Per una “svolta” nella pastorale vocazionale unitaria
Il titolo dato alla mia relazione mi sembra un po’ altisonante e, per questo, corre il rischio di suscitare inutili attese, come se questa “svolta” dovesse consistere nell’iniziare tutto da zero, annullando quanto è stato realizzato in questi anni. Il nuovo, per avere un futuro stabile, deve necessariamente poggiarsi su ciò che è stato precedentemente attuato, altrimenti è condannato ben presto a sgretolarsi, lasciando dietro di sé il nulla. Ho pensato, pertanto, di dividere il mio interevento in due parti: nella prima mi soffermerò sul cammino fatto in questi anni per realizzare una pastorale vocazionale unitaria (PVU); nella seconda cercherò di tratteggiare la svolta auspicata per il futuro.
Un cammino di comunione
Quando sei anni fa, all’interno della Direzione del CNV e dietro forte spinta dei rappresentanti dei consacrati ivi presenti, nacque l’idea di dare vita al Forum, ci si proponeva innanzitutto di perseguire quanto è indicato dallo Statuto del Centro Nazionale Vocazioni:
1- studia gli orientamenti di pastorale vocazionale della Santa Sede e della CEI e ne cura la divulgazione e la conoscenza;
2- collabora con i Vescovi per promuovere nelle Chiese particolari una pastorale vocazionale unitaria con specifica attenzione al ministero ordinato e alla vita consacrata;
3- coinvolge gli organismi vocazionali e ne coordina le attività nelle regioni ecclesiastiche, negli istituti di vita consacrata, nelle società di vita apostolica e negli istituti missionari
4- promuove e favorisce, in accordo con i responsabili ai vari livelli, progetti e iniziative atte a suscitare una maggiore consapevolezza, corresponsabilità e collaborazione nella pastorale vocazionale.
La fedeltà al dettato dello Statuto era resa ancora più urgente e necessaria per il fatto che si notava una certa fatica, da parte di alcuni CDV, ad essere luogo di comunione, di annuncio e di proposta vocazionale non solo per le vocazioni al presbiterato, ma anche alla vita consacrata; e da parte di quest’ultima la difficoltà ad inserirsi nella pastorale vocazionale della Chiesa locale apportando il proprio specifico contributo. Che cosa è avvenuto lì dove la fatica dei primi si è saldata con la difficoltà vissuta dalla seconda? I consacrati hanno disertato i CDV, concentrando le loro forze e le loro attività unicamente sulle iniziative e proposte vocazionali dell’Istituto, e i CDV, impoveriti e non più pungolati della presenza dei consacrati, sono passati dall’agonia alla morte clinica. Per fortuna non è così dappertutto né è così da sempre. Tutto questo, però, non poteva lasciare indifferente il CNV.
In questi sei anni, il Forum ha visto crescere sempre più il livello di partecipazione, la ricchezza del dialogo, la stima reciproca e la comunione tra i partecipanti, provocando una sorta di reazioni a catena che non hanno mancato di produrre effetti benefici anche nella pastorale vocazionale delle nostre Chiese locali.
Credo sia ormai convinzione comune, anche grazie al cammino che si è fatto in questi sei anni, che, nel realizzare percorsi di comunione ecclesiale nella pastorale vocazionale, decisivo è il contributo della vita consacrata. Innanzitutto perché, come ci ha detto ieri mons. Cantoni, la vita consacrata nelle sue diverse forme, dagli Istituti di vita attiva alla vita contemplativa, passando per l’Ordo Virginum, è una ricchezza per la Chiesa locale, per quello che è prima ancora che per quello che fa. In secondo luogo, perché suscita nella Chiesa locale un dinamismo di comunione. Non è privo di significato il fatto che l’espressione “spiritualità di comunione” sia stata coniata dal Sinodo sulla vita consacrata nella Proposta n. 28. È stata, poi, inserita nell’Esortazione Vita Consecrata, in cui si legge:
«Alle persone consacrate si chiede di essere davvero esperte di comunione e di praticarne la spiritualità, come testimoni e artefici di quel progetto di comunione che sta al vertice della storia dell’uomo secondo Dio». Si ricorda inoltre che compito delle comunità di vita consacrata oggi è quello «difar crescere la spiritualità della comunione, prima di tutto al proprio interno e poi nella stessa comunità ecclesiale, ed oltre i suoi confini, aprendo o riaprendo costantemente il dialogo della carità, soprattutto dove il mondo di oggi è lacerato da odio etnico o da follie omicide» (VC 51).
