Gli Istituti di vita consacrata e i CDV: quale provocazione per una pastorale unitaria?
TAVOLA ROTONDA
ANNA MARIA BERTA
delegata della Presidente della CIIS
Iniziare il Forum con una Tavola rotonda ci mette nel cuore del tema scelto per questo Forum. Subito si affronta la tematica da angolature diverse per una visione completa. Le relazioni che seguiranno, in un certo senso, per noi saranno illuminate dalla testimonianza di chi opera nell’animazione vocazionale.
Il tema proposto nel Forum è attuale e lancia una vera sfida: “Come accogliere e annunciare insieme la vocazione alla vita consacrata nella Chiesa locale?”.
Nel titolo stesso abbiamo tre parole che ci possono fare da guida:
– accogliere
– annunciare
– insieme
Accogliere: è esigenza di ogni vocazione accogliere la chiamata. Ogni chiamato è scelto da Dio e sceglie a sua volta Dio come pienezza delle sue aspirazioni. Frutto dell’accoglienza è la gioia.
Annunciare: chiamati all’annuncio e al coraggio della proposta vocazionale.
Insieme: nella logica della comunione si annuncia e si fanno proposte nel respiro ecclesiale. Si uniscono le forze, per metterle al servizio del Regno.
È bene sottolineare l’importanza dell’INSIEME come Chiesa. Il documento Ripartire da Cristo, al n. 16, parla chiaramente di questo impegno nel servizio alle vocazioni:
“Il servizio alle vocazioni è una delle ulteriori nuove e più impegnative sfide che la vita consacrata si trova oggi ad affrontare… L’intera Chiesa locale, vescovi, presbiteri, laici, persone consacrate, è chiamata ad assumere la responsabilità di fronte alle vocazioni di particolare consacrazione”.
Viene sottolineata la dimensione della comunione e dell’impegno di tutti per tutte le vocazioni: tutta la Chiesa, in una collaborazione armonica, per l’unico fine. Per vivere questo è necessario aprirci ed educarci ad un’autentica comunione, nella conoscenza approfondita delle varie forme di vita consacrata. Solo così potremo fare proposte significative ed orientare chi è chiamato, rispettando il cammino che Dio ha tracciato per ciascuno. In questo modo renderemo un vero ed autentico servizio alle vocazioni.
Giovanni Paolo II, nella Lettera Apostolica Novo Millennio Ineunte, al numero 43 e 46, così scrive: “Fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia… promuovere una spiritualità della comunione, facendola emergere come principio educativo in tutti i luoghi dove si plasma l’uomo e il cristiano, dove si educano i ministri dell’altare, i consacrati, gli operatori pastorali, dove si costruiscono le famiglie e le comunità… È necessario ed urgente impostare una vasta e capillare pastorale delle vocazioni, che raggiunga le parrocchie, i centri educativi, le famiglie, suscitando una più attenta riflessione sui valori essenziali della vita, che trovano la loro sintesi risolutiva nella risposta che ciascuno è invitato a dare alla chiamata di Dio, specialmente quando questa sollecita la donazione totale di sé e delle proprie energie alla causa del Regno”.
Siamo allora chiamati, in questa sede, a riflettere su come possiamo portare avanti insieme la pastorale vocazionale, nel respiro ecclesiale, per accogliere con gioia e annunciare con coraggio, insieme nella Chiesa con la Chiesa e per la Chiesa!
MONS. FRANCESCANTONIO NOLÈ
Vescovo di Tursi-Lagonegro e
Segretario della Commissione Episcopale Clero e Vita Consacrata
Sono oggi con voi nella doppia veste di osservatore, sia come religioso conventuale che come Vescovo per cui devo dire che, come Vescovo, ho bisogno di informarmi di più, capire di più, formarmi di più sulla vita consacrata.
Ricordo quando andai a Roma dal Cardinal Re a dirgli: “ma perché non lasciate in pace noi religiosi, dal momento che, chiamandoci all’episcopato, ci portate fuori dalle comunità religiose?” e lui rispose: “la Chiesa ha bisogno di una presenza religiosa, nelle conferenze episcopali, che dica la necessità di questa comunione”.
