti esteriori, ma per quanto riguarda il cuore nei suoi affetti e sentimenti: non è facile, perché se non ho scoperto ancora il modo tutto particolare con cui Egli mi ama, non posso capire come ama mio fratello e mia sorella.
E per capire quanto Egli mi ami, devo scoprire quanto io sia povero, debole e pieno di blocchi e paure che mi paralizzano; quanto abbia soffocato lo Spirito in me e negli altri; come io abbia preferito la sicurezza umana alla insicurezza divina, e come non abbia messo in maniera rassicurante le mie mani nelle mani di Gesù [10]. “Venite a me ed io vi consolerò…”.
Ci fa buona memoria S. Paolo nel testo di 1 Cor 1,26-31:
“Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili. Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio. Ed è per lui che voi siete in Cristo Gesù, il quale per opera di Dio è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione, perché, come sta scritto: Chi si vanta, si vanti nel Signore”.
☞ La via “orante e contemplativa” nell’incontro con Gesù
È questo il terzo sentiero che vorrei proporre per un cammino vocazionale che si lasci permeare, con frutto, dal fascino del volto di Gesù: la via della preghiera e della contemplazione è essenziale per maturare un discernimento vocazionale vissuto in intimità con il Signore e Maestro interiore.
Nulla è più semplice e insieme più insondabile, come quando guardiamo a Gesù, soprattutto nel momento in cui egli prega.
Nulla di più semplice e di più grande: piccole frasi conosciute da tutti. È una preghiera accompagnata da gesti semplici, alla portata di chiunque: sale la montagna; geme, mentre guarisce un sordo (Mc 7,34); prende pane e pesci, alza le mani e gli occhi al cielo, dice la benedizione (Mc 6; Lc 9; Mt 14); spezza del pane e fa passare, a tavola, una coppa di vino.
Nulla di più insondabile, perchè queste parole, questi gesti lasciano intuire un amore, una trasparenza, una pienezza di dono che spesso, a noi cuori distratti e superficiali, sfuggono [11].
L’unico modo per entrare nella preghiera di Gesù, per farla divenire momento di crescita vocazionale, è di pregare noi stessi intensamente, lasciando che Lui ci plasmi nella preghiera, come il vasaio di Geremia 18, come la farfalla che si lascia bruciare dal lume e, solo allora, riesce a capire cos’è la fiamma.
Per cogliere le dimensioni semplici e insondabili di Gesù, come “il povero di Jahwé”, come “anawìm” che prega, occorre lasciar scorrere, sull’orologio del tempo, le grandi ore della sua vita [12].
Nei momenti in cui egli si rivolge al Padre, il realismo della sua umanità emerge attraverso due dimensioni totalmente esistenziali: la preghiera e l’angoscia.
☞ L’angoscia e la tristezza
È uno degli aspetti più misteriosi eppure affascinanti in Gesù: “C’è un battesimo che devo ricevere; come sono angosciato finché non sia compiuto”. (Lc 12,50)È un filone tipico del Vangelo di Giovanni, in cui ci risulta più misterioso vederlo come sofferente e schiavo, piuttosto che come “trasfigurato”. Noi siamo portati a credere che la trasfigurazione sarebbe il suo “stato normale”.
Non è normale, per noi che lo vediamo spesso e solo come Figlio di Dio, vederlo piangere su Gerusalemme (Lc 19,41), vederlo fremere di dolore con Marta e Maria, commuoversi profondamente e turbarsi per Lazzaro (Gv 11,33-38); sentirlo affermare che la sua anima è turbata sino alla morte (Gv 12,27); udirlo annunciare il tradimento di uno dei Dodici (Lc 22,21); vederlo provare tristezza e angoscia (Mt 26,37); udire il suo grande grido nel momento di morire (Mc 15,37): tutto questo è mistero per il nostro cuore. La cosa straordinaria non è che Gesù sia Dio, ma che egli sia uomo, in tutto simile all’uomo: come già abbiamo sopra ricordato, questa è la grande verità affermata da Pilato: “Ecco l’uomo” (Gv 19,5).
☞ La preghiera
Il realismo della sua umanità emerge anche nella preghiera ed è sorprendente tanto quanto la sua angoscia. Dirà Gandhi: “La preghiera è l’ammissione quotidiana della nostra debolezza”.
