N.02
Marzo/Aprile 2007

Pietro, Osea e Paolo: testimoni della sinfonia del sì

Nell’incontro di qualche giorno fa con la dozzina di ragazze e don­ne che si sono consacrate nell’Ordo Virginum della mia Diocesi, abbiamo riflettuto sulla verginità e sulla castità nelle varie età della vita e sulla identi­tà di questa vocazione antica e nuova insieme.

Ci siamo chiesti: a quale tipo di testimonianza profetica è chiamata la vergine consacrata? Che ministero deve svolgere nella Chiesa? Come si differenzia da un Istituto religioso e dalla consacrazione secolare? Cosa si­gnifica la dedizione alla Chiesa diocesana e la consacrazione fatta esclusivamente nelle mani del Vesco­vo come caratteristica inscindibile dalla identità spirituale ed ecclesiale di questo Ordine? E quale rapporto c’è col Vescovo, per esempio, rispetto al presbitero diocesano?… Sono, mi pare, le domande che possono e devo­no portare una vocazione ad inserirsi nel coro già vasto dei doni di una Chie­sa, senza stonare, cantando la propria parte, ma in armonia con tutte le altre. La bella figura musicale della sinfo­nia esprime con compiutezza questo ideale di Chiesa – descritta nel Nuovo Testamento soprattutto da Paolo – che tutti vorremmo vedere realizzato.

 

“Ciascuno ha il proprio dono da Dio” (1Cor7,7)

I tre personaggi della Veglia di questa sera hanno ciascuno dei doni caratteristici, che non sono identificabili semplicemente con i trat­ti irripetibili della loro personalità umana o con le condizioni storiche in cui hanno operato. Sono i doni dello Spirito di Dio che li differenziano, perché sono chiamati a svolgere com­piti diversi nella storia della salvezza: sono doni che fondano una missione o un ministero specifico a vantaggio del popolo di Dio. Questo è chiaro per noi che conosciamo dalla rivelazione il modo proprio del nostro Dio di sal­vare l’uomo non senza la sua parteci­pazione, anzi scegliendo sempre qual­cuno per metterlo a servizio di tutti. È la logica dell’elezione, che si esprime poi storicamente nelle singole chiama­te. Quello che va sempre sottolineato è che questi doni coinvolgono totalmen­te la persona del chiamato, perché è la vocazione che trasforma la personalità umana – non viceversa – e la assume tutta, “spirito, psiche e corpo” (1Ts 5,23); e inoltre esse non sono mai se­parate dall’intero corpo del popolo di Dio.

Pietro, per esempio, ha una vo­cazione particolare nella Chiesa e per la Chiesa. Stando solo alle due letture tratte dal cap. 21 del Vangelo di Gio­vanni, non c’è dubbio che se Pietro va a pescare di sua iniziativa, non rac­coglie nulla; se ci va stando “sotto la Parola” – quella di Gesù naturalmen­te – raccoglie invece una quantità smi­surata, sovrumana di pesci. Se vive la sua vocazione rinunciando al suo spi­rito d’impresa e va a pescare in condi­zioni non favorevoli, ma in obbedien­za al mandato ricevuto, ha un frutto abbondante: la sua azione pastorale converte e aggrega, la Chiesa cresce, i figli di Dio sono radunati da tutti i popoli… È la prima condizione che il Signore pone per l’efficacia della sua vocazione.

Poi il Risorto, già riconosciuto come “Signore” dalla fede del disce­polo amato, convoca al banchetto e lui stesso prende il pane e lo dà. Ecco la seconda condizione caratterizzante la vocazione. Se Pietro lascerà che nella Chiesa radunata per celebrare l’Eucaristia, il vero e unico Presidente sia Gesù Cristo, se non metterà al centro se stesso, quel banchetto nutrirà e darà la vita eterna a chi si avvicinerà con fede (Gv 6).

Alla fine il Risorto trasmette a Pietro l’autorità apostolica di pasce­re, sul modello del Buon Pastore, che ha dato la vita per i suoi amici, e gli chiede quindi di mettere la vita a sua disposizione, fino alla morte (“un al­tro ti cingerà e ti porterà dove tu non vuoi”, Gv21,18). Se Pietro vivrà il suo mandato secondo la condizione che il Signore gli pone di “rimanere” fedele all’amore personale per lui (“mi ami tu?”), divenendo così un canale vivo e ininterrotto di comunicazione dell’amore di Cristo per la sua Chiesa-Sposa, allora la sua vocazione avrà frutto, la Chiesa riceverà e diffonderà l’amore di Dio nel mondo e il mondo avrà la Vita.

Anche Osea riceve una vocazio­ne profetica che lo abilita ad un com­pito entusiasmante: annunciare che la fedeltà di Dio non tramonta, anzi vin­ce e guarisce l’infedeltà del suo popo­lo. La caratteristica e insieme la con­dizione che Dio pone nella vocazione di Osea è però lacerante: dovrà essere un annunciatore di questa buona noti­zia non solo a parole, ma col suo stes­so matrimonio, con “la carne della sua carne”. Solo se accetterà questa con­dizione, la promessa di un amore nuo­vo da parte di Dio, unilaterale e senza reciprocità, che rimane intatto anche mentre si consuma il tradimento, sarà credibile e convincerà il popolo. Solo se le sue parole e il suo stile di vita coniugale corrisponderanno, la sua vocazione profetica porterà frutto.