Devo dire che, nel mondo dei religiosi e dei consacrati, c’è la parte femminile che vuole tornare al carisma fondazionale e soprattutto allo spirito del fondatore. Però oggi il rischio è quello di fare tutti la stessa cosa. È difficile individuare una spiritualità attraverso il servizio pastorale che si fa: più o meno, tutti hanno gli stessi compiti nella Chiesa. Allora, qual è il problema? È farlo con spirito diverso. Molti fondatori e fondatrici, infatti, hanno introdotto nella Chiesa un nuovo carisma, con delle peculiarità proprie, per venire incontro ai bisogni del tempo, per esempio le scuole. Allora dobbiamo porci una domanda fondamentale: qual è il nostro carisma? Ovvero: quali sono le sfide di oggi, a cui bisogna rispondere? Questi sono piccoli riferimenti che riguardano la parte femminile, anche se non in maniera esaustiva.
Per quanto riguarda, invece, la parte maschile, dobbiamo dire che oggi i Vescovi hanno sempre più bisogno di sacerdoti per la pastorale, spesso non rendendosi conto che così mettono una comunità nelle condizioni di non vivere una vita di comunione e di fraternità. Voi comprendete cosa significhi, per un religioso, lasciare il convento e gestire una parrocchia esterna al convento o alla casa religiosa? Si hanno due superiori: il provinciale e il Vescovo. Spesso capita di non seguire né l’uno né l’altro e di essere un po’ indefiniti.
Una prima provocazione è quella di dire ai Vescovi: “fateci fare i religiosi”.
Io ammiro tanto un Vescovo che, alla mia domanda provocatoria: “cosa vuole da noi religiosi?” (avevamo, infatti, tre frati e tre parrocchie, tutte fuori dal convento), rispose: “voglio che facciate i religiosi. Se per farlo è necessario togliervi qualche parrocchia, lo farò. La Chiesa non è mia, è di Dio: ci penserà lui”. Questo è un discorso che rispetta il carisma e dimostra capacità di intuire e di andare lontano, perché i problemi non si risolvono dandogli una risposta immediata e contingente, ma guardando lontano.
D’altra parte, però, ci vuole anche la capacità dei consacrati a vivere bene anzitutto la vita comunitaria. Ma non basta: perché io posso anche vivere bene la vita comunitaria, come insieme di doveri da assolvere con impegno e fedeltà, ma non amare i miei fratelli. Occorre allora vivere la vita comunitaria in comunione, consapevoli che solo dall’Eucaristia, dalla Parola e dalla preghiera fatte insieme nasce la comunione. Dobbiamo custodire gelosamente questi tre momenti, perché altrimenti perdiamo la vita di comunione delle comunità, che sono sempre più assottigliate come numero e sempre più centripete, cioè esposte a tante sollecitazioni esterne, per cui ci accorgiamo che nell’apostolato più diamo e più ci viene richiesto.
Oggi, nella famiglia, la figura che manca non è quella della madre, ma quella del padre: è il papà che non sa dire e non sa dare la retta via, che non sa dire le cose giuste, concordate con la moglie evidentemente. Ci deve essere uno che dica l’ultima parola; forse il ruolo del superiore, del moderatore o del guardiano, come volete chiamarlo, va oggi riscoperto e rivissuto. È un richiamo e una sofferenza continua per chi è stato superiore: è una sofferenza richiamare il fratello a ciò che egli ha promesso a Dio e alla Chiesa.
Non c’è bisogno di fare tante altre cose: la comunità, che è comunione vivente, diventa essa stessa testimonianza e quindi evangelizza, perché diventa capacità d’attrarre. Attrarre non verso una singola persona della comunità, ma attrarre al carisma della Vita religiosa. Questo difficilmente avviene in Occidente, anche per l’esiguità del numero e per le necessità della Chiesa locale, che è costretta a richiederci tanti servizi pastorali; avviene più facilmente dove comincia a nascere la Chiesa, nei paesi di missione.
Penso che tutti voi consacrati siate consapevoli che le vocazioni stanno venendo da altre parti, mentre da noi diminuiscono. Questo crea a volte qualche problema.
Nella Regola francescana c’è scritto che chi vuole andare in missione deve chiedere al Provinciale, il quale dà il permesso. È l’unica volta in cui San Francesco non mette l’obbedienza. Ricordo un episodio di quando ero Provinciale: chiamai un frate filippino a dare tre anni del suo ministero nel nostro ambiente, anche come integrazione e aggiornamento. Passati tre anni, gli chiesi: “Vuoi continuare?”. Mi rispose: “No. Devo tornare, non voglio più fare il missionario”. “Come in Italia?” gli dissi. “Sì! Perché io ho lasciato come voi casa, affetti e patria e sono venuto qui come missionario”.
Ecco lo spirito con cui vengono e con il quale dobbiamo accoglierli: in spirito missionario.
