N.03
Maggio/Giugno 2007

Carità pastorale e animazione vocazionale

Carissimi, sono particolarmente lieto di trovarmi tra voi e vi saluto, tutti, di cuore.

Ritrovo qui tante persone con le quali abbiamo condiviso un tratto importante del nostro cammino e per le quali sono particolarmente grato al Si­gnore. Ringrazio per tutti il carissimo don Luca Bonari, Direttore del CNV, che ha voluto invitarmi a concludere questo vostro importante incontro di studi. Anche per lui, il mio ringraziamento si unisce al ricordo di tante esperienze significative, di tanti momenti forti, vissuti assieme nel tempo in cui sono stato Direttore del CDV di Reggio Calabria. Questo invito mi è particolarmente gradito, proprio perché mi consente di ripercorrere un tratto di quella strada che il Signore mi ha dato di seguire, da prete, nell’attenzione e nella cura delle vocazioni. Lo benedi­co per questo, soprattutto per gli anni che ho potuto trascorrere in Seminario, come Padre Spirituale prima e come Rettore poi, vivendo nella mia carne l’ansia e la cura della Chiesa per il discernimento e la formazione sacerdotale.

Nel ministero episcopale, sia pure ancora molto breve, ho portato con me questo patrimonio di esperienze e di doni che, sento, oggi mi aiutano in quella che è ora una nuova responsabilità, la “responsabilità ultima” di tutte le voca­zioni di quella porzione del gregge che Dio affida ad ogni pastore. Si può dire che dal “prendersi cura” del Vescovo dipende – direttamente o indirettamente – la realizzazione vocazionale della vita di molti: ne sono convinto e sento che questo compito è, assieme, terribile e bellissimo.

Oggi, poi, il mio essere qui mi obbliga anche ad andare indietro, a rivivere con la mente e il cuore la storia globale della mia vocazione: a tener conto, in un certo senso, delle modalità con cui il Signore si è rivelato a me per poter acco­starmi al mistero della modalità con cui egli si rivela ad ogni chiamato. Questo è essenziale per chi fa pastorale vocazione. E questa credo sia una ricchezza specifica del servizio vocazionale che il prete svolge e non può non svolgere. L’espressione famosa di Agostino – «per voi pastore, con voi cristiano» – richiama tale ricchezza. Una ricchezza che si innesta proprio sul tema che mi è stato affidato e che coniuga due elementi molto importanti: la carità pastorale e l’animazione vocazionale. Il cuore della nostra riflessione muove dalla «carità pastorale»: dall’amore del pastore. L’animazione vocazionale è intesa, pertanto, come un peculiare ser­vizio di carità, della carità propria del pastore.

Ma, andando più in profondità nel concetto di “animazione vocazionale”, ci rendiamo conto che esso non chiama in causa solo il piano, ad esempio, delle iniziative e delle proposte… ma ci costringe a riconoscere la necessità che la pastorale vocazionale abbia, letteralmente, “un’anima”, un “principio vitale”.

Per coniugare «carità pastorale» ed «animazione vocazionale» – ecco, allo­ra, la lettura che vi propongo – dobbiamo considerare la «carità pastorale», l’amore del pastore, come “l’anima” della pastorale vocazionale.

Questa affermazione mi sembra risuoni in modo del tutto speciale in questo luogo, che raccoglie la straordinaria eredità spirituale di S. Agostino, il cui itine­rario vocazionale voi avete scelto come guida per il cammino di questi giorni, ma anche l’esperienza particolarissima di Santa Rita. Nel grande pastore della Chie­sa emerge il mistero di una «carità pastorale» che diventa anima di altre vocazio­ni; che vivifica, che genera altre vocazioni. Da questa donna straordinaria, d’altra parte, traluce quell’essere fedele che diventa germe misterioso della fecondità vocazionale, tipicamente materna.

Abbiamo, qui, una vera icona per l’amore di ogni pastore. Perché se è vero che grazie alla carità pastorale il pastore diventa padre, è anche vero che egli deve – come dice la Pastores dabo Vobis – essere «capace di amare la gente con cuore nuovo, grande e puro, con autentico distacco da sé, con dedizione piena, continua e fedele, e insieme con una specie di “gelosia” divina, con una tenerezza che si rive­ste persino delle sfumature dell’affetto materno, capace di farsi carico dei “dolori del parto” finché “Cristo non sia formato” nei fedeli»[1]. La mia riflessione si soffermerà più specificamente sulla figura del pastore, cercando eventualmente in essa spunti utili anche al compito di altri animatori. La svilupperemo in tre punti:

 

Il sacerdote come “animatore” della vocazione

Per entrare nel vivo del nostro tema non possiamo non partire dalla peculia­rità del ministero presbiterale: è qui che occorre cercare le caratteristiche che contraddistinguono la figura del sacerdote rispetto ad altri animatori della pa­storale vocazionale. E vorrei entrare nel ministero sacerdotale riguardandone i “tria munera” che, a titolo del tutto speciale, lo fanno educatore di vocazioni. Ad ognuno di questi fondamentali e specifici doni del prete mi sembra, infatti, che si possa legare un aspetto della dinamica della vocazione.

