“Credete nella potenza del vostro sacerdozio!”
Liturgia della Parola
1 Gv 3, 7-10. Gv 1, 35-42
Una chiamata del tutto singolare
Il Vangelo di oggi racconta la chiamata di Giovanni, di Andrea e di Pietro. Quello di domani parlerà della chiamata di Filippo e di Natanaèle. La chiamata degli Apostoli, uno per uno, è del tutto singolare. A nessun altro compito Gesù ha chiamato in tal modo. È poi davvero impressionante l’importanza che egli ha attribuito a questi Dodici e alla loro formazione durante tutta la sua attività pubblica. Alla fine di questa impegnativa formazione e convivenza con lui, a loro ha affidato la missione che è cruciale nell’evangelizzazione del mondo. È difficile non accorgersi che in realtà proprio essi e i loro successori hanno svolto un ruolo essenziale nello sviluppo e crescita della Chiesa nel mondo. Questa loro missione è stata sostenuta dal sacramento dell’Ordine che li ha resi partecipi della missione di Cristo Sacerdote, Capo e Pastore. La differenza fra il modo con cui Gesù ha chiamato, trattato, preparato e mandato gli Apostoli e il modo con cui ha chiamato tutti gli altri alla perfezione non permette di inserire semplicemente la vocazione sacerdotale fra tutte le altre vocazioni che scaturiscono dal sacerdozio comune dei fedeli, o metterla accanto ad esse. Il sacerdozio ministeriale, infatti, è al servizio di tutte le altre vocazioni, anzi, necessario per la realizzazione di tutte le altre vocazioni.
Questa riflessione, suggerita dai Vangeli di questi giorni, costituisce uno sfondo o un contesto del Convegno che stiamo celebrando; costituisce altresì il motivo dell’impegno del tutto speciale per le vocazioni sacerdotali, da parte della Chiesa e da parte di quanti hanno a cuore il sano sviluppo della Chiesa e l’opera dell’evangelizzazione. Oggi – dopo che il Concilio Vaticano II ha giustamente messo in rilievo la vocazione di tutti i cristiani a far vivere e crescere la Chiesa – forse la percezione non del tutto esatta della diversità fra le differenti mansioni o forme dell’apostolato nella Chiesa, delineate dal Concilio, ha in qualche misura offuscato sia l’importanza e l’essenzialità del sacerdozio ministeriale che la sua identità, ossia la specificità di tale vocazione. Ciò può ostacolare l’attuazione della propria vocazione sacerdotale. Può rendere – e probabilmente rende – meno attrattivo il sacerdozio ministeriale anche a quanti pensano a tale sacerdozio, perché diventa più seducente, pur essendo in fondo sbagliato, il diffuso pensiero di poter realizzare la propria vocazione anche da laico impegnato, senza dover assumere certi sacrifici od impegni definitivi.
La potenza del vostro sacerdozio!
In ordine alla promozione delle vocazioni al sacerdozio – che soprattutto ai nostri tempi deve essere impegno di tutti, sia dei sacerdoti che delle persone consacrate e dei laici – ritengo di primaria importanza il rendersi conto dell’assoluta necessità dei sacerdoti e della loro rilevanza per la vita della Chiesa, per l’efficace apostolato, che è anche dei laici, e per la fruttuosa realizzazione della vita consacrata.
In questa prospettiva, mi hanno colpito le parole di Benedetto XVI pronunciate ai sacerdoti nella cattedrale di Varsavia il 25 maggio 2006: “Credete nella potenza del vostro sacerdozio!” (cpv. 3). Queste parole, rivolte ai sacerdoti, valgono ovviamente anche per l’efficace promozione delle vocazioni sacerdotali. Per promuovere le vocazioni sacerdotali con impegno e convinzione, per pregare con costanza per esse si deve prima di tutto credere nella potenza del sacerdozio ministeriale. Penso che questo sia un presupposto necessario. Il Santo Padre ha poi proseguito, mettendo in luce questa potenza del sacerdozio per la vita dei cristiani, ossia per la realizzazione della vita consacrata o dell’apostolato laicale: «In virtù del sacramento avete ricevuto tutto ciò che siete. Quando voi pronunciate le parole “io” o “mio” (“Io ti assolvo… Questo è il mio Corpo…”), lo fate non nel nome vostro, ma nel nome di Cristo, “in persona Christi”, che vuole servirsi delle vostre labbra e delle vostre mani, del vostro spirito di sacrificio e del vostro talento […] Quando le vostre mani sono state unte con l’olio, segno dello Spirito Santo, sono state destinate a servire al Signore come le sue mani nel mondo di oggi» (ivi).
