Presbiteri consapevoli e gioiosi per una comunità cristiana a servizio di tutte le vocazioni
Omelia di Mons. Camillo Ruini, Presidente della CEI, alla S. Messa del 5 gennaio 2007
Liturgia della parola
1Gv 3, 11-21 Gv 1, 43-51
Le parole di Gesù a Filippo e poi quelle di Filippo a Natanaele sono parole tipicamente vocazionali. La prima, “Seguimi”, è l’invito alla sequela: quell’invito, quella chiamata che tocca il cuore di chi viene chiamato dal Signore. La seconda, “Vieni e vedi”, ci rimanda a quell’esperienza del Signore nella nostra vita che è la base indispensabile, il sostegno e l’alimento quotidiano della nostra vocazione e della nostra fedeltà ad essa. Noi accogliamo queste due parole nel nostro cuore, sapendo che, prima di essere “operatori delle vocazioni”, siamo – ognuno di noi lo è per sua configurazione – chiamati dal Signore, oggetto del suo amore e proprio questo amore è ciò che noi dobbiamo vedere, il contenuto concreto della nostra esperienza: vieni e vedi.
Cosa dobbiamo vedere? Vedere con gli occhi del cuore il Signore che ci ama, come è detto con tanta forza nella Prima lettera di San Giovanni Apostolo: “Da questo dobbiamo conoscere l’amore: egli ha dato la sua vita per noi, quindi, anche noi, dobbiamo dare la vita per i fratelli” (3,16). È l’uomo che muore sulla croce e che risorge dai morti il grande segno reale e concreto dell’amore di Dio per noi, che dobbiamo sempre e di nuovo sperimentare nella nostra vita; lo chiediamo al Signore, per noi tutti. Subito dopo, quelle parole: “Figlioli, non amiamo a parole, né con la lingua, ma coi fatti e nella verità” (1Gv 3,18). Questa è la concretezza di Giovanni, il mistico che ha scrutato le profondità del Verbo che è la vita, del Dio che è amore, Dio che è agape, ma che sa bene che queste profondità diventano qualcosa di serio se si traducono in una vita contrassegnata, in profondità e nella verità, dall’amore per il Signore e per i fratelli.
Come persone chiamate dal Signore chiediamo, a nostra volta, di saper amare coi fatti e non soltanto con le parole e di essere, così, testimoni dell’amore di Dio nel mondo, per rendere credibile e tangibile questa porzione centrale del Vangelo: l’affermazione che Dio ci ama e che viene ancora prima dell’altra, che è il grande comandamento dell’amore. Ama Dio, ama il tuo prossimo, ma perché tu sei stato prima amato da Dio; perché il tuo prossimo, quindi, è stato amato da Dio. Perché Dio, che si fa bambino e carne per noi, s’identifica con il più piccolo dei nostri fratelli. Questo è lo sfondo che ci offrono le letture di oggi, nelle quali vogliamo collocare il grande tema che avete scelto per questo Convegno del Centro Nazionale Vocazioni: Quale presbitero per una comunità cristiana al servizio di tutte le vocazioni?
Avete già parlato molto di questo. Vorrei accennare, in maniera brevissima, a quelle che sono le condizioni per un simile presbitero e per una simile comunità cristiana. Anzitutto, per il presbitero, è fondamentale il vivere nella gioia la propria vocazione, il vivere autenticamente la propria chiamata; è qualcosa che si verifica giorno per giorno, nella concretezza del dono, della passione pastorale, della carità pastorale, ma prima ancora nella concretezza dello “stare” con il Signore per poter “andare” nel suo nome, come è detto dei Dodici all’inizio del Capitolo 3 del Vangelo di Marco (3,14-15). Quindi, questo stare con il Signore. Avere la sollecitudine dell’intera comunità cristiana, che trovi, nella sua crescita, la propria crescita, il proprio vanto – come diceva l’Apostolo Paolo – la gioia del suo cuore e, naturalmente, ancora in questa atmosfera di crescita della comunità cristiana, la sollecitudine per tutte le diverse vocazioni.
Ma vorrei dire che, prima del rifrangersi della chiamata di Dio nelle diverse vocazioni, c’è un punto fondamentale comune, che è il concepire la vita come vocazione: vocazione che viene da Dio e a cui siamo chiamati a dare risposta realizzando il suo progetto su di noi e, allo stesso tempo, noi stessi. Non è facile, oggi, presentare la vita di ogni persona come il frutto del piano di Dio, della sua chiamata e del suo amore e, quindi, come una vita che si svolge in un dialogo che è chiamata e risposta: il dialogo della vocazione.
Prevalentemente, in maniera spontanea, siamo portati anche noi, uomini di Chiesa, ad andare verso i fratelli che hanno minore frequenza cristiana, concependo la nostra vita come qualcosa di autonomo o semplicemente terreno, qualcosa che si sviluppa dentro le coordinate di questo mondo e che non guarda in profondità, che non guarda alla radice, né guarda a un futuro autentico, che non si esaurisce, appunto, dentro le coordinate di questa vita. Una comunità cristiana che sia a servizio di tutte le vocazioni, un sacerdote, un presbitero che sia a servizio di tutte le vocazioni, deve cercare di far maturare questa coscienza della nostra vita come frutto della chiamata del Signore e come risposta alla chiamata del Signore.