Anche Mons. Nolè, nell’omelia di ieri, ci ha detto che i segni dei tempi chiedono oggi alla vita consacrata di essere una proposta convinta, convincente e coinvolgente di comunione fraterna. Un compito, questo, che richiede persone spirituali, interiormente forgiate dal mistero di comunione trinitaria, e comunità mature dove la spiritualità di comunione è legge di vita. Che cosa sia, poi, la spiritualità di comunione, di cui oggi si sente così forte la necessità, ce lo ha ricordato Giovanni Paolo II in quello stupendo passo della Novo Millennio Ineunte, in cui affermava:
«Spiritualità della comunione significa innanzi tutto sguardo del cuore portato sul mistero della Trinità che abita in noi e la cui luce va colta anche sul volto dei fratelli che ci stanno accanto». E ancora: «Spiritualità della comunione significa capacità di sentire il fratello di fede nell’unità profonda del Corpo mistico, dunque, come “uno che mi appartiene”…» (NMI 43).
Da questo principio derivano con logica stringente alcune conseguenze sul modo di sentire e di agire: condividere le gioie e le sofferenze dei fratelli, intuire i loro desideri e prendersi cura dei loro bisogni, offrire loro una vera e profonda amicizia. Spiritualità della comunione è pure capacità di vedere innanzi tutto ciò che di positivo c’è nell’altro, per accoglierlo e valorizzarlo come dono di Dio; è saper fare spazio al fratello portando insieme gli uni i pesi degli altri (cf NMI 43). La spiritualità di comunione chiede, dunque, di esprimersi in stile di vita e di azione pastorale. A questo proposito, risulta essere sempre attuale il monito di Giovanni Paolo II:
«Non ci facciamo illusioni: senza questo cammino spirituale, a ben poco servirebbero gli strumenti esteriori della comunione. Diventerebbero apparati senz’anima, maschere di comunione più che sue vie di espressione e di crescita» (NMI 43).
La spiritualità della comunione, per essere autentica, esige che si passi dalla collaborazione alla corresponsabilità, soprattutto nella fase del discernimento e della programmazione, come auspicava ieri Mons. Cantoni nella sua relazione, superando quella visione utilitaristica o di supplenza – giustamente lamentata dai consacrati – per giungere alla valorizzazione del loro specifico carisma[1].
È quanto ci viene chiesto anche dalla Nota pastorale della CEI, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia:
«Ed è ancora a partire dalla diocesi che religiosi e religiose e altre forme di vita consacrata concorrono con i propri carismi all’elaborazione e all’attuazione dei progetti pastorali e offrono sostegno al servizio parrocchiale, nel dialogo e nella collaborazione» (VMP 11).
E il teologo Don Franco Giulio Brambilla al Convegno ecclesiale di Verona, che si è da poco concluso, non ha mancato di osservare che:
«Non si dà testimonianza separata dalla trama di relazioni della comunione ecclesiale. Si profila al nostro orizzonte un tempo dove la Chiesa o sarà la comunità dei molti carismi, servizi e missioni, o non esisterà semplicemente. Dico questo non solo in riferimento al problema urgente e, in alcune regioni d’Italia drammatico, della scarsità del clero e dell’aumento della sua età media. Questa sarebbe ancora una visione funzionale dei carismi e del compito dei laici nella Chiesa e nel mondo. Non bisogna pensare alla testimonianza di tutti come il surrogato a buon prezzo della carenza di ministri del Vangelo. È il Vangelo stesso che esige un annuncio nella corale diversità e complementarità di carismi e missioni. Mi immagino la ricaduta pastorale di questa rinnovata coscienza comunionale della testimonianza».
In questi sei anni l’appuntamento annuale del Forum ha contribuito non poco a mettere in circolo le esperienze più significative di comunione e di collaborazione nella pastorale vocazionale che si sono moltiplicate nelle diverse diocesi. La loro conoscenza ha provocato altri ad intensificare il loro impegno di comunione e ad intraprendere cammini unitari. Come è stato detto nella sintesi del primo gruppo di approfondimento, la ricchezza più grande che tutti ci portiamo a casa da questo Forum è la condivisione delle tante esperienze vissute nelle proprie diocesi e qui condivise.
E di tutto questo non possiamo che rendere grazie al Signore, con le parole stesse che la liturgia pone sulle nostre labbra nel prefazio IX delle domeniche del tempo ordinario:
«In ogni tempo tu doni energie nuove alla tua Chiesa e lungo il suo cammino mirabilmente la guidi e la proteggi».