Per puntualizzare poi la missione propria, specifica del sacerdote, Benedetto XVI, nel medesimo discorso, ha notato: «Dai sacerdoti i fedeli attendono soltanto una cosa: che siano degli specialisti nel promuovere l’incontro dell’uomo con Dio. Al sacerdote non si chiede di essere esperto in economia, in edilizia o in politica. Da lui ci si attende che sia esperto nella vita spirituale.[…] Di fronte alle tentazioni del relativismo o del permissivismo, non è affatto necessario che il sacerdote conosca tutte le attuali e mutevoli correnti di pensiero; ciò che i fedeli si attendono da lui è che sia testimone dell’eterna sapienza, contenuta nella parola rivelata» (cpv. 5). Anche recentemente – nel discorso natalizio alla Curia Romana – il Pontefice ha sottolineato fortemente questa configurazione del sacerdote come “uomo di Dio” (1Tm 6,11). «È questo – ha detto – il compito centrale del sacerdote: portare Dio agli uomini. Certamente può farlo soltanto se egli stesso viene da Dio, se vive con e da Dio». Il Pontefice ha illustrato ciò con l’episodio della distribuzione del territorio fra le tribù d’Israele: «Dopo la presa di possesso della Terra ogni tribù ottiene, per mezzo del sorteggio, la sua porzione della Terra santa […] Solo la tribù di Levi non riceve alcun terreno: la sua terra è Dio stesso [cf Dt 10,9]»[1]. Sì, per il sacerdote «il suolo della sua esistenza, la terra della sua vita è Dio stesso»[2]. Avendo presente un tale compito, il Santo Padre, nel citato discorso ai sacerdoti in Polonia, ha sottolineato la necessaria sollecitudine del sacerdote «per la qualità della preghiera personale e per una buona formazione teologica» (cpv. 5). Riguardo alla preghiera ha sottolineato: «Non lasciamoci prendere dalla fretta, quasi che il tempo dedicato a Cristo in silenziosa preghiera sia tempo perduto. È proprio lì, invece, che nascono i più meravigliosi frutti del servizio pastorale. Non bisogna scoraggiarsi per il fatto che la preghiera esige uno sforzo, né per l’impressione che Gesù taccia. Egli tace, ma opera» (cpv. 4). Similmente Giovanni Paolo II, all’inizio del suo Pontificato, ha notato: «Una pausa di vera adorazione ha maggior valore e frutto spirituale della più intensa attività, fosse pure la stessa attività apostolica»[3].
Oggi è molto importante ricordare questo fattore dell’attività pastorale, perché i sacerdoti vengono spesso impegnati in tante attività esterne da non avere più tempo per la preghiera, correndo il grave rischio di rendere vuoto ciò che costituisce l’essenza dell’operosità sacerdotale e disperdendosi in un infruttuoso attivismo. Jean-Baptiste Chautard (1858-1935), a suo tempo noto abate dei Trappisti di Sept-Fons in Francia, ha una volta interpellato un sacerdote sul motivo del crollo del suo sacerdozio e ha ricevuto una paradossale risposta: “C’est le dévouement qui m’a perdu!” (“è lo zelo che mi ha perduto!”)[4]. Sì, uno zelo imprudente, puramente esterno, non radicato nella profonda vita spirituale, può condurre alla rovina della vita spirituale e a rendere inefficace l’attività di un sacerdote. Di fronte alla missione del sacerdote – “uomo di Dio”, strumento nelle mani di Dio – si può rimanere impauriti. Lo nota pure Benedetto XVI: «La grandezza del sacerdozio di Cristo può incutere timore. Si può essere tentati di esclamare con Pietro: “Signore, allontanati da me che sono un peccatore” (Lc 5, 8), perché facciamo fatica a credere che Cristo abbia chiamato proprio noi. Non avrebbe potuto scegliere qualcun altro, più capace, più santo?» (Discorso cit. ai sacerdoti polacchi, cpv. 4).
Mi vengono qui in mente le parole del sacerdote-poeta polacco, recentemente scomparso, Jan Twardowski (1915-2006):
“Del mio sacerdozio ho paura,
il mio sacerdozio mi spaventa,
e davanti al sacerdozio mi prostro a terra,
e davanti al sacerdozio m’inginocchio”[5].
