Il presbitero per una chiesa ricca di vocazioni
La prima, fondamentale vocazione, comune a tutti gli uomini, è quella di “diventare uomini”. L’affermazione può sembrare lapalissiana, ma in realtà suppone un modo preciso di interpretare la condizione umana. Abbiamo ricevuto ontologicamente la natura umana dal primo momento del nostro concepimento; ma, se vogliamo comprendere correttamente quello che siamo, non ci possiamo fermare qui: sia il santo che l’egoista possiedono la natura umana, ma in modo diverso; siamo uomini quando dormiamo e quando siamo svegli, ma in modo diverso: il sonno ci è comune con gli altri animali, ma l’esistenza responsabile di quando siamo svegli appartiene propriamente a noi. Caratteristica della natura umana è quella di essere un progetto aperto, incompleto, che si costruisce progressivamente, attraverso molteplici scelte e comportamenti; come una scultura che l’artista, col suo lavoro, fa uscire poco alla volta dal marmo; come un romanzo che si sviluppa capitolo dopo capitolo e che solo alla fine svela il suo pieno significato. Nasciamo “uomini”, ma proprio per questo lo dobbiamo diventare; dobbiamo, cioè, dare alla nostra vita una forma quanto più possibile “umana”, tale da esprimere in modo personale e creativo i valori più degni dell’uomo (come la giustizia, la sincerità, la fedeltà – in una parola: l’amore). Poiché siamo uomini, dobbiamo imparare a entrare in rapporto con la realtà così come essa è, col massimo di intelligenza e di ragionevolezza. “Abbiate sale in voi stessi” ci esorta il Vangelo (Mc 9,50); e san Paolo esortava i Corinzi: “Non comportatevi da bambini nei giudizi; siate come bambini quanto a malizia, ma uomini maturi quanto ai giudizi.” (1Cor 14,20). Poiché siamo uomini, dobbiamo imparare a decidere e ad agire in base alla bontà delle cose e non all’interesse privato (“fuggite il male con orrore – scriveva san Paolo – attaccatevi al bene”, Rm 12,9); poiché siamo uomini, dobbiamo giungere ad amare e cioè ad andare oltre l’istinto di autodifesa, per prenderci cura gli uni degli altri (“Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro”, Mt 7,12: questa è la “regola d’oro” che deve plasmare i nostri comportamenti). Questa, come dicevo, è la vocazione fondamentale alla quale nessuna persona umana può sfuggire; è una vocazione iscritta nella struttura stessa della nostra appartenenza alla famiglia umana.
L’unica questione che si potrebbe realmente porre è se questo dinamismo insito in ogni persona umana possa essere chiamato “vocazione” o debba essere indicato con altri termini, come, ad esempio: destino, condizione, progetto. Per un credente non ci sono dubbi: Dio stesso ha creato l’uomo così e quindi questo dinamismo aperto alla realtà appartiene al disegno di Dio sull’uomo; vivere consapevolmente questo dinamismo è la risposta dell’uomo, come creatura, alla volontà/desiderio di Dio come creatore. “Dio disse: facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza… Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò… Dio disse: siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra…” Così il libro della Genesi (1, 26-28). All’origine sta una parola di Dio che dà vita e consegna un compito; tutto lo sforzo che l’uomo compie per diventare uomo maturo e responsabile è risposta a questa chiamata, è vita vissuta come vocazione.
M’interessa porre questo fondamento – che potrebbe sembrare astratto o generico – per due motivi: anzitutto perché mi aiuta a considerare come risposta alla vocazione di Dio tutto l’immenso sforzo che l’uomo ha fatto nel suo cammino sulla terra: tutte le creazioni culturali, il linguaggio, l’arte, la scienza, le istituzioni umane… tutto questo patrimonio bello e terribile che sorge dalla storia umana. A volte si è trattato di risposte corrette (nella virtù, fino alla pienezza della santità), a volte di risposte disarmoniche che non rispondono davvero a Dio e rendono più difficile e sofferto il cammino dell’uomo (il peccato). In ogni modo, tutta la storia umana può essere letta come espressione di quell’impulso al confronto con la realtà, che l’uomo porta inevitabilmente in sé per volere di Dio, una chiamata iscritta nella sua carne e nel suo sangue, nella sua anima, con tutti i desideri che la abitano. In secondo luogo, sono convinto che anche la vocazione al presbiterato ha un futuro se appare come una stupenda realizzazione della vocazione umana e se il suo esercizio viene compreso e vissuto come modo ricchissimo di “umanizzare” la propria vita. È la qualità “umana” dei preti che può diventare testimonianza e forza di attrazione. Se i giovani hanno l’impressione di diventare “meno uomini” facendo il prete, riusciremo ad attirare solo persone psicologicamente deboli, che cercano nel sacerdozio un rifugio o una forma di realizzazione sociale.