E la debolezza di Gesù è bene interpretata da Paolo, nella lettera ai Filippesi (2,6): una debolezza reale e sofferta, anche se scelta e quindi voluta.
– Luca ci riporta l’angoscia e la preghiera intimamente unite in Gesù, sul Monte degli Ulivi, in un momento in cui per tre volte Gesù prega ed è in preda all’angoscia; egli implora il Padre di liberarlo da questa sofferenza: “Tuttavia, non la mia ma la tua volontà sia fatta” (Lc 22,39-45). E’ il sottofondo di tutta la preghiera di Gesù: “fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera” (Gv 4,34).
– Questa è la ragione della sua vita, il nutrimento di cui parla agli apostoli dopo l’incontro con la Samaritana al pozzo di Giacobbe, in Sichem. La sua prima parola, al Tempio, a 12 anni, va su questa linea: “Non sapevate che io debbo occuparmi delle cose del Padre mio” (Lc 2,49); ed è pronunciata nella casa del Padre che è casa di preghiera e che altri riducono a spelonca di ladri: “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10,30). Prima delle grandi preghiere pubbliche, Gesù è stato un piccolo ebreo fedele nella sua preghiera. E la preghiera di Gesù è stata nel far propria, nell’introiettare sino alle fibre più profonde del suo essere, la Parola di Dio della Scrittura, che poi egli aveva costantemente sulle labbra.
– A trent’anni, il suo primo gesto pubblico è immerso nella preghiera: il Battesimo al fiume Giordano (Lc 3,21); il dono dello Spirito, la predilezione del Padre avvengono in questo contesto. È il momento in cui, nel cielo, si apre quasi una breccia e questa sarà poi chiusa dalla Croce eretta sul Calvario. È la breccia da cui si affaccia la SS. Trinità. È il momento in cui entriamo nell’orizzonte più segreto di Dio e in cui viene proclamato ciò che è assolutamente vero anche per ciascuno di noi: “Tu sei il mio figlio prediletto” (Lc 3,21-22).
– In seguito, ogni volta che Gesù dovrà compiere un atto importante, lo troveremo raccolto in preghiera. E allora, anche qui, per noi come per ogni cammino vocazionale, la domanda sorge immediata e spontanea: “E noi? Prima delle nostre scelte, soprattutto di fronte alle grandi scelte della vita, quando e come preghiamo?”.
– Gesù lo fa per la scelta dei 12, prima delle Beatitudini (Lc 6,13). Anche il Padre nostro ha la stessa origine e Luca è attento a mostrarci Gesù come maestro di preghiera. Gesù si trovava in un luogo, solo, a pregare e uno dei discepoli, (non sappiamo chi…, così possiamo immaginare di essere ciascuno di noi), gli chiese: Signore, insegnaci a pregare (Lc 11,1).
– Ma la preghiera diviene anche una straordinaria fonte per affinare l’intuizione; Gesù sa quello che c’è nel cuore di ogni uomo (Gv 2,25). Gesù vede la rivalità che c’è nel cuore dei suoi discepoli, ne comprende la riluttanza a credere e l’impermeabilità del cuore (Lc 24,25). Queste notti di solitudine, nel deserto o nella montagna, non erano solo notti di estasi, ma anche di angoscia, perchè egli intuiva sempre più come la salvezza sarebbe passata attraverso la Croce. Gesù vede Pietro che Satana vaglia come il frumento (Lc 22,31-32); Pietro, novello Giobbe, ma con ulcere diverse da Giobbe; le sue sono ulcerazioni di paura, come le nostre… “Ho pregato per te, Pietro, perché non venga meno la tua fede” (Lc 22,31-32). Gesù prega per Giacomo e Giovanni, “i figli del tuono”, perchè conosce la loro impulsività. È davvero curioso quest’aspetto: Giacomo il saggio; Giovanni il dolce, il poeta dell’amore e della consolazione. Nella loro giovinezza sono come i cardi: quando sono giovani pungono da tutte le parti, poi divengono bianchi e dolci.
– Gesù conosce i suoi: li vede litigare per determinare chi è il più grande fra di loro (Mc 9,33); conosce Tommaso, il suo realismo pignolo e dubbioso, con tutte le resistenze nel riconoscerlo (Gv 20,24-25); conosce il cuore di Filippo che non comprende come, vedendo Gesù, ha già intravisto il volto del Padre (Gv 14,8-9). E conosce Giuda, che ci rappresenta tutti, anche se a gradi e momenti diversi di vita.