Davanti a un tale timore, il Santo Padre però ci tranquillizza: «Ma Gesù ha fissato con amore proprio ciascuno di noi, e in questo suo sguardo dobbiamo confidare» (Discorso cit. ai sacerdoti polacchi, cpv. 4).
Conclusione
Perché dico tutto questo? Non soltanto per affermare o mettere in luce l’assoluta necessità del sacerdozio ministeriale e la sua specifica configurazione nel mistero della Chiesa, ma avendo davanti agli occhi soprattutto la prospettiva del nostro Convegno, cioè della promozione delle vocazioni sacerdotali. Ci sono qui tanti sacerdoti. Vorrei che prendiate a cuore l’esortazione del Santo Padre: “Credete nella potenza del vostro sacerdozio!” Dalla realizzazione del vostro sacerdozio nel senso indicato dipenderà anche se e quanto saprete aiutare i giovani a scoprire e ad affrontare con entusiasmo la chiamata al sacerdozio. Anche a tutti gli altri qui presenti – persone consacrate e laici – vorrei dire: credete nella potenza del sacerdozio ministeriale! Dalla vostra corretta idea del sacerdozio ministeriale e dalla comprensione del ruolo del sacerdote per la vita della Chiesa, dalla comprensione del suo ruolo per la vostra santificazione e per il vostro apostolato, dipenderà anche la qualità ed efficacia del vostro impegno nella promozione delle vocazioni sacerdotali.
Ma c’è di più: in ordine a promuovere le vocazioni sacerdotali non potete essere insensibili alla necessità di sostenere con la vostra preghiera, con la vostra parola e il vostro incoraggiamento i sacerdoti nella loro retta realizzazione del sacerdozio. Il maligno sa che percuotendo il pastore si disperdono le pecore del gregge (cf Mt 26,31), e si comporta di conseguenza. Il colpo più grave è quello che riguarda la profonda unione con Cristo e il derivante autentico zelo sacerdotale, lontano da un semplice attivismo esterno. Sostenendo i sacerdoti nella loro specifica missione, promuovete con ciò, pur indirettamente, anche le vocazioni sacerdotali. “Credete nella potenza del […]sacerdozio [ministeriale]!” Sì, questa esortazione è importante per ognuno di noi.
Note
[1] “Questa affermazione – prosegue il Papa – aveva certamente un significato del tutto pratico. I sacerdoti non vivevano, come le altre tribù, della coltivazione della terra, ma delle offerte. Tuttavia, l’affermazione va più in profondità. Il vero fondamento della vita del sacerdote, il suolo della sua esistenza, la terra della sua vita è Dio stesso. La Chiesa, in quest’interpretazione anticotestamentaria dell’esistenza sacerdotale – un’interpretazione che emerge ripetutamente anche nel Salmo 118 (119) – ha visto con ragione la spiegazione di ciò che significa la missione sacerdotale nella sequela degli Apostoli, nella comunione con Gesù stesso. Il sacerdote può e deve dire anche oggi con il levita: “Dominus pars hereditatis meae et calicis mei”. Dio stesso è la mia parte di terra, il fondamento esterno ed interno della mia esistenza”. Tale impostazione del sacerdozio, ha aggiunto Benedetto XVI, è di una attualità vitale: “Questa teocentricità dell’esistenza sacerdotale è necessaria proprio nel nostro mondo totalmente funzionalistico, nel quale tutto è fondato su prestazioni calcolabili e verificabili. Il sacerdote deve veramente conoscere Dio dal di dentro e portarlo così agli uomini: è questo il servizio prioritario di cui l’umanità di oggi ha bisogno. Se in una vita sacerdotale si perde questa centralità di Dio, si svuota passo passo anche lo zelo dell’agire. Nell’eccesso delle cose esterne manca il centro che dà senso a tutto e lo riconduce all’unità. Lì manca il fondamento della vita, la terra, sulla quale tutto questo può stare e prosperare”.
[2] Cf il testo della nota precedente.
[3] Ai Superiori Generali, 24 novembre 1979, n. 4b.
[4] Cf. J. B. CHAUTARD, L’Ame de tout Apostolat, Paris 161941, p. 76.
[5] In J. TWARDOWSKI, Wiersze 1937-2000, ha raccolto A. Iwanowska, vol. I, Pozna, 22002, 35. Questa poesia, del 1948, si trova anche in diverse altre collezioni delle poesie di Jan Twardowski).