E mentre noi parliamo di prima evangelizzazione dei laici, forse dobbiamo stare attenti che una prima
evangelizzazione della vita consacrata non debba arrivare dall’esterno. Il Concilio Vaticano II diede un’indicazione fondamentale agli Istituiti e agli Ordini religiosi: ristudiare il carisma, tornare alle fonti e ai fondatori. Il suggerimento è sempre valido e sempre vivo. Ci vuole coraggio: c’è tanta sofferenza nel ridisegnare la nostra presenza nelle Diocesi, perché c’è da tagliare e da potare, per programmare in maniera intelligente la nostra presenza. Non possiamo, ad esempio, avere comunità con meno di tre persone e questo significa riprendere un discorso di risignificavità.
Occorre, infatti, uno sguardo concreto e realistico: altrimenti faremmo tanti discorsi e propositi, guarderemmo a tutti i Documenti della Chiesa, ma ci passeranno sempre sopra.
Nella mia Diocesi, che conta 135 mila abitanti, non ho molti religiosi e consacrati, ma i paesi sono piccoli. Non abbiamo una strategia vocazionale, ma abbiamo la fortuna di avere sacerdoti che sono dei veri testimoni e ogni anno ci sono ordinazioni sacerdotali.
Da quando ci sono io, un sacerdote, dopo 8 anni, è diventato frate minore, mentre un giovane, dopo l’an-no propedeutico nel Seminario Regionale, è diventato frate minore. Ho detto al Nunzio, che mi diceva che da noi i sacerdoti diventano frati, che io ne ho un danno e una beffa insieme: il danno perché se ne vanno, la beffa perché non sono conventuali.
Questo vuol dire che in questi anni sono state curate, e stanno continuando, la testimonianza e la significatività, che sono fondamenta. Se vogliamo lavorare insieme dobbiamo farlo nella verità: ognuno deve portare se stesso nella verità, senza nascondersi e senza camuffarsi. E allora potremo dire ai Vescovi: “Fateci fare i religiosi, fateci essere segno di questa presenza di comunione”.
Termino con una battuta di Savino Pezzotta, che è stata tra le più applaudite a Verona. Egli, riferendosi ai Movimenti ecclesiali, ha detto: “Basta con il federalismo ecclesiale”. Io oggi dico: “Basta con il federalismo religioso della vita consacrata”. Spesso nelle diocesi vivono tanti carismi, ma non si conoscono; non vivono insieme per motivi diversi, ma forse troppo impegnati a fare e troppo poco a conoscersi, come si diceva, per vivere il proprio carisma mettendolo in comunione. Dobbiamo avere più coraggio per fare questo: lo dobbiamo pretendere come religiosi e lo dobbiamo pretendere dai Vescovi. Anzi, occorre aiutare i Vescovi a capire di più questo bene grande, che il Signore ha fatto alla Chiesa: non è colpa di nessuno, ma forse un passo in più da parte di tutti farebbe bene anche alla Chiesa.
SR ELISABETTA TORINI
delle Suore Stabilite della Carità
Nel rispondere all’interrogativo che il titolo di questa Tavola rotonda ci propone, vorrei con forza sottolineare quanto sia fondamentale che all’interno dei CDV si respiri una forte dimensione di ecclesialità, proprio perché, come evidenziava don Nico dal Molin nel Forum del 2005, “le diverse vocazioni sono presenti non da spettatrici, ma in maniera attiva e dinamica, da sentirsi così tutte coinvolte e valorizzate”. Certo, per far sì che questo avvenga, i CDV devono essere organi rappresentativi della Chiesa locale. Alle volte devo costatare che, nonostante i continui richiami da parte delle nostre Chiese, noi religiosi siamo restii a parteciparvi, crediamo di perdere tempo, convinti che è meglio lavorare nel nostro orticello per la paura che le vocazioni non arrivino e così via. Alcune volte, e non abbiamo paura ad ammetterlo, la partecipazione a questi organismi diocesani è solo una sensibilità del singolo, che crede fortemente ad un cammino di comunione, ma è solo, cioè non ha alle spalle la Comunità, per cui tanta ricchezza va persa, per l’Istituto e per la Chiesa tutta.