Non possiamo fermarci a considerare tutti gli elementi che fanno parte di questa vocazione generale dell’uomo; ma possiamo sintetizzare tutto quanto ci sarebbe da dire in un’unica affermazione: che la vocazione dell’uomo è quella di tendere verso l’amore per Dio “con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze”. In questo primo e fondamentale comandamento della legge sono compresi tutti gli altri; non nel senso che, fatto questo, gli altri comandamenti siano superati e diventino irrilevanti; ma nel senso che se qualcuno ama Dio in questo modo, compie anche tutte le altre esigenze della vocazione umana. Amare Dio in questo modo, infatti, richiede di amare anche tutte le persone; anzi, di amare la creazione stessa in quanto creazione di Dio, “buona” ai suoi occhi. Non si può amare Dio e rifiutarsi di amare i fratelli; non si può amare Dio e disprezzare la sua creazione. Qui è nascosto il fascino di una persona come san Francesco, che ci appare proprio come l’uomo trasfigurato dall’incontro con Cristo, diventato capace di amare tutti e tutto: anche il lebbroso, che pure istintivamente gli faceva ribrezzo; anche il lupo, che pure rappresenta una minaccia per l’uomo; anche l’acqua, il fuoco, i fiori, l’erba, che pure sono solo “cose”; addirittura, se l’inten-diamo nel modo corretto, capace di amare anche la morte del corpo come una “sorella” che, con tutto il suo corredo di paura, entra tuttavia nel compimento dei giusti disegni di Dio. Amare in questo modo significa vedere l’impronta di Dio ovunque e quindi vivere sempre da riconciliati. Certo, dell’esperienza dell’uomo fanno parte anche la stupidità e la cattiveria; e stupidità e cattiveria non possono, non debbono essere amate. Tuttavia anche stupidità e cattiveria non sono tali da deformare irrimediabilmente l’immagine del mondo; siamo convinti che Dio sa trarre il bene anche dal male; che sa trasformare anche il peccato dell’uomo in occasione di perdono e quindi di amore. Così è avvenuto in modo eminente nella morte di Gesù. E se Dio è stato capace di trasformare il peccato oggettivamente più grave che si possa pensare in redenzione, riconciliazione e salvezza, sarà capace di fare lo stesso anche per ogni altro comportamento stolto o cattivo dell’uomo.
Dunque l’amore “con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze”, questo amore che Dio solo è degno di ricevere, porta a pieno compimento la vocazione di ogni uomo, sempre. Possiamo sviluppare il discorso così: amare Dio richiede di amare anche le creature e in particolare quella creatura che porta impressa in sé la somiglianza con Dio: l’uomo. Amare l’uomo significa operare in modo responsabile, non in vista del proprio vantaggio privato, ma cercando quello che è realmente bene. Scegliere responsabilmente il bene, però, richiede di conoscerlo oggettivamente, in modo da non confondere mai il bene con il proprio interesse (se, infatti, valutiamo il mondo col metro del nostro vantaggio, secondo i nostri desideri o le nostre paure, i giudizi e i comportamenti saranno necessariamente egoistici). Infine, se voglio giudicare oggettivamente debbo accostare i dati della realtà con lealtà e apertura: se mi nascondo alcuni dati perché mi danno fastidio, il giudizio non potrà che essere alterato. Insomma, l’amore per Dio come Dio suppone e porta a compimento tutto il cammino di crescita dell’uomo, il suo dinamismo di superamento di sé e di accostamento leale alla realtà e agli altri: percezione, comprensione, giudizio, decisione, azione, amore.
Su questa premessa desidero collocare il problema del “presbitero in una chiesa ricca di vocazioni”, come recita il titolo della relazione che mi è stata affidata. Mi sono posto due domande: come deve essere il prete perché il suo ministero possa aiutare le persone a vivere un autentico cammino vocazionale? E cosa può fare un prete per svolgere nel modo migliore questo servizio? Articolerò dunque la riflessione in due momenti: il prete come discepolo di Gesù che realizza la sua vocazione all’amore attraverso il servizio pastorale alla comunità cristiana, secondo la missione ricevuta dal Signore; e il prete come educatore, che deve svegliare e dirigere le persone verso il discernimento e il compimento della loro vocazione. Come vedrete, le risposte che darò sono parziali; non dirò tutto. Spero solo di dire qualcosa che serva a suscitare ulteriori riflessioni.
Il compimento della vita umana – come abbiamo detto – è lo stesso per tutti: l’amore che si apre fino a quel Dio che è degno di essere amato non solo secondo giusta misura (come è vero per ogni creatura), ma in modo assoluto e totale (come è vero per lui solo). Ciascuno realizza questa vocazione comune in un modo originale e creativo: quello che corrisponde alla sua identità personale. Attraverso il matrimonio, la professione, i legami di amicizia, la partecipazione alla vita economica, civile, politica, la cultura, l’arte… insomma, attraverso tutte quelle espressioni che costruiscono la cultura umana.
Un medico, per esempio, realizza il suo amore per gli altri operando per la loro salute fisica e psichica; un insegnante lo fa trasmettendo il patrimonio della cultura, convinto che questo patrimonio sia indispensabile per vivere in modo umano; un architetto cerca le soluzioni migliori per offrire all’uomo un ambiente di abitazione nel quale egli possa sentirsi a suo agio e così via. Ogni attività umana, se non è un’attività disonesta, contribuisce alla vita della comunità degli uomini e quindi può essere un atto di amore. Naturalmente, perché il lavoro sia configurabile come amore si richiedono due condizioni: la prima è che oggettivamente il lavoro dia un contributo positivo alla vita di tutti; di qui l’importanza della competenza, dell’aggiornamento continuo e anche dell’efficienza (che è cosa diversa dall’ideologia dell’efficientismo). In secondo luogo si richiede che il lavoro sia personalmente motivato da un sincero amore per le persone; la presenza di questo amore si riconosce nello stile costante della persona, nel suo modo di accostare gli altri, di parlare, di scegliere; e si riconosce nella disponibilità ad andare oltre le prestazioni richieste dal protocollo lavorativo, per immettere nel lavoro valori umani gratuiti, come la pazienza, l’affabilità, l’umiltà.