 

Uomo della Parola: vocazione e dialogo

Il prete, anzitutto, è uomo della Parola. È il suo compito di predicazione, ma anche tutto il rapporto che egli instaura con la Parola di Dio, che lo fa «partecipe della dignità profetica di Cristo e della Chiesa»[2]. Della Parola il prete è annunciatore, della Parola è ascoltatore e custode; della Parola è servo, nel senso che ad essa egli deve dedizione incondizionata e rispetto ad essa non deve frapporre alcun ostacolo o strumentalizzazione[3]. Dal rapporto del sacerdote con la Parola dipende la veridicità dell’annuncio evangelico e la presentazione di Gesù, il Verbo Incarnato di Dio.

Quando si pensa al mistero della vocazione non si può non pensare alla Parola. «La storia di ogni vocazione sacerdotale, come peraltro di ogni vocazione cristiana – ci ricorda la Pastores dabo Vobis – è la storia di un ineffabile dialogo tra Dio e l’uomo, tra l’amore di Dio che chiama e la libertà dell’uomo che nell’amore risponde a Dio»[4].

In quanto uomo della Parola, dunque, il prete entra, in qualche modo, nell’intimo di questo dialogo fra Dio e il chiamato. Si fa portatore, mediatore, traspa­renza della Parola. Insegna, in qualche modo, l’arte della Parola e di quel dialogo senza il quale non si coglie l’intenzione vocazionale di Dio.

A volte, il problema della vocazione si fonda su un problema di linguaggio. Di ascolto, certamente, ma anche di significato che si dona alle parole. Pensiamo per un attimo al gergo giovanile nonché a quella che, non a torto, oggi si defini­sce “manipolazione del linguaggio”, che pone seri problemi di comprensione e valutazione di parole sostanziali nell’esperienza umana. Benedetto XVI, ad esem­pio, nella sua prima Enciclica ha fatto un’osservazione semplicissima ma basila­re, affermando di voler scrivere sull’amore perché «amore» è «una delle parole più usate ed abusate, alla quale annettiamo accezioni del tutto differenti»[5]. Ma per quante altre parole potremmo fare lo stesso ragionamento! Il “lessico vocazionale”, per così dire, ne è pieno. Davanti alla “confusione delle lingue”, il prete sta come colui che porta un’altra Parola: una Parola che mette ordine tra le parole, una Parola di cui egli si fida, una Parola che egli stesso ha incontrato. Essere portatori della Parola signi­fica favorire questo incontro anche per l’uomo, per il giovane.

Leggiamo nella Pastores dabo Vobis che, addirittura, «il sacerdote deve essere il primo “credente” alla Parola» e che la sua realtà di servo non lo fa «possessore», ma «debitore» di questa stessa Parola[6].

In questo orizzonte, se ci pensiamo bene, si colloca la stessa direzione spirituale, ministero che aiuta la comprensione della Parola di Dio e delle sug­gestioni che essa offre al chiamato. Una delle prime iniziative che ho inteso promuovere in Diocesi è stata l’“Anno della Parola”, che partirà tra qualche mese. Sono profondamente convinto che sia un’iniziativa vocazionale in senso pieno, concreto. Rimettendo al centro dell’attenzione, della cura pastorale, dello studio e anche del “linguaggio” di tutti – presbiteri e laici – la Bibbia, ho fiducia che la Parola stessa parlerà a molti e in modo molto più incisivo di quanto tante parole umane non potrebbero fare.

Ogni prete deve credere alla Parola. E riscoprire, nel privilegio e nel compito del proprio munus profetico, un appello specificamente vocazionale. La quarta parte del Documento Nuove Vocazioni per una Nuova Europa, che sviluppa tutto il tema della “pedagogia delle vocazioni”, porta come sottotitolo l’espressione evangelica: «non ci ardeva forse il cuore nel petto?» (Lc 24, 32). Chi fa ardere il cuore nel petto dei due discepoli di Emmaus, lo sappiamo bene, è la Parola che Gesù dice e spiega; e il prete – questo va sottolineato – può fare qualcosa di simile: può pronunciare e spiegare la Parola “in persona Christi”!

