Pietro, Osea e Paolo: testimoni della sinfonia del sì
Nell’incontro di qualche giorno fa con la dozzina di ragazze e donne che si sono consacrate nell’Ordo Virginum della mia Diocesi, abbiamo riflettuto sulla verginità e sulla castità nelle varie età della vita e sulla identità di questa vocazione antica e nuova insieme.
Ci siamo chiesti: a quale tipo di testimonianza profetica è chiamata la vergine consacrata? Che ministero deve svolgere nella Chiesa? Come si differenzia da un Istituto religioso e dalla consacrazione secolare? Cosa significa la dedizione alla Chiesa diocesana e la consacrazione fatta esclusivamente nelle mani del Vescovo come caratteristica inscindibile dalla identità spirituale ed ecclesiale di questo Ordine? E quale rapporto c’è col Vescovo, per esempio, rispetto al presbitero diocesano?… Sono, mi pare, le domande che possono e devono portare una vocazione ad inserirsi nel coro già vasto dei doni di una Chiesa, senza stonare, cantando la propria parte, ma in armonia con tutte le altre. La bella figura musicale della sinfonia esprime con compiutezza questo ideale di Chiesa – descritta nel Nuovo Testamento soprattutto da Paolo – che tutti vorremmo vedere realizzato.
“Ciascuno ha il proprio dono da Dio” (1Cor7,7)
I tre personaggi della Veglia di questa sera hanno ciascuno dei doni caratteristici, che non sono identificabili semplicemente con i tratti irripetibili della loro personalità umana o con le condizioni storiche in cui hanno operato. Sono i doni dello Spirito di Dio che li differenziano, perché sono chiamati a svolgere compiti diversi nella storia della salvezza: sono doni che fondano una missione o un ministero specifico a vantaggio del popolo di Dio. Questo è chiaro per noi che conosciamo dalla rivelazione il modo proprio del nostro Dio di salvare l’uomo non senza la sua partecipazione, anzi scegliendo sempre qualcuno per metterlo a servizio di tutti. È la logica dell’elezione, che si esprime poi storicamente nelle singole chiamate. Quello che va sempre sottolineato è che questi doni coinvolgono totalmente la persona del chiamato, perché è la vocazione che trasforma la personalità umana – non viceversa – e la assume tutta, “spirito, psiche e corpo” (1Ts 5,23); e inoltre esse non sono mai separate dall’intero corpo del popolo di Dio.
Pietro, per esempio, ha una vocazione particolare nella Chiesa e per la Chiesa. Stando solo alle due letture tratte dal cap. 21 del Vangelo di Giovanni, non c’è dubbio che se Pietro va a pescare di sua iniziativa, non raccoglie nulla; se ci va stando “sotto la Parola” – quella di Gesù naturalmente – raccoglie invece una quantità smisurata, sovrumana di pesci. Se vive la sua vocazione rinunciando al suo spirito d’impresa e va a pescare in condizioni non favorevoli, ma in obbedienza al mandato ricevuto, ha un frutto abbondante: la sua azione pastorale converte e aggrega, la Chiesa cresce, i figli di Dio sono radunati da tutti i popoli… È la prima condizione che il Signore pone per l’efficacia della sua vocazione.
Poi il Risorto, già riconosciuto come “Signore” dalla fede del discepolo amato, convoca al banchetto e lui stesso prende il pane e lo dà. Ecco la seconda condizione caratterizzante la vocazione. Se Pietro lascerà che nella Chiesa radunata per celebrare l’Eucaristia, il vero e unico Presidente sia Gesù Cristo, se non metterà al centro se stesso, quel banchetto nutrirà e darà la vita eterna a chi si avvicinerà con fede (Gv 6).
Alla fine il Risorto trasmette a Pietro l’autorità apostolica di pascere, sul modello del Buon Pastore, che ha dato la vita per i suoi amici, e gli chiede quindi di mettere la vita a sua disposizione, fino alla morte (“un altro ti cingerà e ti porterà dove tu non vuoi”, Gv21,18). Se Pietro vivrà il suo mandato secondo la condizione che il Signore gli pone di “rimanere” fedele all’amore personale per lui (“mi ami tu?”), divenendo così un canale vivo e ininterrotto di comunicazione dell’amore di Cristo per la sua Chiesa-Sposa, allora la sua vocazione avrà frutto, la Chiesa riceverà e diffonderà l’amore di Dio nel mondo e il mondo avrà la Vita.
Anche Osea riceve una vocazione profetica che lo abilita ad un compito entusiasmante: annunciare che la fedeltà di Dio non tramonta, anzi vince e guarisce l’infedeltà del suo popolo. La caratteristica e insieme la condizione che Dio pone nella vocazione di Osea è però lacerante: dovrà essere un annunciatore di questa buona notizia non solo a parole, ma col suo stesso matrimonio, con “la carne della sua carne”. Solo se accetterà questa condizione, la promessa di un amore nuovo da parte di Dio, unilaterale e senza reciprocità, che rimane intatto anche mentre si consuma il tradimento, sarà credibile e convincerà il popolo. Solo se le sue parole e il suo stile di vita coniugale corrisponderanno, la sua vocazione profetica porterà frutto.