Ebbene, il prete compie questa medesima maturazione attraverso il dono di sé nel servizio pastorale e cioè in quella forma di amore che lo porta a spendersi per la vita e per il bene della Chiesa, nel servizio appassionato delle persone e delle comunità cristiane. Questo suppone, naturalmente, che il prete creda nell’importanza di quello che fa per il bene delle persone; solo così l’impegno della sua vita può configurarsi come un atto di amore. Pensate a Paolo che scrive ai cristiani di Corinto: “Sempre, noi che siamo vivi, veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne mortale; di modo che in noi opera la morte ma in voi la vita” (2Cor 4,11s). Il prezzo che Paolo paga per esercitare il suo ministero di apostolo è altissimo: egli, infatti, si espone consapevolmente alla morte, accetta di essere considerato come “la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti” (1Cor 4,13). Può agire così perché è convinto di procurare in questo modo la “vita” ai Corinzi; per un obiettivo così alto vale la pena mettere in gioco tutto. La vita dei Corinzi è così preziosa da giustificare l’accettazione di un processo di necrosi (“in noi opera la morte”) che condurrà l’Apostolo fino alla morte (attraverso la dedizione del ministero ma, forse, anche attraverso la dedizione del martirio), ma che produrrà nei cristiani di Corinto la pienezza della vita.
Una vocazione presbiterale può sorgere solo dove si ritiene che il ministero del prete sia indispensabile per la Chiesa e, conseguentemente, prezioso per il mondo stesso, per la società. Chi pensasse, infatti, che l’uomo può vivere in pienezza senza Cristo e quindi senza il Vangelo e i Sacramenti, o addirittura pensasse che questi sono vincoli posti allo sviluppo della libertà della persona, non potrebbe pensare alla vita spesa per il Vangelo come a una scelta di amore, fatta in vista del bene degli altri. Potrebbe forse diventare ugualmente prete, ma per motivi “mondani”, come quello della sicurezza economica o di un certo riconoscimento sociale. Questo è uno dei punti delicati su cui la nostra pastorale vocazionale è in affanno. Viviamo in un contesto pluralistico nel quale diverse strade possibili vengono proposte alla libera scelta delle persone come equivalenti; tocca alla libertà delle persone scegliere tra l’una o l’altra offerta, secondo criteri soggettivi di valore; scelgo la strada che corrisponde meglio ai miei desideri e ai miei bisogni, soprattutto psicologici. Ma una visione del genere non riesce a giustificare una vocazione come quella del prete. Per fondare una simile vocazione è necessario che il ministero del prete sia percepito come un servizio indispensabile alla Chiesa (cioè ai battezzati) e utile al mondo (cioè a tutti gli uomini). Mi fermo, perciò, un attimo a richiamare alcuni punti che mi sembrano preziosi per collocare la nostra identità di preti.
Come preti ci viene chiesto di annunciare con autorevolezza l’amore di Dio per noi, convinti che senza questo amore l’uomo non può vivere in pienezza la sua esistenza umana. Se all’origine del mondo in cui viviamo non sta l’amore di un Dio che ci ha pensato e voluto, la nostra esistenza del mondo rimane inevitabilmente afferrata tra la paura e la seduzione. La paura: perché il mondo è immensamente più grande di me e mi può schiacciare in ogni momento; perché la storia è ambigua e mi posso scontrare in ogni momento con la forza oppressiva del male; perché la mia vita è segnata dalla debolezza e non posso liberarmi dalla paura della morte, della malattia, della vecchiaia, della debolezza in genere. La seduzione: perché il mondo può offrirmi tutta una serie di gratificazioni – fisiche, psicologiche, sociali – a condizione che io mi conformi alla logica mondana, che è logica di possesso, di potere e di successo. Impauriti e sedotti, ricattati a partire dalla paura: questa è la nostra condizione nel mondo. Annunciare l’amore di Dio significa offrire all’uomo un fondamento sul quale radicare la propria esistenza e a partire dal quale rapportarsi al mondo con libertà, senza avere troppa paura (poiché il Signore del mondo e della storia è l’Emmanuele, il “Dio con noi”) e senza lasciarsi sedurre (poiché la promessa di Dio è più grande di tutto ciò che il mondo può offrirmi).