Un grazie che non può non trasformarsi in un rinnovato impegno a proseguire con maggiore slancio su questa strada, perché, dobbiamo ammetterlo con onestà, non siamo affatto giunti alla meta. Non possiamo, infatti, ignorare la forte provocazione così attuale del Documento europeo Nuove Vocazioni per una Nuova Europa:
«C’è un certo progetto generale di pastorale unitaria che ancora stenta a divenire prassi di Chiesa locale, e sembra in qualche modo incepparsi quando dalle proposte generali si passa alla traduzione capillare nella realtà diocesana o parrocchiale. Qui infatti non sono ancora del tutto sparite prospettive e prassi particolaristiche e meno ecclesiali» (n. 29/e).
Ecco perché va maturando la necessità di dare una “svolta” alla PVU nelle nostre Chiese locali.
La svolta nella pastorale vocazionale unitaria
E vengo alla seconda parte della mia relazione, nella quale cercherò di tratteggiare il senso di questa svolta. Innanzitutto va detto che il Forum si inserisce nelle diverse iniziative che il CNV propone quest’anno e che sono tra loro collegate e illuminate dallo slogan per la prossima GMPV: La tua vita nella sinfonia del sì. Pensare alla propria vocazione non come una scelta individuale, ma, al contrario, come una tonalità particolare che si inserisce in modo armonico nella “sinfonia” delle altre risposte vocazionali, non è solo una proposta che vogliamo fare ai giovani, ma è innanzitutto un’esperienza che vogliamo riscoprire e rinnovare noi per primi all’interno del nostro impegno nella pastorale vocazionale. Dentro questo orizzonte si inserisce questo Forum, come anche il prossimo Convegno di gennaio, che non è assolutamente riservato ai presbiteri, ma deve vedere il coinvolgimento di tutti quanti noi. Si tratta, infatti, di far sì che la pastorale ordinaria delle nostre comunità cristiane sia attraversata dalla dimensione vocazionale e il presbitero, come uomo di comunione[2], sia sempre più attento ad accogliere, valorizzare e proporre tutte le vocazioni, soprattutto quelle al presbiterato e alla vita consacrata. Si legge nella sintesi dei contributi pervenuti dalle Diocesi al Convegno di Verona:
«Nella sinfonia dei doni e dei carismi di cui la comunità cristiana è ricca, si potranno riconoscere le plurali e diversificate figure vocazionali».
Il riferimento a Verona non è casuale. Il nostro Forum si situa a pochi giorni dalla sua conclusione e non possiamo assolutamente prescindere non solo dal cammino di preparazione fatto dalle nostre Chiese locali, ma anche da quanto è stato detto e proposto a Verona. Questo perché la PVU chiede al CNV di inserirsi, con il proprio specifico contributo, nel solco tracciato dalla Chiesa italiana, e ai CDV di non prescindere mai dal progetto pastorale della propria Chiesa locale. Per questo ho ritenuto necessario lasciarmi provocare dal Convegno e alla sua luce delineare la svolta nella PVU.
Passare dagli animatori vocazionali al giovane
Non vi sembri irriguardoso né nei vostri confronti né in quelli del lavoro di riflessione e di dialogo fraterno fatto in questi giorni se, per tratteggiare il senso di questa svolta, prendo le mosse da un quadretto di vita familiare:
«Durante l’assenza della moglie, un uomo dovette rimanere in casa per badare ai due scatenatissimi bambini. Propose loro un gioco per tenerli occupati un bel po’ di tempo. Prese da una rivista una carta geografica che rappresentava il mondo intero, una carta complicatissima, causa i colori ed i confini tra vari stati. Con le forbici la tagliò in piccoli pezzi che diede ai bambini, sfidandoli a ricomporre il disegno del mondo. Pensava che quel puzzle improvvisato li avrebbe tenuti occupati per qualche ora. Un quarto d’ora dopo, i due bambini arrivarono trionfanti con il puzzle perfettamente ricomposto. “Come avete fatto a finire così presto?” chiese il padre meravigliato. “È stato facile” risposero. “Sul rovescio c’era la figura di un uomo. Noi ci siamo concentrati su questa figura e, dall’altra parte, il mondo si è messo a posto da solo”».