Capita anche che noi consacrati non sappiamo se nelle nostre Chiese locali esistono i CDV. Quante volte Mons. Ladisa, durante i Convegni, durante i corsi per animatrici vocazionali o questi stessi Forum ci ha invitato ad andare a bussare alle porte delle nostre curie diocesane per sapere se esistevano i CDV e, se c’erano, di farne parte. Questo evidenzia che anche da parte nostra c’è disinformazione e – lasciatemelo dire – disinteresse. Il “fai da te” è ancora una formula molto diffusa. Eppure il CDV può diventare, per gli Istituti, una straordinaria esperienza di comunione che non sottrae energie, ma riceve ricchezza e stimolo, offre un’apertura sempre nuova e apre ad orizzonti sconosciuti.
In concreto, tutto questo come si realizza? Se penso alla mia realtà diocesana, vedo che uno dei primi passi percorsi è stato proprio quello compiuto sulla strada della conoscenza reciproca dei vari membri. Per un anno non abbiamo avuto una sede fissa, ma ci siamo riunite nelle varie case religiose, per conoscerne la spiritualità carismatica e come questa venisse applicata nella nostra terra fiorentina. Questo nomadismo ci ha permesso di creare legami più veri che oggi ci consentono di instaurare rapporti sempre più profondi.
Dopo un percorso del genere, è naturale conseguenza un lavoro di équipe nel preparare e nel condurre insieme, a livello diocesano, gli esercizi spirituali per giovani, una scuola di preghiera con adorazione eucaristica mensile, l’animazione di giornate di preghiera e di condivisione nelle parrocchie dei Vicariati, il lavoro per allestire e seguire il monastero invisibile, che prenderà il via anche a livello regionale, la preparazione e la proposta comunitaria della Veglia vocazionale in vista della GMPV. Tutti questi momenti vissuti insieme non solo offrono alla vita consacrata l’opportunità di collaborare, ma manifestano una specificità carismatica, propria delle diverse spiritualità.
Se il CDV cammina nella giusta direzione, consente una piena valorizzazione dei singoli carismi, nella bellezza di una comunione fra tutte le vocazioni, ed è come se ognuna prendesse luce e bellezza dalla luce e bellezza delle altre. In effetti, è all’interno della realtà del CDV che le iniziative dei singoli Istituti trovano ampio spazio e hanno la possibilità di divulgarsi nell’ambito della Chiesa locale, molto di più di quanto il singolo Istituto possa fare da solo.
Quelle Congregazioni che coinvolgono i loro membri nella realtà dei CDV – supponendo che ci siano dei CDV che lavorano con passione ed entusiasmo, e che non si limitino solo al lavoro di due o tre persone che si riuniscono una volta all’anno per preparare qualcosa per la GMPV – sperimentano che non lavorano in un angusto spazio privato, ma offrono tempo ed energie nella vigna del Signore e riescono a raccogliere frutti che forse non sono secondo le loro aspettative, ma senz’altro sono secondo la legge della gratuità. Inoltre hanno l’occasione di sperimentare che il “fare insieme” richiede meno dispendio d’energie e dà la certezza di non aver corso invano.
Concludendo questo mio intervento, auguro a tutti noi, consacrati e non, che quanto detto fino ad ora diventi speranza e la speranza diventi possibile e vivibile: e questo sarà vero solo se noi stessi, per primi, ci crederemo. Perciò l’unione di CDV, vita consacrata e Chiesa locale è una realtà che va creduta con passione e coltivata con amore, affinché diventi segno visibile e concreto per una pastorale unitaria.
FRANCESCO FEDATO
membro di un Istituto secolare
Sono stato invitato a questa Tavola rotonda come persona appartenente alla “categoria” dei laici consacrati. Siamo persone che vivono questa vocazione non individualisticamente, ma facendo parte di “comunità spirituali”, con un’organizzazione interna tale da offrire ai propri membri il sostegno personale e comunitario per vivere responsabilmente il proprio essere nel mondo e nella Chiesa. Siamo riconosciuti dalla Chiesa come “Istituti Secolari”, laicali o sacerdotali. Molti hanno il riconoscimento pontificio, altri quello diocesano. Siamo particolarmente presenti in Italia, ma estesi in tutto il mondo.
Come membro di un Istituto secolare laicale, mi accingo a parlare proprio di questi, cercando di spiegare il senso e la concretizzazione di una consacrazione unita alla secolarità. La caratteristica che accomuna questi Istituti è quella di essere composta da persone che, rispondendo alla chiamata del Signore Gesù, sentono di essere invitati a “coniugare la piena consacrazione a Dio e la secolarità a 360 gradi”.
-Viviamo da laici, prevalentemente in famiglia, oppure da soli o in piccoli gruppi.