Annunciare l’amore di Dio (cioè Cristo, il Vangelo) è oggettivamente un gesto di amore, perché dona all’uomo ciò di cui l’uomo ha assoluto bisogno per vivere con libertà la sua esistenza nel mondo. E siccome la libertà è una qualità indispensabile per un’esistenza autenticamente umana, l’annuncio dell’amore di Dio è attività attraverso la quale permetto all’uomo di vivere “da uomo”; esattamente quello che intendiamo con atto di amore. Ma su quale base posso fare all’uomo quest’annuncio? Sulla base della mia riflessione personale? Così sarebbe se io fossi un filosofo; se, dopo aver studiato e riflettuto sul senso del mondo e della storia, avessi raggiunto questa stupenda conclusione: all’origine del mondo sta un principio di amore che sostiene ogni cosa. Ma, se le cose stessero in questo modo, potrei solo offrire la mia risposta come ipotesi, in mezzo ad altre diverse visioni del mondo. Potrei invitare tutti a fidarsi dell’amore, ma dovrei lealmente aggiungere: questa è la mia opinione, fondata su una seria ricerca e una riflessione approfondita; ma non posso dare una garanzia ultima, perché non mi è dato di raccogliere ed esaminare tutti i dati che sarebbero necessari per fondare una conclusione definitiva. Per questo è fondamentale intendere il ministero del prete come una missione, cioè come un incarico che gli è stato affidato e che egli compie con l’autorità di colui che lo manda: nel nostro caso, di Cristo. All’origine del nostro ministero sta l’esperienza di Gesù: egli “sa” che Dio è amore, ha vissuto la fiducia radicale in questo amore, è stato risuscitato dall’amore del Padre e ha mandato i suoi discepoli a trasmettere agli uomini non solo la notizia che Dio è amore, ma l’esperienza di essere amati da Dio come suoi figli. Le parole di missione (“Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”) si legano strettamente con la comunicazione dell’amore: “Come il Padre ha amato me, anch’io ho amato voi; rimanete nel mio amore”. Per questo il ministero del prete è legato a un’ordinazione e si presenta chiaramente come “vocazione e missione”, incarico ricevuto attraverso una chiamata e un’istituzione.
Questo dice chiaramente che il ministero del prete suppone l’esperienza dell’amore di Dio; non solo la conoscenza intellettuale della dottrina sull’amore di Dio, ma un’esistenza che è stata toccata e trasformata da questo amore. Non pretendo, naturalmente, un’esperienza come quella di santa Caterina da Siena o di santa Teresa d’Avila. Ma è necessario che ci siano nella vita del prete delle scelte o delle esperienze che sono state prodotte dall’incontro con Dio e con il suo amore; che, a motivo di questo incontro, qualcosa sia cambiato; e che il cambiamento sia stato sorgente di gioia, percezione di un arricchimento della propria vita. Altrimenti le parole rimangono solo veicolo di idee, non di vita. Il prete deve poter dire – in modo veritiero – quello che dice Giovanni: “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita… lo annunciamo anche a voi perché anche voi siate in comunione con noi. Ma la nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo” (1Gv 1,1.3).
Una seconda riflessione per comprendere il valore del servizio presbiterale la prendo dalla Lettera agli Efesini che, dopo aver proclamato Cristo risorto e glorificato come sorgente viva di un processo di trasformazione del mondo (la lettera parla di “riempire tutte le cose” e cioè portare a compimento il progetto di Dio su tutto quanto esiste), dice che egli “ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come pastori e maestri, per rendere idonei i fratelli a compiere il ministero, al fine di edificare il corpo di Cristo” (Ef 4,11). L’autore sembra dunque distinguere un duplice livello di ministero. C’è una vocazione che appartiene a “tutti i fratelli” e questa consiste nell’edificare il corpo di Cristo; c’è invece un ministero specifico (qui vengono ricordati alcuni ministeri legati soprattutto all’annuncio della Parola, ma si tratta evidentemente solo di esempi) che serve a “rendere idonei i fratelli” per realizzare la loro vocazione.
C’è un compito che coinvolge tutti, come dicevo: edificare il corpo di Cristo. Se col termine corpo s’intende la presenza concreta di un soggetto nel mondo e l’azione con la quale egli opera nella storia ed entra in relazione con gli altri, si capisce di cosa stiamo parlando. Tutti i credenti, insieme, edificano il corpo di Cristo e cioè immettono nella realtà del mondo e della storia frammenti di esperienza che hanno la forma di Gesù Cristo, in modo che Cristo sia presente e possa essere incontrato da tutti esattamente in questi frammenti di mondo trasfigurato. San Giovanni ricorda in modo esplicito due dimensioni attraverso cui gesti e azioni umane assumono la forma di Cristo: l’amore e l’unità. Si pensi, infatti, alla sua formula: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35) e l’altra: “siano anch’essi [i discepoli] in noi [cioè in Cristo e nel Padre] una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17,21). Dunque, dove la stoffa dell’esistenza umana viene trasformata dall’amore e dalla comunione, lì il mondo assume la forma di Cristo, lì viene edificato il corpo di Cristo. Così afferma Giovanni; ma il discorso può facilmente essere allargato. Si pensi a Paolo quando scrive: “Vivo, non più io; vive in me Cristo. Questa vita che vivo nella carne la vivo nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). La vita concreta di Paolo è così profondamente penetrata dalla presenza di Cristo che Cristo vive in lui; l’esistenza di prima, ripiegata su se stessa, è eliminata ed emerge uno stile nuovo di vita, tanto che chi incontra Paolo incontra Cristo – dunque Paolo è realmente “corpo di Cristo”. Il senso è chiaro: i comportamenti nei quali s’imprime lo stile del Vangelo “edificano il corpo di Cristo”, rendono Cristo visibile nel mondo. Ebbene, dice la Lettera agli Efesini che i ministeri ecclesiali sono necessari perché i credenti possano operare questa trasformazione della loro vita in Cristo e quindi possano compiere l’edificazione del corpo di Cristo. Non si tratta, infatti, di un’attività che l’uomo possa realizzare con l’impiego solo delle sue proprie doti intellettuali o morali. La “forma” di Cristo è quella presente nella sua Parola e nei Sacramenti. Ci vuole dunque qualcuno che annunci la Parola e celebri i Sacramenti per mandato del Signore, perché lì i credenti possano attingere la forma e la forza necessarie per realizzare la loro vocazione. Insomma: la vocazione del prete (semplifico, evidentemente) c’è per rendere possibile il compimento di tutte le altre vocazioni. Anche qui vale il discorso di Paolo: rinuncio a me stesso (porto nel mio corpo la morte) perché voi possiate rispondere in pienezza a Cristo (perché voi viviate).