– Gesù non ha mai minimizzato neppure la preghiera di domanda; per lui è necessario “chiedere, sempre” Ogni preghiera, di domanda o di adorazione, fa aprire l’uomo a Dio per accoglierlo nella sua vita, dargli uno spiraglio, una porta socchiusa per entrare in casa e stare con noi e cenare con noi. E Gesù chiede guarigioni meravigliose tanto quanto cose semplici.
– “Padre santo, Padre buono, Padre giusto…”. Lo splendore accecante di Jahwé, che Mosé non poteva vedere, il Dio della creazione, di cui “i cieli cantano la gloria” (Sal 19,2); il Dio a cui rendere grazie “perché è buono ed eterna è la sua misericordia (Sal 106,1), per Gesù diventa il Papà, l’Abbà. Il desiderio più profondo di Gesù è che noi conosciamo questo Dio che é Padre-Madre. Lui ce lo fa conoscere così: “Ti prego per loro, perchè sono tuoi…”. È un consegnare i suoi discepoli, prima di lasciarli, in mani sicure, ma anche alla meta finale del suo itinerario: portarli verso la conoscenza del Dio Padre e Madre. Se egli li lascia, è necessario che il Padre li custodisca [13].
A questo punto nessuno di noi, tanto meno chi vive nella ricerca e nel dono vero e totale della propria scelta di vita, è più abbandonato a se stesso, alla propria fragilità, alla propria pochezza, alla propria vulnerabilità ferita.
Qualcuno, lassù, vuole che siamo con Lui e con il Padre, per sempre. Grazie, Signore Gesù. Amen.
Note
[1] ROCCHETTA C., Ripartire da Cristo: relazione tenuta al Seminario di studio del CNV, il 24-26 maggio 2006 a Cascia; sotto questo profilo è importante ricordare anche un altro interessante contributo: C. Rocchetta, Teologia della vocazione. Prospettive alla luce di alcuni documenti ufficiali, in “Vocazioni”, 5 (2004), pp. 101-124.
[2] Presbyterorum Ordinis,11.
[3] Pastores dabo vobis, 36
[4] Alcuni elementi significativi per rivisitare il concetto di “vocazione” sono pure ben presenti in: CENCINI A., Vangelo giovane: briciole di catechesi sulla vocazione, Rogate, Roma 2003 e MARTINI C.M., Il vangelo per la tua libertà, Ancora, Milano 2004
[5] EVDOKIMOV PAVEL (1901-1970), russo, teologo laico e autore di molte pubblicazioni, soprattutto in francese, che hanno fatto conoscere e apprezzare meglio la teologia e la spiritualità ortodossa in Occidente. In italiano troviamo pubblicate L’ortodossia; La conoscenza di Dio secondo la tradizione orientale; La novità dello Spirito; e in particolare La teologia della bellezza.
[6]EVDOKIMOV P., L’Ortlodoxie, Neuchatel 1965, pp. 216 e 229.
[7] HANS URS VON BALTHASAR, Gloria: una estetica teologica, traduz. di Michele Fiorillo, U. e C. Derungs., Jaca Book, Milano 1980 – (Titolo originale dell’opera: “Herrlichkeit”).
[8] Vorrei qui suggerire due testi importanti e complementari tra di loro, come aiuto per una proposta affettiva a 360°: LEWIS C.S., I quattro amori. Affetto, Amicizia, Eros, Carità, Jaca Book, Milano 1990, 2ª edizione e LOWEN A., Il narcisismo. L’ identità rinnegata, Feltrinelli, Milano 2003, 8ª edizione “Universale Economica” – Saggi
[9] Uno studio biblico che affronta bene il tema della “umanità di Gesù”, viene proposto da MAGGIONI B., Era veramente uomo: rivisitando la figura di Gesù nei vangeli, Ancora, Milano 2001
[10] Cf FAUSTI S., L’idiozia: debolezza di Dio e salvezza dell’uomo, Ancora, Milano 1999.
[11] Cf BOSCIONE F., I gesti di Gesù: la comunicazione non verbale nei vangeli, Ancora, Milano 2002
[12] Cf BOBIN C., L’uomo che cammina, Qiqajon, Comunità di Bose 1998
[13] Cf RAVASI G., Come io vi ho amati, Dehoniane, Bologna 2004