A Paolo di Tarso invece il Signore chiede di essere l’apostolo delle genti, dedicandosi alla predicazione del Vangelo con tutte le sue forze umane, con tutte le qualità acquisite negli anni di formazione alla scuola dei maestri della Legge, con tutta la sua fede nel Dio di Israele. Lui che era stato un “persecutore, un bestemmiatore e un violento” (1Tm 1,13) contro la buona notizia del Vangelo, ora è chiamato ad annunciarlo al mondo intero perché tutti, non solo il popolo eletto, si salvino. Il Signore però pone anche a lui delle condizioni che differenziano la sua vocazione e la possono rendere fruttuosa: dovrà predicare il Vangelo non di sua iniziativa, ma come un dovere, come un incarico ricevuto e dovrà farlo gratuitamente, rinunciando al diritto alla ricompensa. La sua vocazione avrà frutto a condizione che Paolo risulti schiavo, “servo” del Vangelo e contemporaneamente servo di tutti coloro ai quali è mandato: dei Giudei e dei Greci, di quelli sotto la Legge e di quelli senza la Legge, dei deboli… di tutti, insomma. Allora le genti verranno alla fede, la salvezza passerà ai pagani, il mistero, nascosto da secoli, della salvezza offerta a tutti sarà svelato ed attuato.
Le membra e il corpo
Le caratteristiche e le condizioni chieste a Paolo non sono le stesse chieste a Pietro o ad Osea, anche se l’obiettivo per cui sono chiamati è lo stesso: divenire strumenti della salvezza offerta a tutti. In fondo, a ben pensarci, c’è un altro elemento che unisce tutte e tre le vocazioni considerate: sia Pietro che Osea e Paolo, sono totalmente di Dio e totalmente del popolo al quale sono mandati. Sono totalmente dalla parte di Dio e totalmente dalla parte degli uomini. Non considerano la loro vocazione come una realtà che li separa dagli altri chiamati o li privilegia, ma che li mette – mente cuore e volontà – al servizio di tutti.
Abbiamo detto che ogni vocazione particolare ha delle caratteristiche specifiche che la differenziano e ne condizionano il frutto, ma queste condizioni le pone sempre e solo il Signore: il che è la garanzia della loro armonia e della loro unità nella diversità. Ogni vocazione chiede alla persona di piegare la sua umanità al dono di Dio e, se ciò avviene, la missione diventa più efficace, ma ne risulta arricchita anche l’umanità, benché la “potatura” possa aver fatto male.
Ogni vocazione è in relazione col resto del popolo di Dio e con le altre vocazioni, fatte fiorire dallo stesso Spirito creatore: Pietro non ha senso senza gli agnelli e le pecore di cui è pastore, ma il suo ministero è intrecciato con quello degli altri apostoli e discepoli, con quelli della Maddalena, della Madre di Gesù, del discepolo amato… Paolo promuove e forma collaboratori con diversi ministeri, accogliendo e dando ordine ai carismi che vede sorgere nelle Chiese. È lui che propone di vivere nella comunità cristiana come in un corpo dove le membra sono tutte necessarie perché tutte collaborano a mantenere in vita l’insieme e tutte ricevono a loro volta la vita dall’insieme del corpo.
La sinfonia
L’unità delle vocazioni in collaborazione vitale tra loro è molto di più che la loro semplice somma: genera qualcosa di nuovo, che è la realtà della Chiesa. Come nella sinfonia ogni suono trae arricchimento e significato dall’insieme, così nella Chiesa le vocazioni vivono in pienezza solo se accettano la legge della complementarietà e della reciprocità. Devono rimanere diverse, perché ciascun cristiano ha un dono e delle condizioni da accogliere da Dio, ma le vocazioni devono conoscersi in profondità tutte, per comprendere la propria identità: paradossalmente, nella dinamica ecclesiale, ci si vede meglio specchiandosi nelle diversità degli altri.
Le vocazioni devono essere proposte tutte insieme, perché il disegno armonico e ordinato di Dio sulla sua Chiesa appaia in tutte le sue sfumature; devono essere annunciate insieme e legate l’una all’altra, perché ai giovani appaia la pari dignità di ciascuna chiamata e possano scegliere la propria con libertà. Nel servizio della pastorale vocazionale ciascun animatore deve saper presentare questa sinfonia per essere davvero a servizio del mistero personale di ciascuno e per non correre il rischio di assimilare a sé i giovani che accompagna.
Ogni educatore deve far emergere tutti i desideri del giovane, senza mai accontentarsi della superficie emotiva, e far risuonare tutte le note del Vangelo, per ascoltare come riecheggiano nell’interiorità e cosa provocano nella pratica ecclesiale. Ogni formatore, anche quando una vocazione particolare è già stata scelta e il cammino della formazione specifica è iniziato, deve far amare quella vocazione e farla crescere, stimolando a confrontarla con le differenze e le somiglianze delle altre: come si potrebbe, per esempio, formare alla verginità senza confrontarsi e approfondire come l’amore sponsale sia vissuto dai coniugi?