È il misterioso compito del seminatore, che il Documento ci richiama e che lo stesso Gesù addita ai discepoli: del seminatore che rispetta la libertà di chi ascolta, che ha il coraggio di seminare ovunque, che cerca di trovare i tempi adatti alla semina stessa[7]

Ma – sottolineo – che semina la Parola e solo la Parola, sempre. Perché il seme è la Parola di Dio e solo questo seme, sparso al momento opportuno e sulla buona terra, porterà frutti che rimangono per sempre.

 

 

Uomo dei Sacramenti: vocazione e relazione

Il prete, poi, è l’uomo dei Sacramenti. Quel munus santificandi che il pasto­re possiede è indispensabile alla pastorale delle vocazioni. Ogni vocazione è per la santità del chiamato e del popolo di Dio.

Penso, in questo momento, al grande tema del sacramento della Riconciliazione, così mal celebrato nelle nostre comunità; così disprezzato, ad esempio, dai giovani. La riflessione sulla direzione spirituale non dovrebbe certo farne dimenticare la preziosità.

È molto significativo, richiamando l’esperienza di Agostino, notare la coin­cidenza tra il momento della conversione e la scelta della consacrazione a Dio. E se ciascuno di noi può ricordare, ad esempio, la Parola che il Signore ha scelto per chiamarlo al proprio stato di vita, penso possa ricordare con altrettanta sicurezza l’istante in cui la grazia del perdono ha “vinto” (per usare una terminologia cara allo stesso Agostino) alcune resistenze particolari, alcuni peccati particolari. Non dimentichiamo che una guida spirituale sapiente quale era S. Ignazio di Loyola pone la via purificativa – e addirittura la Confessione generale – come prima tappa del cammino di discernimento vocazionale nei suoi Esercizi Spirituali.

La grazia sacramentale spalanca dinanzi all’uomo l’infinito amore, un amore che lo perdona fino a «volgersi contro se stesso»[8]. Questo stesso amore è necessario per pronunciare il proprio «sì». Non è possibile per l’uomo arrivare a donare la propria vita nell’amore se prima non ha sperimentato l’essere amato. Questo lo insegnano le scienze uma­ne e credo ne abbiate parlato abbondantemente in questi giorni: non ama se non chi prima viene amato.

Ma l’amore sproporzionato di Dio squarcia i confini dell’esperienza uma­na e consegna alla persona un amore che, se non vive nel sentimento, vive nel Sacramento e abilita, anche chi non abbia prima conosciuto l’amore, ad un amore senza confini, per opera dello Spirito Santo. Abilita ad un amore eucaristico in senso pieno. Finché non sia entrata e penetrata nella logica eucaristica, la vita umana non può prendere una vera svolta vocazionale. Saranno inclinazioni della personalità, magari desideri forti, forse anche una volontà determinata ed incrollabile… ma non sarà reale offerta di sé in sacrificio gradito a Dio. Quel sacrificio che si compiace solo di fare la volontà del Padre: questa è la dinamica eucaristica; questa è la risposta vocazionale.

«La spiritualità sacerdotale è intrinsecamente eucaristica… – scrive Bene­detto XVI nella Sacramentum Caritatis – . Se celebrata con attenzione e fede, la Santa Messa è formativa nel senso più profondo del termine, in quanto pro­muove la conformazione a Cristo e rinsalda il sacerdote nella sua vocazione»[9]. Ma questa conformazione a Cristo, peculiare e caratteristica del sacerdozio ministeriale, è in certo modo l’approdo di ogni vocazione. «Quelli che sono stati chia­mati secondo il suo disegno… quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo», dice Paolo (Rm 8, 28-29). A chi, se non al Cristo, si ispira la vita del chiamato? La Messa è dunque formazione vocazionale; come lo è, assieme alla celebrazione, ogni atto di adorazione eucaristica.

Il Papa raccomanda che già «nella formazione catechistica, e in particola­re negli itinerari di preparazione alla Prima Comunione, si introducano i fan­ciulli al senso e alla bellezza di sostare in compagnia di Gesù, coltivando lo stupore per la sua presenza nell’Eucaristia»[10].