Tutto questo lungo discorso per dire una cosa in fondo semplice, ma che mi sembra decisiva: il prete compie bene il suo ministero solo se porta in sé un’autentica passione per le persone, il desiderio che le persone crescano e diventino libere, capaci di amare, capaci di compiere fino in fondo la loro vocazione in Cristo. Deve desiderare, il prete, che tutti i battezzati portino la forma di Cristo. Deve parlare come Paolo che scrive ai Galati: “Figliolini miei, che io partorisco di nuovo nel dolore finché non sia formato Cristo in voi!” (Gal 4,19). Innamorati delle persone, dunque, capaci di intravedere con gioia e con desiderio quello che le persone sono, quello che possono diventare, quello che Dio desidera che diventino; disposti a mettere in gioco la loro vita perché la vita degli altri sia “al massimo”. Forse l’espressione non è precisissima, ma credo indichi bene il movimento di un cuore sacerdotale.
Nello stesso tempo questo incarico del prete suppone in lui un autentico, personale, profondo amore per Gesù. Ce lo dice con tutta la chiarezza desiderabile lo stupendo brano di Gv 21, nel quale il Signore risorto affida a Pietro la cura pastorale delle sue “pecore”, ma solo dopo avergli fatto fare per tre volte (quindi in modo consapevole, senza incertezze) una professione di amore: “Simone di Giovanni, mi ami?… pasci le mie pecore!” L’imperativo “pasci!” significa: conduci le mie pecore ai pascoli abbondanti e procura loro il riposo necessario; difendile dai pericoli; cercale quando si smarriscono, curale quando sono malate… insomma: metti le tue forze al servizio del mio gregge, perché viva. Questo significa in concreto: ama le mie pecore! È quello che abbiamo tentato di esporre sopra.
Ma questo amore per le pecore del gregge è sostenuto dall’amore per l’unico, vero pastore: Gesù. Si tratta, infatti, di pascere le pecore “di Gesù”, non le pecore di Pietro. Pietro non ne è proprietario né diventa il loro proprietario. Le pecore appartengono a Cristo e rimangono di Cristo; anzi, tutto il servizio di Pietro è per garantire a Cristo di rimanere proprietario delle pecore, per fare in modo che nessuno surrettiziamente gliele rubi o le ferisca. Pietro non ricaverà guadagni personali dal suo servizio – né carne, né latte, né lana – né cercherà gratificazioni psicologiche usando mezzi impropri. Come Giovanni Battista dovrà dire: “Chi possiede la sposa è lo sposo; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è compiuta. Egli deve crescere e io invece diminuire” (Gv 3,29s). Un simile disinteresse suppone necessariamente un amore effettivo a Gesù, che garantisce almeno due cose. Anzitutto che il servizio sia vissuto col necessario disinteresse. Viene istintivo all’uomo cercare una realizzazione o un vantaggio personale in ciò che fa. L’amore per Gesù è liberante; libera dal rischio di appropriarsi delle pecore per sentirsi ricchi o di prevaricare sulle pecore per sentirsi forti e potenti. Vengono qui preziose alcune parole di Paolo. Quando, ad esempio, scrive ai Corinzi: “Noi non predichiamo noi stessi ma Cristo Gesù Signore; quanto a noi, siamo i vostri servitori per amore di Gesù” (2Cor 4,5). E cioè: il nostro servizio è disinteressato, proprio perché è motivato dall’amore per Gesù; per questo “non vogliamo fare da padroni sulla vostra fede, ma solo essere collaboratori della vostra gioia” (2Cor 1,24). E ancora: “Non è il vostro dono che io ricerco, ma il frutto che ridonda a vostro vantaggio” (Fil 4,17). Più volte san Paolo insiste sul disinteresse con cui egli ha esercitato il suo ministero, rinunciando anche a veri e propri diritti per non creare inciampi al Vangelo. E non è il disinteresse dell’apatico. Paolo è profondamente appassionato e ama con tutto il cuore le sue comunità; ma ama prima di tutto Cristo e questo amore per Gesù determina le caratteristiche fondamentali del suo ministero.
In secondo luogo l’amore per Gesù garantisce l’universalità dell’amore. Dovessi muovermi secondo i miei impulsi, rischierei probabilmente di distinguere le persone secondo che mi appaiano o no degne del mio servizio; rischierei di operare solo là dove il riconoscimento o il ritorno è più probabile. L’amore per Gesù libera da favoritismi e permette di mettersi gioiosamente al servizio di tutti.