-Condividiamo il vivere e l’operare di tutti gli altri uomini e donne, laici “comuni”, svolgendo quelle professioni lavorative che l’indole, la preparazione personale e il mercato del lavoro permettono.
-Siamo disponibili ad assumere ogni altra responsabilità e ruolo nell’ambito sociale, amministrativo, politico, del tempo libero, ecc., nel rispetto delle sensibilità e capacità personali, oltre che delle regole che presiedono tali contesti.
-Fine di questo stile di vita è testimoniare che il progetto di Dio sull’uomo e sul mondo è una gran bella “invenzione”, possibile da realizzare; è mostrare che vivendo, in Cristo, la piena relazione con Dio, è possibile arrivare, per dono suo, ai massimi vertici della “carità”, vale a dire della santità.
-Per noi è molto espressivo è pregnante ciò che si legge in Gn 3, 8 e 10: l’uomo e la donna riconoscevano il passo di Dio, che scendeva, nella brezza della sera, a conversare con l’uomo. Il che significa che era abituale per Dio e per l’uomo incontrarsi al termine della giornata “lavorativa”, per dialogare sul “vissuto” della giornata… È così che ci piace pensare alla preghiera di Gesù, non solo negli anni della vita pubblica, quando essa sarà registrata con chiarezza, ma anche nei primi 30 anni del suo vivere fra gli uomini.
-Ad animare e sostenere il laico consacrato nell’essere e nell’operare dentro al mondo sono la piena consacrazione a Dio e la mediazione del proprio Istituto.
-È naturale che, portando nel cuore, senza segni esterni – di vestito, ruoli, case, opere, ecc. – la ricchezza di una consacrazione così vissuta, possa accadere di essere richiesti per dei servizi all’interno della Chiesa. A queste possibili chiamate possiamo e vogliamo rispondere, senza lasciarci però completamente assorbire “ad intra”, per non cadere nel tranello di snaturare la nostra caratteristica peculiare che è di “fare buone tutte le nostre opere”, nel nostro quotidiano, in modo che così si dia gloria al Padre che è nei cieli.
-Questo stile di vita ci porta ad essere “sempre pronti a rispondere a chiunque ci domandi ragione della speranza che è in noi”, come dice Pietro nella sua Prima lettera. Non può essere considerata questa la peculiare “nuova evangelizzazione” della quale, come laici, siamo responsabili?
Cinquant’anni di storia nell’aiuto al discernimento vocazionale
Un’esperienza importante all’interno della vita del mio Istituto è quella dei “Corsi d’orientamento vocazionale”, iniziati già 50 anni fa dal prof. Giuseppe Lazzati e poi assunti come modalità di proposta spirituale anche da altri membri dell’Istituto. Si trattava di un’esperienza di tre/quattro giorni, in cui si presentava la vita come vocazione e le quattro vocazioni principali con testimonianze dirette sul matrimonio, sul sacerdozio, sulla consacrazione religiosa e sulla vocazione del laico consacrato. Questo servizio è cominciato in Lombardia e poi si è esteso anche in diverse altre diocesi. Da questa proposta sono scaturite molte vocazioni anche di speciale consacrazione.
Si è ben presto capito che prima di ciò, o meglio insieme a ciò, bisognava far crescere umanamente e spiritualmente i giovani per essere in grado di pensare ed accogliere la propria vocazione, con libertà e responsabilità. Da qui la proposta di ritiri mensili e dell’accompagnamento personale, iniziativa che da alcuni anni è condotta in collaborazione con l’Azione Cattolica.
Negli ultimi anni, però, non è stato più possibile realizzare dei corsi d’orientamento. Attualmente, nell’orientamento/ proposta vocazionale, ci muoviamo in questo modo:
-L’incontro con i giovani in ricerca nasce dalla testimonianza del nostro stile di vita e quindi dalla conoscenza diretta di qualcuno di noi oppure da segnalazioni di altri che ci conoscono: sacerdoti, religiosi/e, laici, ecc.
-Rispondiamo a richieste, personali o di gruppo, per la conoscenza della vocazione del laico consacrato e della specificità del nostro Istituto. Lo facciamo partendo dall’identità e dal ruolo del laico cristiano nella Chiesa e nel mondo.
-Da tre anni circa diffondiamo un depliant che parla della nostra vocazione.
-Abbiamo aggiornato il nostro sito Internet in più lingue e questo ci permette di avere varie richieste d’informazioni, più dall’estero che dall’Italia.