Questa è la verità della vita umana, tanto fortemente testimoniata dall’Antico Testamento e da tutto il Nuovo Testamento nelle sue varie applicazioni; quella verità che dobbiamo sempre riflettere e manifestare con le parole ma anche, e radicalmente, con la nostra vita. Solo dopo vengono le varie vocazioni e, per il presbitero, la sincerità e il coraggio di aiutare i fratelli a prendere coscienza esplicita della loro vocazione.
Vieni e seguimi. Quelle parole di Gesù a Filippo e di Filippo a Natanaele, sono le parole che, al momento opportuno, e in forma opportuna, dobbiamo saper dire; lo dobbiamo, anzitutto, noi preti. Io incontro, ogni anno, molti seminaristi dei vari Seminari di Roma, uno ad uno: ebbene, incontrandoli, vedo le loro storie, perché ne parlo volentieri, perché ogni giovane o ogni persona adulta – ora sono molte in Seminario – richiama la sua storia vocazionale e, in un certo senso, vive di questa storia vocazionale; vedo che non sempre, ma molto spesso, c’è una parola precisa, rivolta al singolo, che lo ha aiutato a prendere coscienza della chiamata del Signore e, quindi, a poter rispondervi. Una parola che forse all’inizio è stata disattesa, ma che poi è tornata, è fermentata nel cuore ed ha portato frutto.
Queste parole dica, dunque, il sacerdote, ma, vorrei aggiungere, l’intera comunità cristiana che vuole essere a servizio di tutte le vocazioni e i religiosi a loro volta; dicano queste parole, alle donne giovani e magari meno giovani, e anche agli uomini che incontrano sul loro cammino, come il presbitero deve dire queste parole non solo ai giovani che vede chiamati al sacerdozio, ma anche a tutte le persone, donne in particolare, che pensa o spera chiamate alla vita consacrata. Ma poi, anche più in là, in maniera più larga, com’è nello spirito di questo Convegno, si ponga attenzione ad ogni chiamata della vita, quante sono le chiamate che il Signore rivolge, quanti sono gli spazi nei quali possiamo intercettare condizioni vere camminando sulla via che conduce alla santità, esercitando la risposta alla vocazione specifica che ognuno di noi ha dentro. Sappiamo quanto sia essenziale oggi per la nostra società che ci siano vocazioni al matrimonio, che comprendano il senso profondo della famiglia e del matrimonio, come risposta a spendersi totalmente per questo. In un’epoca che non è molto remota, ma che è ancora abbastanza recente, questo era tema in qualche modo eminente nella vita cristiana e anche, in un certo senso, nella società. Oggi non è più così: oggi è un tema che ha bisogno di essere vissuto alla luce di Cristo, essere capito e vissuto nella comunità cristiana, per essere fermento nella società in cui viviamo, principio di rinnovamento, principio di vita, speranza per il futuro.
Vorrei terminare dicendo una parola di ringraziamento per tutti voi, per tutti coloro che operano in questo campo. Parola detta non solo a nome mio, ma a nome dei vescovi italiani. Vorrei, prima di tutto, dire una parola di fiducia: sappiamo che quello delle vocazioni di speciale consacrazione e, possiamo dire, delle vocazioni al matrimonio è, oggi, un tema difficile. Oggi è una sfida molto impegnativa e per questo abbiamo bisogno di più fiducia, cioè di quella gioia alla quale sempre c’invita Benedetto XVI, un Papa che è profondamente consapevole delle difficoltà del nostro tempo. Viene dalla Germania, dove alcune difficoltà sono più forti che in Italia, ma nonostante la consapevolezza lucida e piena di queste difficoltà, porta dentro di sé una grande fiducia e una grande gioia, perché sa che il braccio del Signore non si è accorciato: sa che il Signore è in mezzo a noi, ama l’umanità, ama e sostiene la sua vigna.
Su questa base di fiducia vorrei, appunto, ringraziare mons. Italo Castellani, adesso Presidente della Commissione Episcopale e per tanti anni Direttore (da sempre, da quando ho cominciato a venire qui, l’ho trovato qua); ringraziare mons. Luca Bonari e mons. Filippo Strofaldi, ma ringraziare ciascuno di voi per le diverse responsabilità. Cercate di stimolare le nostre chiese, le nostre diocesi, le nostre comunità religiose, le nostre parrocchie, la nostra gente a prendere coscienza di questa grande sfida di oggi: la sfida delle vocazioni, che possiamo affrontare con risultati positivi solo se ci richiamiamo a questa condizione di base che cercavo di accennare prima, stando il più possibile uniti al Signore e fra di noi. Credo che la comunità possa essere a servizio di tutte le vocazioni se è una comunità nella quale si vive il senso della comunione e dell’appar-tenenza reciproca, se siamo convinti di essere tutti parte dell’unico corpo che è il corpo del Signore Gesù.
Possa il Signore accogliere la nostra preghiera, possa Maria Santissima accompagnare, giorno per giorno, la nostra testimonianza e la nostra opera, per essere sempre persone che lavorano con gioia e con fiducia nella vigna del Signore.