Vorrei mettere sotto questo capitolo dell’amore personale per Gesù anche la riflessione sul celibato, sulla povertà del prete, sulla sua appartenenza a un presbiterio e la conseguente obbedienza al vescovo. Sono tutte scelte che hanno una dimensione funzionale e cioè servono a rendere efficace il ministero ma, mi sembra, sarebbe riduttivo motivarle solo in questo modo. Quando Gesù dice all’uomo ricco che vuole ottenere la vita eterna: “Va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri… poi vieni e seguimi” (Mt 19,21), certo la povertà ha un valore funzionale (libertà per potere seguire Gesù), ma non solo. C’erano altre possibilità per liberarsi dall’impegno immediato della gestione dei beni senza necessariamente darli in elemosina. Quello che viene chiesto è un gesto radicale che mette in questione tutto, proprio perché seguire Gesù “vale tutto”. La cosa è ancora più chiara per il celibato. Sarebbe davvero incomprensibile un celibato motivato solo dalla maggiore disponibilità di tempo per il ministero. Mentre al contrario il celibato è comprensibile nella logica di mettere in gioco tutto per quel Regno (cioè Dio stesso), che la sequela di Gesù ci permette di servire (e amare) con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Ogni tanto ritorna, sui mezzi di comunicazione, il problema della possibilità di un presbiterato uxorato. Il rischio è che il problema giuridico-pastorale diventi dominante, mentre i problemi più importanti stanno a monte: è possibile vivere il celibato come scelta non mortificante, ma che arricchisca la propria capacità di amare? Che senso ha la parola di Gesù: “Vi sono alcuni che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli” (Mt 19,12)? E in che modo è possibile cogliere questa potenzialità di una scelta di celibato? Il vero problema è sapere se il celibato può essere una forma di vita nella quale l’amore per Gesù e l’amore per l’uomo possono esprimersi e dilatarsi in pienezza; e in caso positivo, come questo possa avvenire.
Lo stesso va ricordato per l’obbedienza. Naturalmente l’obbedienza al vescovo è necessaria perché il vescovo possa provvedere alla cura pastorale di tutta la diocesi. Ma questo non è tutto. Prima ancora di questo sta il senso di fare parte di un presbiterio dove tutti i preti, attorno al vescovo, costituiscono un vero soggetto responsabile in solido della cura pastorale. Da questa comunione, che deve essere immagine della comunione divina, discendono anche gli impegni di obbedienza. L’obbedienza è quindi anzitutto un gesto di amore e di comunione; solo in seconda battuta è un gesto funzionale al buon andamento della macchina diocesana.
Da questa radice, che è l’amore personale per Gesù, vengono motivate la presidenza dell’Eucaristia, la celebrazione del perdono, l’annuncio del Vangelo e la catechesi, la creazione di una rete solida di carità che unisca tutti i credenti… insomma, tutte le dimensioni della pastorale. Potremmo mettere le cose così: il presbitero serve le persone della comunità cristiana amandole con l’amore che viene da Gesù; proprio perché ama ciascuna persona, desidera che ciascuno giunga alla pienezza della sua vocazione imparando ad amare Dio e il prossimo. D’altra parte, è convinto che i cristiani, per riuscire ad amare con tutto il cuore, hanno bisogno di Cristo, di poterlo incontrare e toccare, di ricevere da lui la forza per superare il proprio egocentrismo e proiettarsi nella grande, ma difficile, avventura dell’amore autentico. Per questo il prete spende la vita per permettere a tutti di incontrare Cristo oggi e di sperimentare la gioia di essere amati da lui.
Possiamo dire allora che la vocazione del prete si esprime unendo la vocazione ad amare, che è propria di ogni uomo, con quella di seguire Gesù Cristo. È l’amore per Gesù che motiva la vita del prete e le dà le sue dimensioni caratteristiche: il distacco, la disponibilità al sacrificio, l’attenzione alle persone…
La seconda dimensione che vorrei ricordare è quella del prete come suscitatore di vocazioni e in particolare di vocazioni al sacerdozio. Che cosa significa? E come fare in concreto? L’obiezione che verrebbe spontanea è che per definizione la vocazione viene da Dio e quindi l’uomo non può esserne l’origine. Quale può essere allora l’attività del prete in questo delicato e difficile campo?
Credo che la prima responsabilità sia quella di suscitare nei giovani la consapevolezza della loro vocazione all’amore e cioè della responsabilità che hanno di maturare umanamente. Senza questa apertura è difficile che possa fiorire una qualsiasi vocazione; e quelle che sembrano fiorire non sono sufficientemente “sane”. Può accadere, ad esempio, che qualcuno desideri diventare prete per raggiungere una sicurezza economica o sociale, o per raggiungere un posto che appare attraente. Accade che proprio persone psicologicamente deboli s’innamorino della figura esterna del prete e che per questo tendano a diventarlo; ma, evidentemente, in questo caso non siamo di fronte a vocazioni autentiche. Non voglio entrare nei dettagli, ma direi almeno così: occorre educare i giovani ad incontrare correttamente la realtà, quindi ad amarla, ad accettare lealmente le situazioni e le persone, senza deformare la percezione delle cose secondo le proprie paure o i propri interessi; educare a fare scelte responsabili, che nascono dalla percezione corretta del bene; educare all’amore e cioè ad andare oltre se stessi, per incontrare davvero gli altri con le loro caratteristiche e con la loro necessità; trasmettere ai giovani la voglia di vivere, non nel senso di un vitalismo anarchico, ma nel senso di una crescita perseverante e consapevole verso una conoscenza sempre più vera della realtà e verso un amore sempre più pulito, disposti ad imparare sempre, a lasciarsi istruire e correggere dalla realtà stessa.