-Per i giovani più interessati alla conoscenza della nostra realtà vocazionale, siamo disponibili ad un accompagnamento personale o di gruppo, per un discernimento che porti
all’individuazione e alla scelta di ciò che il Signore propone.
-Siamo presenti in alcuni CDV, con piena disponibilità alla collaborazione. Consideriamo quest’organismo un luogo importante per far conoscere anche la nostra vocazione. Forse dovrebbe essere ripensato il suo ruolo all’interno delle diocesi.
Spunti di riflessione
Quando nella proposta vocazionale operiamo come singoli Istituti o come Seminario diocesano, tutti affermiamo di presentare, nel dovuto modo, tutte le vocazioni, ma poi ciascuna realtà vocazionale sospetta della “parzialità” del servizio che fanno gli altri, come se ciascuno si muovesse pro domo sua. In base alla mia lunga esperienza, io ritengo che questo sospetto sia ancora abbastanza presente. Purtroppo, qualora ciò rispondesse alla realtà, ci troveremmo di fronte ad un fatto grave: ad un sostituirsi, in pratica, alla chiamata del Signore, finendo anche per rendere più difficile la vita del chiamato (in proposito avrei degli esempi recenti e molto indicativi).
Credo sia urgente, invece, offrire ai giovani tutto l’aiuto necessario: umano, spirituale, psicologico, ecc. perché possano maturare dentro di sé una risposta cosciente, libera, adeguata a ciò che il Signore “suggerisce” nell’intimo, così che la propria scelta/risposta possa corrispondere il più possibile al sogno, al desiderio… all’invito che il giovane si porta dentro.
Inoltre, credo che un cammino ordinario di formazione dei giovani non possa prescindere dall’orienta-mento/discernimento vocazionale, condotto sui tre livelli del processo di crescita del giovane credente: la vita come vocazione, la vita cristiana come vocazione, la vocazione specifica. Ciò è necessario anche per orientarsi al matrimonio.
Ultima nota, che considero molto seria e che sta alla base dell’orientamento vocazionale per tutte le vocazioni, è che quando si presenta al giovane – ma anche agli adulti – la vocazione del laico cristiano, così com’è descritta dal Concilio Vaticano II e in tutto il Magistero ufficiale della Chiesa, fino all’Enciclica di Benedetto XVI, essa è colta quasi sempre come novità per la maggioranza delle persone. Ciò, a livello ecclesiale, è inconcepibile e fa sorgere delle domande: che tipo di cristiani formiamo? Per che cosa? Quanto e come potrà essere compresa dal giovane in ricerca la vocazione del “laico consacrato” se trova un retroterra di questo tipo?
Un’ultima notazione
Vorrei infine segnalare una mia esperienza particolare d’orientamento vocazionale a Treviso. Si tratta di un’esperienza partita quaranta anni fa, con la costituzione di un “Gruppo Diocesano”, riconosciuto sia dalla diocesi che dal CDV, costituito da persone del Seminario diocesano, dell’A.C., religiosi/e, missionari, sposi, laici consacrati. Questo gruppo operava proponendo corsi d’orientamento vocazionali residenziali, di più giorni, e con la proposta di proseguimento del cammino in ritiri mensili per un anno, che terminavano con un’esperienza prolungata di preghiera. Dopo alcuni anni, per chi aveva bisogno di un ulteriore cammino, si era organizzato un percorso triennale d’approfondimento della vocazione alla vita cristiana.
Questa seconda esperienza è terminata qualche anno fa, perché sono venute meno le collaborazioni, ma da questi cammini sono scaturite parecchie vocazioni particolari, oltre a bei matrimoni e laici aperti al servizio nel mondo e nella Chiesa.
“ Vivere nella Chiesa, al giorno d’oggi, le parole, i gesti, gli insegnamenti di Gesù. Farlo semplicemente, un po’ alla lettera, come farebbe la gente che ascoltasse il Vangelo per la prima volta. Come fanciulli che hanno fiducia e non domandano spiegazioni, che non hanno obiezioni da fare; come innamorati che vogliono esaudire anche il più piccolo desiderio di colui che amano… Tutto ciò di cui noi facciamo uso, è di colui che incontriamo, se ne ha bisogno: questo è il punto di arrivo della nostra povertà. Una disponibilità sempre in azione è il risultato della nostra vita senza famiglia. Il servizio del bene di tutti è il risultato della nostra obbedienza”.
(MADELEINE DELBREL, Comunità secondo il Vangelo, ed. Gribaudi, frase citata da Anna Maria Berta a conclusione della Tavola rotonda)