Ho la gioia di riproporre, da vescovo, l’esperienza coinvolgente delle “scuo­le di preghiera”, che già portavo avanti in Seminario. Il cuore di questa espe­rienza è proprio l’adorazione dell’Eucaristia e, assieme, la grande partecipazio­ne al sacramento della Riconciliazione. La maggior parte dei preti della Dioce­si sono coinvolti in questo evento, che diventa per tutti una grande catechesi vocazionale: un incontro reale e frequente con il Cristo ascoltato, adorato e accolto nell’amore. E Cristo, in questi momenti, parla veramente e veramente chiama, offrendo la forza del sì. Un sì a lui, un sì alla Chiesa, lì rappresentata dal Vescovo e da tanti presbite­ri, religiosi, laici impegnati… Tutti i fedeli, i giovani in particolare, hanno biso­gno di essere inseriti in questa logica ecclesiale attraverso iniziative concrete e visibili.

I sacramenti hanno questa potenzialità. La liturgia, in genere, ha questa potenzialità. Essa dice la Chiesa, con essa parla la Chiesa che è Mysterium vocationis[11]. Uno scarso sensum ecclesiae è uno dei nodi più grossi della problematica vocazionale di oggi. E, ancora una volta, il prete è colui che è chiamato a portare lo specifico amore della Chiesa “in persona Christi”. Non c’è altro modo di attingere l’amore che perdona; non c’è altra possibilità di ricevere concretamente Cristo come pane nella propria vita, se non attraverso il sacerdote.

Se, nel chiamato, la Parola di Dio stabilisce il dialogo con il Signore, i sacra­menti pongono in atto la relazione viva con Cristo e la sua Chiesa. Si sviluppa così gradatamente – potremmo dire – un senso di appartenenza cristologico ed ecclesiale, veramente indispensabile ad una vocazione consapevole e matura.

 

 

Guida del gregge: vocazione e appartenenza

Ed è in questo delicato senso di appartenenza che si inserisce un altro specifico dono del sacerdote, quello di essere guida del gregge. Il concetto di appartenenza è legato al ministero pastorale: la Parola di Dio, infatti, mettendolo a confronto con il pastore, dice che il mercenario è colui al quale «le pecore non appartengono» (Gv 10, 12).

Se vuoi essere un buon pastore, se vuoi essere pastore in genere, devi ren­derti conto che le pecore ti appartengono. È una grande responsabilità; soprattut­to, è un mistero del quale non riusciamo a penetrare mai definitivamente la portata.

Sappiamo quanto proprio Agostino abbia scritto pagine stupende sulla figu­ra del pastore, dalle quali emerge la grande autobiografia del Vescovo, ma anche l’autobiografia del chiamato, che ha sperimentato quale luce i pastori – ricordiamo particolarmente il suo rapporto con S. Ambrogio – abbiano dato alla sua vita.

E, commentando il Vangelo di Giovanni, Agostino ci ricorda che le pecore ascoltano la voce del pastore perché è pastore: «C’è una voce, c’è, dico, una voce del pastore per cui le pecore non ascoltano gli estranei e coloro che non sono pecore non ascoltano Cristo»[12].

Egli le chiama per nome… E se egli le chiama per nome, questo lo sappiamo, è proprio perché esse gli appartengono. Chi chiama per nome – è qui la radice della vocazione – è Cristo, il Pastore dei pastori. Ma il ministero pastorale abilita a quella che potremmo definire una peculiare “partecipazione alla chiamata”.

Del resto, Agostino stesso precisa che se nessuno può attribuirsi il ruolo di essere «porta» (la porta è solo Cristo), l’essere pastore è invece proprio del vescovo, e dunque dal presbitero che opera in comunione con il vescovo[13]. In persona Christi, il pastore può dunque chiamare!

Penetriamo sempre più nella delicatezza del tema, perché ci rendiamo conto di quanto possa venire equivocato questo concetto. Quanti falsi pastori chiamano non secondo la chiamata di Cristo! Non illu­diamoci: il pastore o è profeta o afferma la propria parola. E la profezia – leg­giamo nel Documento Vita Consecrata – è «ricerca appassionata della volontà di Dio»[14].

La chiamata, sempre e solo prerogativa di Dio, passa attraverso quel nome che il pastore pronuncia. Dobbiamo, cioè, conoscere le pecore per guidarle: come Gesù. Dobbiamo – dice ancora Agostino – pascere le pecore “di” Cristo. E, per farlo, egli stesso indica una via: amare Cristo e non se stessi[15].

Ciò che, in ultimo, caratterizza l’essenza del pastore, del buon pastore è solo questo: offrire la vita. Puoi guidare se ti sei consegnato, se la tua vita appartiene alle pecore. Perché le pecore appartengono a Cristo.

La maturazione vocazionale, in coloro che seguiamo, sboccia solo quando si sia fatta propria la consapevolezza di tale appartenenza. Per donarsi, cioè, occorre riconoscere che già si appartiene: l’offerta insita nella vocazione, cioè il dono della propria vita, in questa luce, appare piuttosto una restituzione di quanto si è ricevuto.