Il secondo elemento decisivo per far maturare vocazioni è l’aiuto ad incontrare il Cristo vivente. “Io ero morto – proclama Cristo a Giovanni nell’Apocalisse – ma ora vivo per sempre” (Ap 1,18). È proprio questo Cristo vivente che un giovane deve incontrare, se vuole che la sua esistenza diventi risposta a una chiamata che viene da Dio. Come Paolo, che è stato raggiunto da Gesù sulla via di Damasco e da allora non riesce a pensare la propria vita se non come un correre dietro a lui per poterlo raggiungere (cf Fil 3,4ss). E qui gli strumenti sono ben noti.
Il primo è naturalmente il Vangelo e, attorno al Vangelo, tutta la Bibbia. Gesù è il Verbo di Dio fatto carne; ogni parola di rivelazione, dunque, dice qualcosa di lui, del Verbo. Ma nella Bibbia la parola di Dio ha preso una forma “canonica” e cioè normativa, tale da diventare misura e criterio per ogni altra manifestazione di Dio nel mondo. Bisogna dunque aiutare i giovani ad accostare la Bibbia come libro, per poi ascoltarla come parola di un vivente e infine, attraverso quella parola, entrare in relazione col Vivente. In questa relazione intima, personale e coinvolgente si può sviluppare quel dialogo che porta a interpretare e vivere la propria esistenza come risposta a Cristo. Credo che un posto significativo abbia in questo itinerario la pratica della lectio divina e cioè quel modo di accostare la Parola che da una parte è profondamente attento al testo e dall’altra vi trova la presenza di Dio attraverso la preghiera. Bisogna che la Parola diventi una compagnia familiare, tanto da plasmare desideri e pensieri, da muovere decisioni e comportamenti. Questo, infatti, diventa il criterio decisivo: se l’ascolto della Parola produce comportamenti effettivi, proprio questi comportamenti, con i loro effetti sulla persona che li vive, diventeranno la prova migliore che quella è “parola di vita”. Mi spiego meglio: leggo nel Vangelo l’invito a non preoccuparmi per il domani, ma a collocare la mia fiducia filiale nell’amore del Padre. Ascolto questa parola e cerco di comprenderne il significato: capisco che non mi sta chiedendo un comportamento stupido, che si rifiuta di vedere le difficoltà del presente; nemmeno mi viene chiesto un comportamento inerte, che rifiuta di impegnarsi seriamente nel lavoro e nella preparazione del futuro. Capisco che, invece, la Parola mi chiede quella fiducia che esclude la paura paralizzante o la presunzione di chi si crede autosufficiente. Cerco allora di vivere così, con la fiducia attiva del figlio che fa tutto sotto lo sguardo del Padre. Ebbene, proprio l’esperienza di obbedienza alla Parola diventerà la sorgente della mia sicurezza interiore. Mi renderò conto, infatti, che proprio in questo modo la mia esistenza matura, diventa più salda, più capace di rischiare il gesto del dono, più aperta agli altri e così via. Insomma, comprenderò per esperienza che la Parola ha una forza umanizzante; che quando la frequento e la vivo ne esco più uomo, più desideroso e capace di amare. Potrò dire, come il cieco guarito: “Se Gesù sia un peccatore, non lo so; una cosa so: che prima ero cieco e adesso ci vedo” (Gv 9,25).
Il secondo campo dell’incontro con Gesù vivente sono i Sacramenti e, in particolare, quel sacramento dell’Eucaristia che accompagna tutta l’esistenza del cristiano. Qui obbediamo al comando del Signore: “Prendete e mangiate, è il mio corpo per voi… prendete e bevete, è il mio sangue per voi… fate questo in memoria di me”. Non c’è, naturalmente, un’esperienza di intimità così intensa come quella che si esprime nei gesti del mangiare e del bere. Una sola osservazione: l’Eucaristia contiene la vita di Cristo spezzata e donata per noi; il contenuto di questo dono è naturalmente la passione e la croce. Ma non solo: in quel pane spezzato ci è offerta tutta la vita di Gesù, dal primo istante all’ultimo. L’Eucaristia contiene dunque tutto quello che Gesù è stato, le sue parole e i suoi gesti, le relazioni che ha intessuto e le sofferenze che ha sopportato. È con questo Cristo integrale che entriamo in comunicazione. Anche qui diventa essenziale legare la partecipazione all’Eucaristia con la vita quotidiana. Teoricamente non è complicato: l’Eucaristia è vita spezzata e donata; “fare lo stesso” significa spezzare la propria vita e donarla. Detto con le parole della prima lettera di Giovanni: “Da questo abbiamo conosciuto l’amore: egli ha dato la vita per noi [questo è il contenuto dell’Eucaristia]; quindi [Giovanni sta tirando le conseguenze da quanto ha affermato] anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli” (1Gv 3,16). La logica è stringente. Ripeto quello che ho detto sopra: chi prova a vivere questo contenuto dell’Eucaristia e si lascia afferrare dal suo dinamismo capirà se essa è solo un rito consolatorio o se è invece un’esperienza che libera ed esalta l’umanità dell’uomo. Freud diceva che la religione nasce dalla nevrosi ed è un modo per controllare la nevrosi stessa. Io la penso in modo molto diverso. Ma non basta che io pensi diversamente da Freud: devo mostrare che io ho ragione e lui torto. E l’unico modo per mostrarlo è quello di vivere un’esistenza religiosa matura e maturante.