L’unitarietà nella pastorale vocazione è richiesta innanzitutto dalla necessità di mettere al centro la persona del giovane e il suo vissuto, vincendo la forte tentazione, sempre presente negli operatori pastorali, dell’autoreferenzialità, come è stato richiamato ieri da sr. Rosalia Negretto. Finché siamo troppo piegati su noi stessi, sulle nostre attività, sulle nostre paure, difficilmente daremo vita ad una svolta decisiva nella PVU. Nel migliore dei casi l’unitarietà si tradurrà in un impegno organizzativo per rendere più efficace o meno caotica la nostra azione. Se l’unitarietà, però, si riducesse a questo, sarebbe ben poca cosa e non giustificherebbe l’investimento di energie e di tempo che il CNV e i responsabili vocazionali della vita consacrata da sei anni stanno facendo nei Forum. Potremmo dire, parafrasando una nota espressione, che essere in comunione non vuol dire guardarsi negli occhi, ma guardare insieme nella stessa direzione. La comunione è per la missione e la missione tende per sua natura alla comunione: sono le due ali che fanno volare alto la pastorale delle nostre Chiese[3].
E la missione della pastorale vocazionale è quella di raggiungere ogni giovane e di accompagnarlo alla realizzazione della sua autentica felicità, aiutandolo a scoprire e ad accogliere la sua vocazione specifica. È quanto ci ha detto ieri Mons. Cantoni nella sua relazione:
«Occorre che la Chiesa locale, con la collaborazione dei diversi Istituti, aiuti i giovani e le ragazze a vivere un cammino serio e qualificato di formazione alla vita cristiana, senza la quale non ci potrà essere alcuna scelta libera e seria».
Non è forse questa anche la prima indicazione che emerge dal Convegno di Verona e che P. Raffaele Sacco in un suo intervento ci ha ricordato? A Verona si è posto al centro della riflessione e del confronto l’uomo, soffermandosi sui cinque ambiti vitali dell’esperienza umana. Come ci ha ricordato ieri sr. Rosalia Negretto:
«La nostra pastorale vocazionale, se ben progettata e programmata, non serve a far contenti gli operatori del settore, i teologi, i sociologi o quant’altro, ma “serve meglio l’uomo”: non si tratta quindi di viverla o meno, quasi fosse un optional, ma di assumerla con un atteggiamento di rinnovamento che stimola a trovare costantemente le vie migliori per essere fedeli all’uomo e raggiungere le profondità del suo cuore. “La Sapienza si è costruita la casa” (Pro 9,1) che è il cuore stesso dell’uomo, la sua identità di persona che ha per fondamenta l’amore di Dio».
Se un tempo l’obiettivo sembrava essere il reclutamento e il metodo la propaganda, non rispettando, a volte, la libertà dell’individuo o con episodi di “concorrenza” tra i diversi animatori vocazionali, ora deve essere sempre più chiaro che lo scopo dell’animazione vocazionale è il servizio da rendere alla persona, ad ogni individuo, perché sappia discernere il progetto di Dio sulla sua vita per l’edificazione della Chiesa, e in esso riconosca e realizzi la sua propria verità. A questo ci ha richiamato anche il Card. Ruini, nella sua relazione conclusiva al Convegno di Verona, quando ha affermato che nel contesto sociale e culturale in cui viviamo l’opera formativa che le nostre comunità cristiane sono chiamate a compiere si deve rivolgere, senza dualismi, alla persona concreta dell’uomo e del cristiano, con l’intero complesso delle sue esperienze, situazioni e rapporti (cf n. 4).
Proprio l’attenzione al giovane nell’aiutarlo a discernere e ad accogliere la sua vocazione specifica richiede da noi due attenzioni. Innanzitutto, come scriveva Paolo VI nel suo Messaggio per la GMPV del 1978, «Che nessuno, per colpa nostra, ignori ciò che deve sapere, per orientare, in senso diverso e migliore, la propria vita».
Se – come si legge nell’esortazione post sinodale Vita consecrata – la vita consacrata “non è una realtà isolata e marginale, ma tocca tutta la Chiesa” e “si pone nel cuore stesso della Chiesa come elemento decisivo per la sua missione” (n. 3), allora l’annuncio della vita consacrata ai giovani non può assolutamente essere intesa né come una rivendicazione dei consacrati né come una concessione fatta loro dalla Chiesa locale, ma piuttosto come un diritto di ogni giovane. Sì: tutti i giovani, nel loro cammino di crescita di fede-vocazionale, hanno il diritto di conoscere e stimare tutte le vocazioni, nessuna esclusa. A noi spetta il dovere di presentarle e di farle apprezzare. Seconda attenzione sarà che l’annuncio e la proposta vocazionale dovranno essere offerti a tutti, non solo ad alcuni, a quelli che ci sono più vicini o quelli che ai nostri occhi sembrano i migliori.