A Paolo di Tarso invece il Signo­re chiede di essere l’apostolo delle gen­ti, dedicandosi alla predicazione del Van­gelo con tutte le sue forze umane, con tutte le qualità acquisite negli anni di for­mazione alla scuola dei maestri della Legge, con tutta la sua fede nel Dio di Israele. Lui che era stato un “persecuto­re, un bestemmiatore e un violento” (1Tm 1,13) contro la buona notizia del Vangelo, ora è chiamato ad annunciarlo al mondo intero perché tutti, non solo il popolo eletto, si salvino. Il Signore però pone anche a lui delle condizioni che dif­ferenziano la sua vocazione e la posso­no rendere fruttuosa: dovrà predicare il Vangelo non di sua iniziativa, ma come un dovere, come un incarico ricevuto e dovrà farlo gratuitamente, rinunciando al diritto alla ricompensa. La sua voca­zione avrà frutto a condizione che Pao­lo risulti schiavo, “servo” del Vangelo e contemporaneamente servo di tutti co­loro ai quali è mandato: dei Giudei e dei Greci, di quelli sotto la Legge e di quelli senza la Legge, dei deboli… di tutti, in­somma. Allora le genti verranno alla fede, la salvezza passerà ai pagani, il mistero, nascosto da secoli, della salvez­za offerta a tutti sarà svelato ed attuato.

 

Le membra e il corpo

Le caratteristiche e le condizioni chieste a Paolo non sono le stesse chie­ste a Pietro o ad Osea, anche se l’obiettivo per cui sono chiamati è lo stesso: divenire strumenti della salvezza offer­ta a tutti. In fondo, a ben pensarci, c’è un altro elemento che unisce tutte e tre le vocazioni considerate: sia Pietro che Osea e Paolo, sono totalmente di Dio e totalmente del popolo al quale sono mandati. Sono totalmente dalla parte di Dio e totalmente dalla parte degli uomi­ni. Non considerano la loro vocazione come una realtà che li separa dagli altri chiamati o li privilegia, ma che li mette – mente cuore e volontà – al servizio di tutti.

Abbiamo detto che ogni vocazio­ne particolare ha delle caratteristiche specifiche che la differenziano e ne con­dizionano il frutto, ma queste condizio­ni le pone sempre e solo il Signore: il che è la garanzia della loro armonia e della loro unità nella diversità. Ogni vocazione chiede alla perso­na di piegare la sua umanità al dono di Dio e, se ciò avviene, la missione di­venta più efficace, ma ne risulta arric­chita anche l’umanità, benché la “potatura” possa aver fatto male.

Ogni vocazione è in relazione col resto del popolo di Dio e con le altre vocazioni, fatte fiorire dallo stesso Spi­rito creatore: Pietro non ha senso sen­za gli agnelli e le pecore di cui è pasto­re, ma il suo ministero è intrecciato con quello degli altri apostoli e discepoli, con quelli della Maddalena, della Ma­dre di Gesù, del discepolo amato… Paolo promuove e forma collaboratori con diversi ministeri, accogliendo e dando ordine ai carismi che vede sor­gere nelle Chiese. È lui che propone di vivere nella comunità cristiana come in un corpo dove le membra sono tutte ne­cessarie perché tutte collaborano a man­tenere in vita l’insieme e tutte ricevo­no a loro volta la vita dall’insieme del corpo.

La sinfonia

L’unità delle vocazioni in colla­borazione vitale tra loro è molto di più che la loro semplice somma: ge­nera qualcosa di nuovo, che è la real­tà della Chiesa. Come nella sinfonia ogni suono trae arricchimento e signi­ficato dall’insieme, così nella Chiesa le vocazioni vivono in pienezza solo se accettano la legge della comple­mentarietà e della reciprocità. Devono rimanere diverse, per­ché ciascun cristiano ha un dono e delle condizioni da accogliere da Dio, ma le vocazioni devono conoscersi in profondità tutte, per comprendere la propria identità: paradossalmente, nella dinamica ecclesiale, ci si vede meglio specchiandosi nelle diversità degli altri.

Le vocazioni devono essere pro­poste tutte insieme, perché il disegno armonico e ordinato di Dio sulla sua Chiesa appaia in tutte le sue sfuma­ture; devono essere annunciate insie­me e legate l’una all’altra, perché ai giovani appaia la pari dignità di cia­scuna chiamata e possano scegliere la propria con libertà. Nel servizio della pastorale vocazionale ciascun animatore deve saper presentare questa sinfonia per essere davvero a servizio del mistero personale di ciascuno e per non cor­rere il rischio di assimilare a sé i gio­vani che accompagna.

Ogni educatore deve far emer­gere tutti i desideri del giovane, sen­za mai accontentarsi della superficie emotiva, e far risuonare tutte le note del Vangelo, per ascoltare come riecheggiano nell’interiorità e cosa provocano nella pratica ecclesiale. Ogni formatore, anche quando una vocazione particolare è già stata scelta e il cammino della formazione specifica è iniziato, deve far amare quella vocazione e farla crescere, sti­molando a confrontarla con le diffe­renze e le somiglianze delle altre: come si potrebbe, per esempio, for­mare alla verginità senza confrontar­si e approfondire come l’amore sponsale sia vissuto dai coniugi?