Infine, il terzo ambito nel quale l’incontro con Gesù è possibile è quello dei rapporti umani. Ricordate le parole del cap. 25 di Matteo: “Quello che avete fatto al più piccolo di questi miei fratelli l’avete fatto a me; quello che non avete fatto… non l’avete fatto a me”. È un invito a vedere con occhi nuovi le persone. E anche qui viene da dire: prova, poi mi dirai. Credo che l’esperienza della vocazione al presbiterato faccia fatica a maturare se non si è imparato un modo evangelico di accostare le persone. In modo particolare si tratta di accostare i poveri in un modo nuovo. I poveri, proprio per la loro condizione, non hanno nulla di attraente; non li cerchiamo a motivo della loro bellezza, della loro ricchezza o del fascino che viene dalla loro posizione sociale di successo. Con loro siamo di fronte all’uomo nudo, senza aggiunte; e davanti a loro siamo costretti a esplicitare la nostra posizione di fronte all’uomo, semplicemente. Ebbene, prova ad accostare l’uomo come immagine di Dio; prova a cercare Dio nel suo volto, anche nella sua debolezza. Se farai questo, ti garantisco che imparerai a vedere le cose in modo nuovo e può darsi che ti venga da dire come a Giovanni sul lago di Galilea: “È il Signore!” (Gv 21,7). E allora non riuscirai più a staccarti da lui.
Il segno di questo incontro è naturalmente il mutamento che avviene nella vita di una persona per l’incontro con Gesù. Qui siamo nel campo dell’azione particolare della grazia di Dio e quindi il compito di un prete è quello di riconoscere questa azione e di liberare il cammino perché essa possa realizzarsi il più chiaramente possibile. Infatti, se per tutti i cristiani la sequela di Gesù è un must necessario, il modo concreto in cui questa sequela viene realizzata cambia secondo le persone. E soprattutto, per quanto c’interessa in questo momento, cambia la radicalità con cui questa sequela è vissuta.
Penso, ad esempio, a san Paolo che, narrando la sua esperienza ai Filippesi, descrive la sua vita come un’incessante rincorsa di Cristo, dopo avere rinunciato a qualsiasi titolo di onore di cui potesse fregiarsi (cf Fil 3,4ss). Il senso di queste parole è che ormai Gesù è il centro della vita di Paolo. È vero che Paolo continuerà a lavorare e che riconoscerà al suo lavoro una funzione religiosamente positiva, quella di guadagnarsi da vivere e di poter beneficare anche altre persone; ma è evidente che per Paolo l’unica cosa che conta è il suo ministero: l’annuncio del Vangelo. Senza questo la sua vita sarebbe ormai senza senso; mentre se c’è il Vangelo, anche la prigionia, anche il processo e la condanna a morte non appaiono perdite reali.
Questa radicalità appare ancora in quelle dimensioni dell’esperienza del prete che abbiamo ricordato sopra: la povertà, il celibato, l’obbedienza al vescovo. Non c’è bisogno di dire che queste dimensioni del discepolato sono difficilissime da capire e da accettare per la mentalità corrente. Soprattutto è difficile intendere queste scelte come definitive, come scelte che richiedono di tagliare tutti i ponti alle spalle. Ma è proprio ciò che il Vangelo propone con chiarezza. Nell’ottica del Vangelo, non si possono collocare il rapporto con Gesù e la sua sequela tra le scelte reversibili, perché questo vorrebbe dire che la fiducia in Gesù non è totale: aderiamo a lui, ma ci teniamo un’uscita di sicurezza, in caso che l’avventura finisse male. Credo si debba insistere nel cogliere il rapporto strettissimo che esiste tra Gesù di Nazaret, la rivelazione dell’amore di Dio per noi, l’esperienza di essere “figli di Dio” e l’impostazione della propria vita nella linea dell’amore fraterno. Se si riesce a cogliere l’unità fra tutte queste dimensioni, si può avanzare la richiesta di una scelta che non abbia pentimenti e cioè una scelta nella quale siamo convinti di rapportarci davvero con quel Dio che è degno di essere amato “con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze”.
Se un giovane riesce a incontrare il Cristo risorto nella Parola, nell’Eucaristia, negli altri; se percepisce che in questa esperienza gli è stato dato di crescere in umanità e cioè di diventare più responsabile, più ricco di amore, più aperto alla realtà; se riesce a decidere in modo definitivo della sua vita nella prospettiva della sequela di Gesù, allora può sorgere in lui il desiderio di comunicare anche agli altri la ricchezza che ha incontrato; può cioè sorgere in lui il desiderio di essere prete.