Ricordiamo quanto si legge in Nuove Vocazioni per una Nuova Europa:
«La pastorale vocazionale unitaria si fonda sulla vocazionalità della Chiesa e di ogni vita umana come chiamata e risposta. Ciò sta alla base dell’impegno unitario di tutta la Chiesa per tutte le vocazioni e in particolare per le vocazioni di speciale consacrazione» (n. 22).
Dobbiamo lasciare al Signore la libertà di chiamare chi vuole e quando vuole; a noi spetta il compito di prestargli la voce, perché la sua Parola possa raggiungere tutti. La vocazione, lo sappiamo bene, ma a volte nella prassi ce lo dimentichiamo, non è un optional che abbellisce la vita dei migliori, né tanto meno un virus che colpisce i più deboli; è, invece, un dono che il Signore fa a tutti. Tutti sono chiamati, anche se le vocazioni sono diverse. Benedetto XVI, nella catechesi generale dell’11 ottobre scorso, presentando i santi Simone e Giuda, di cui oggi facciamo memoria nella liturgia, così si esprimeva:
«Gesù chiama i suoi discepoli e collaboratori dagli strati sociali e religiosi più diversi, senza alcuna preclusione. A lui interessano le persone, non le categorie sociali o le etichette! E la cosa bella è che nel gruppo dei suoi seguaci, tutti, benché diversi, coesistevano insieme, superando le immaginabili difficoltà: era Gesù stesso, infatti, il motivo di coesione, nel quale tutti si ritrovavano uniti. Questo costituisce chiaramente una lezione per noi, spesso inclini a sottolineare le differenze e magari le contrapposizioni, dimenticando che in Gesù Cristo ci è data la forza per comporre le nostre conflittualità. Teniamo anche presente che il gruppo dei Dodici è la prefigurazione della Chiesa, nella quale devono avere spazio tutti i carismi, i popoli, le razze, tutte le qualità umane, che trovano la loro composizione e la loro unità nella comunione con Gesù».
Passare dall’unità nell’azione pastorale all’unità della persona
Passare dall’unità tra le diverse dimensioni della pastorale all’unità della persona: è il passaggio che il cardinale Ruini ha indicato a Verona a tutta la pastorale italiana e noi non possiamo che farlo nostro:
«Si tratta di un notevole passo in avanti rispetto all’impostazione prevalente ancora al Convegno di Palermo – ha affermato infatti il Cardinale – che a sua volta puntava sull’unità della pastorale ma era meno in grado di ricondurla all’unità della persona perché si concentrava solo sul legame, pur giusto e prezioso, tra i tre compiti o uffici della Chiesa: l’annunzio e l’insegnamento della parola di Dio, la preghiera e la liturgia, la testimonianza della carità».
Non dunque solo un’unità nell’azione pastorale, ma un’unità da perseguire nella vita delle persone, che è una sfida ancor più affascinante ed impegnativa. Non solo i giovani, ma anche tutti noi, presbiteri e consacrati, sperimentiamo come oggi il rischio più grave sia quello di vivere una vita frammentata, priva di un centro gravitazionale e unificante le diverse esperienze. Riascoltiamo quanto diceva a Verona il teologo don Franco Giulio Brambilla:
«L’accento di novità del Convegno ecclesiale è quello di una formazione che abbia una forte armatura spirituale, che sappia rinnovarsi ai fondamenti della vita battesimale (la Parola, il sacramento, la comunione), la radice che alimenta tutte le vocazioni e le missioni nella Chiesa. Dove sono oggi i credenti che abbiano la fierezza di dirsi cristiani, per i quali il nome cattolico non sia un’etichetta per schierarsi, ma l’indicazione di una sorgente a cui si alimenta la “speranza viva”? Bisogna ritornare, nelle diocesi e nelle parrocchie, ad essere gli annunciatori premurosi e tenaci della necessità insopprimibile di formare credenti solidi, storie di vita cristiana che possano dire: “io ho visto il Signore!”».
Questo nostro mondo che cambia così rapidamente e così profondamente richiede una convergenza di tutte le forze educative, per puntare decisamente su una formazione quanto più possibile organica e unitaria della persona, come ci ha detto sr. Tosca, presentando la sintesi del suo gruppo di approfondimento. Se vogliamo dare una svolta alla PVU è necessario che l’annuncio, la proposta e l’accompagnamento vocazionale coinvolgano tutte le dimensioni della vita del giovane. Non dimentichiamolo: un annuncio e una proposta vocazionale parziale generano inevitabilmente delle risposte vocazionali parziali e, per questo, deboli. Se in questi ultimi decenni si è registrato un notevole sviluppo nella presentazione organica e completa dei contenuti vocazionali (penso in modo particolare alla catechesi, agli incontri formativi o ai campi scuola vocazionali che si realizzano un po’ dovunque) e si sono moltiplicate le offerte di esperienze di servizio che si propongono ai giovani nel loro cammino di fede-vocazionale, mi sembra che l’area dell’affettività sia ancora poco esplorata e, a volte, lasciata in penombra.
L’esperienza quotidiana ci dice che in un cammino vocazionale l’affettività, se non ha raggiunto una sua maturità, finisce per avere delle ripercussioni negative sull’identità personale e sulle relazioni con gli altri. Don Luca, nell’omelia di questa mattina, ci diceva che è necessario sentirsi proprietà di Dio e lasciarsi quotidianamente “espropriare”. In questo abbandono fiducioso della nostra vita nelle mani di Dio, decisiva è l’esperienza del sentirsi amati da Dio e di percepire di essere chiamati ad amare[4].
Mi ha colpito come a Verona l’unico riferimento alla vocazione sia stato fatto dalla relazione tenuta da Raffaella Iafrate, presentando l’ambito dell’affettività:
«La vita affettiva – ha detto tra l’altro – rientra dunque in un percorso di scoperta della propria vocazione, di risposta ad una chiamata da parte di un Padre a realizzare un disegno personale pensato per ciascuno di noi. Questa è l’origine della vera speranza: la sicurezza che la risposta a tale chiamata è un destino buono, prepensato da una paternità che ci precede e ci ama da sempre. Questa è anche la forza che sorregge i percorsi vocazionali più incerti ed accidentati e gli itinerari più difficili».
Sull’importanza dell’educazione all’amore si è soffermato anche Benedetto XVI nel suo Discorso al Convegno Ecclesiale di Verona:
«In concreto, perché l’esperienza della fede e dell’amore cristiano sia accolta e vissuta e si trasmetta da una generazione all’altra, una questione fondamentale e decisiva è quella dell’educazione della persona. Occorre preoccuparsi della formazione della sua intelligenza, senza trascurare quelle della sua libertà e capacità di amare. E per questo è necessario il ricorso anche all’aiuto della Grazia. […] Un’educazione vera ha bisogno di risvegliare il coraggio delle decisioni definitive, che oggi vengono considerate un vincolo che mortifica la nostra libertà, ma in realtà sono indispensabili per crescere e raggiungere qualcosa di grande nella vita, in particolare per far maturare l’amore in tutta la sua bellezza: quindi per dare consistenza e significato alla stessa libertà».
In questa linea la PVU è chiamata a favorire la convergenza delle ricchezze e delle competenze presenti nella Chiesa locale per metterle a servizio dei giovani e accompagnarli nel loro cammino di fede-vocazionale. Penso alle tante competenze presenti tra i consacrati che potrebbero realmente essere condivise e trasformarsi in ricchezza non solo per la pastorale vocazionale, ma per tutta la vita della Chiesa locale[5].
A questo proposito la Iafrate ha ricordato:
«L’esperienza di ciascuno di noi può testimoniare quanto possano essere importanti questi incontri con figure “genitoriali” diverse da quelle familiari (è da rimarcare, a questo proposito, la fondamentale importanza che riveste la figura della “guida spirituale” che, oltre ad aiutare i giovani nel loro percorso vocazionale, può veramente costituire un riferimento educativo di supporto alla funzione genitoriale, in modo particolare in caso di carenze e difficoltà familiari)».
La vita consacrata ci ha consegnato lungo la storia la testimonianza affascinante e provocante di consacrati e consacrate che hanno vissuto in contesti e con modalità differenti questa straordinaria paternità e maternità spirituale, soprattutto nei confronti delle giovani generazioni. La loro dedizione ai giovani ha dato vita a storie vocazionali riuscite e incisive nella vita della Chiesa e della società.
Passare dalla collaborazione episodica alla valorizzazione degli organismi di comunione
Solo all’interno di questo contesto ha senso e valore parlare degli organismi di comunione: CDV, CRV, CNV. Non per allungare la litania delle lamentele o delle rivendicazioni, ma per costruire percorsi di comunione, di corresponsabilità e di servizio.
Ripenso a quell’espressione che non può lasciarci indifferenti che si trova in Nuove vocazioni per una Nuova Europa:
«La pastorale vocazionale, per proporsi come prospettiva unitaria e sintetica della pastorale in genere, deve esprimere per prima, al suo interno, la sintesi e la comunione dei carismi e dei ministeri» (n. 29/e).
Nella tradizione islamica c’è questo racconto:
«Un re fece visita ad un monaco, vero uomo di Dio. Inchinandosi davanti a lui, gli offrì un dono di grande valore, un oggetto di rara bellezza: un paio di forbici d’oro tempestate di diamanti. Il mistico prese le forbici in mano, le ammirò e le restituì al visitatore dicendo: “Grazie, Sire, per questo prezioso regalo. L’oggetto è magnifico, ma io non me ne servo. Datemi piuttosto un ago. Io non uso davvero mai le forbici”. “Non capisco – disse il re – se avete bisogno di un ago vi occorreranno anche le forbici!”. “No – spiegò il monaco – le forbici tagliano e separano. Non ne ho bisogno. Un ago al contrario ricuce quello che è stato strappato. Il mio insegnamento è fondato sull’amore, l’unione, la comunione. L’ago mi ricorda che il mio compito è restaurare l’unità. Le forbici staccano e recidono. Portatemi un ago ordinario quando tornerete a trovarmi: quello basterà».
Ad ogni animatore vocazionale è chiesto di avere sempre con sé l’ago e di abbandonare le forbici. È indispensabile, infatti, che il CDV sia sempre più il luogo della comunione, non solo proclamata ma anche vissuta e testimoniata. Dal CDV si deve irradiare, attraverso la PVU, un dinamismo di stima, di accoglienza e di valorizzazione di tutte le vocazioni presenti nella Chiesa particolare. Questo stile di vita sarà il primo e più efficace annunzio vocazionale a servizio di tutte le vocazioni.
Passare dalla settorializzazione della pastorale alla pastorale integrata
«Essa (la pastorale vocazionale) è il punto terminale che sintetizza le varie provocazioni pastorali e consente di metterle a frutto nella vicenda esistenziale del singolo credente. In definitiva, la pastorale delle vocazioni chiede attenzione, ma in cambio offre una dimensione destinata a rendere vera e autentica l’iniziativa pastorale di ogni settore. La vocazione è il cuore pulsante della pastorale unitaria!» (NVNE 26).
C’è una tensione vocazionale insopprimibile in tutta la pastorale della Chiesa, in ogni essere umano, poiché il dono della vita è come un’energia che preme verso la piena realizzazione di sé, ovvero verso il dono di sé. Alla pastorale vocazionale oggi è chiesto di ricordarlo a tutti, impegnandosi perché ogni espressione pastorale della Chiesa esprima questo dinamismo vocazionale.
Il documento Nuove Vocazioni per una Nuova Europa ci ricorda che:
«La pastorale vocazionale è il punto di partenza e anche il punto di arrivo. In quanto tale si pone come “la categoria unificante della pastorale in genere, come la destinazione finale d’ogni fatica, il punto d’approdo delle varie dimensioni, quasi una sorta di elemento di verifica della pastorale autentica”» (n. 26/g).
Ad ogni operatore pastorale va ricordato che qualsiasi espressione della pastorale ordinaria delle nostre comunità cristiane merita tale nome solo se stimola nell’uomo e nel credente l’attuazione di questa logica vocazionale. Ma questa sinergia va realizzata soprattutto con la pastorale giovanile e con la pastorale familiare[6]. A questo tema è stato dedicato un Convegno nazionale che ha visto la partecipazione dei responsabili della pastorale giovanile e della pastorale familiare, oltre che degli animatori vocazionali, non solo a livello nazionale, ma anche a livello diocesano. E non sono poche le diocesi che da qualche anno stanno mettendo a tema della loro programmazione pastorale proprio questo obiettivo. Sr. Rosalia Negretto, a conclusione della sua relazione, ci ha parlato della scelta fatta dal suo Istituto di accompagnare i fidanzati e le famiglie. Credo sia una scelta vincente. Del resto, in questi ultimi anni va sempre più crescendo la presenza della vita consacrata nella pastorale giovanile e familiare. Solo mi chiedo quanto questa presenza sia portatrice di attenzione e cura della dimensione vocazionale o non rischi di essere una presenza, sotto questo aspetto, “silenziosa”. È questa collaborazione che esige quella conversione alla pastorale vocazionale, capace di condurla fuori dalle secche dell’autoreferenzialità e di renderla realmente unitaria.
Conclusione
Mentre ci avviamo a ritornare a casa, una tentazione può insinuarsi nel nostro animo: pensare che tutto ciò che in questi giorni si è detto e condiviso è bello e avvincente, ma purtroppo bisogna fare i conti con la realtà. E la realtà non sempre è incoraggiante. Saremmo, allora, indotti a cedere allo scoraggiamento o, peggio, alla rassegnazione. Sarebbe un colpo di spugna che in un solo attimo cancellerebbe ogni buon proposito maturato in questi giorni. Mi piace allora concludere con la citazione di Gabriel Marcel con cui Don Franco Giulio Brambilla ha iniziato la sua relazione a Verona:
«Io spero in te per noi»…
In te – per noi: qual è il legame vivente fra questo “tu” e questo “noi” che solo il pensiero più insistente riesce a svelare nell’atto della speranza? Non occorre forse rispondere che Tu sei il garante di questa unità che lega me a me stesso, o meglio l’uno all’altro, o ancora gli uni agli altri? Più che un garante che assicurerebbe e confermerebbe dall’esterno un’unità già costituita, Tu sei il cemento stesso che la sostiene. Se è così, disperare di me o disperare di noi, è essenzialmente disperare di Te» (G. Marcel).
Note
[1] CEI, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia: «Una parrocchia che valorizza i doni del Signore per l’evangelizzazione, non può dimenticare la vita consacrata e il suo ruolo nella testimonianza del Vangelo. Non si tratta di chiedere ai consacrati cose da fare, ma piuttosto che essi siano ciò che il carisma di ciascun Istituto rappresenta per la Chiesa, con il richiamo alla radice della carità e alla destinazione escatologica, espresso mediante i consigli evangelici di povertà, castità e obbedienza. Questa forma di vita non si chiude in se stessa, ma si apre alla comunicazione con i fratelli» (n. 12).
[2] CEI, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia: «I sacerdoti dovranno vedersi sempre più all’interno di un presbiterio e dentro una sinfonia di ministeri e di iniziative: nella parrocchia, nella diocesi e nelle sue articolazioni. Il parroco sarà meno l’uomo del fare e dell’intervento diretto e più l’uomo della comunione; e perciò avrà cura di promuovere vocazioni, ministeri e carismi. La sua passione sarà far passare i carismi dalla collaborazione alla corresponsabilità, da figure che danno una mano a presenze che pensano insieme e camminano dentro un comune progetto pastorale. Il suo specifico ministero di guida della comunità parrocchiale va esercitato tessendo la trama delle missioni e dei servizi: non è possibile essere parrocchia missionaria da soli» (n.12).
[3] GIOVANNI PAOLO II, Christifideles laici: «Ora la comunione genera comunione, e si configura essenzialmente come comunione missionaria. […] La comunione e la missione sono profondamente congiunte tra loro, si compenetrano e si implicano mutuamente, al punto che la comunione rappresenta la sorgente e insieme il frutto della missione: la comunione è missionaria e la missione è per la comunione» (n.32).
[4] GIOVANNI PAOLO II, Familiaris consortio: «Dio è amore (1Gv 4,8) e vive in se stesso un mistero di comunione personale d’amore. Creandola a sua immagine e continuamente conservandola nell’essere, Dio iscrive nell’umanità dell’uomo e della donna la vocazione, e quindi la capacità e la responsabilità dell’amore e della comunione (cf Gaudium et Spes, 12). L’amore è, pertanto, la fondamentale e nativa vocazione di ogni essere umano» (n.11).
[5] CEI, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia: «Ogni parrocchia dia spazio alle varie forme di vita consacrata, accogliendo in particolare il dono di cammini di preghiera e di servizio. Ne valorizzi le diverse forme, riconosca la dedizione di tante donne consacrate, che nella catechesi o nella carità hanno costruito un tessuto di relazioni che continua a fare della parrocchia una comunità» (n.12).
[6] CEI, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia: «Avvertiamo la necessità di favorire un maggiore coordinamento tra la pastorale giovanile, quella familiare e quella vocazionale: il tema della vocazione è infatti del tutto centrale per la vita di un giovane. Dobbiamo far sì che ciascuno giunga a discernere la “forma di vita” in cui è chiamato a spendere tutta la propria libertà e creatività: allora sarà possibile valorizzare energie e tesori preziosi. Per ciascuno, infatti, la fede si traduce in vocazione e sequela del Signore Gesù» (n.51).