Apro una parentesi che ci porterebbe molto oltre: penso all’attuale crisi della famiglia – crisi di fatto e crisi di concetto – che mi sembra possa portare ad una difficoltà a capire il concetto elementare di “appartenenza”, almeno dal punto di vista umano. Il pastore, dunque, deve essere segno di appartenenza. Della sua apparte­nenza a Cristo e alla Chiesa, anzitutto; ma anche della sua appartenenza alle pecore, che abilita le stesse pecore a crescere nell’appartenenza. Accenno soltanto, ad esempio, alla testimonianza preziosa del celibato sa­cerdotale, icona di quell’appartenenza al Signore e alla sua Chiesa, al Cristo e al suo gregge, che tanta fecondità porta con sé!

«Fatevi modelli del gregge», dice Pietro ai pastori (1Pt 5, 3). Potremmo tradurre – pensando al tema della vocazione – che il buon pastore, offrendo la vita, insegna ad offrire la vita!

Nella sua prima Lettera ai sacerdoti, Papa Giovanni Paolo II rivolgeva in tal senso una bellissima esortazione: «“Arte delle arti è la guida delle anime”, scriveva S. Gregorio Magno. Vi dico, dunque, rifacendomi a queste sue parole: sforzatevi di essere “artisti” della pastorale»[16]. Artisti! Artisti nel guidare, discernere… nel dare la vita!

 

 

La carità pastorale “anima” della vocazione sacerdotale

Un’arte, dunque, quella del pastore. Un artista, il prete: che, come ogni arti­sta, ha bisogno di un principio ispiratore che lo anima e che, allo stesso tempo, impedisce che tutto ruoti attorno a lui come figura carismatica, idealizzata … La Pastores dabo Vobis vede «l’anima del ministero sacerdotale»[17] pro­prio nella «carità pastorale» che, peraltro, definisce come «il principio interiore e dinamico capace di unificare le molteplici e diverse attività del sacerdote»[18].

La configurazione a Cristo, che l’Ordinazione ha innestato, permette al prete di «imitare e rivivere la sua stessa carità pastorale»[19]. Il cuore del pastore è cuore configurato al cuore di Cristo. Il prete ama “in persona Christi”! Ama con il suo amore: è un concetto che non mi stanco di ripetere ai miei presbiteri e che mi sembra essenziale da riversare nella cura di ogni vocazione. La carità, infatti, non esiste allo stato indeterminato, ma solo in riferimento ad una persona: e solo la carità realizza la persona nella vocazione, assumendone la “forma” propria. Ciascuno, cioè, è chiamato ad amare secondo la propria vocazione. Il prete dovrebbe poter amare solo con la carità pastorale; non c’è altro modo per lui di vivere l’amore: un amore che è espressione, manifestazione della sua stessa vocazione e identità.

Il dinamismo proprio, «il contenuto essenziale della carità pastorale – la Pastores dabo Vobis ce lo rivela in modo esplicito – è il dono di sé, il totale dono di sé alla Chiesa, a immagine e in condivisione con il dono di Cristo»[20]. Per questo, ciò che più di tutto spiega il dinamismo intimo della carità pastorale è, alla fine, l’Eucaristia, centro della vita e del ministero del prete. Nell’Eucaristia essa «trova la sua espressione piena» e «dall’Eucaristia riceve la grazia e la responsabilità di connotare in senso “sacrificale” la sua intera esistenza»[21]. Nell’Eucaristia rivive in noi e attraverso di noi il dono totale di Gesù sulla croce, che ispira, motiva e suscita ogni altro dono nella Chiesa; che «ci attira nel suo atto oblativo»[22] e permette il nostro stesso donarci. Ed è qui la radice della comunione con il popolo di Dio, la forza che edifica il popolo di Dio nella comunione e nella corresponsabilizzazione per l’edificazione del Regno di Dio[23]. Penso alla vocazione dei laici, ma penso a come «la carità pastorale del sacerdote – è ancora la Pastores dabo Vobis – esige in un modo particolare e specifico il suo rapporto personale con il presbiterio, unito nel e con il vescovo»[24].

Dalla testimoniata comunione presbiterale – non è forse necessario che lo ribadisca – tante, tantissime vocazioni sono state generate!

La carità pastorale impronta e qualifica il ministero presbiterale come amoris officium, servizio d’amore, che unifica l’essere e il fare del prete, a servizio di ogni vocazione. Un servizio d’amore; dunque, servizio di verità. Troppo spesso la carità dei sacerdoti viene annacquata da una falsa misericordia, da un’arbitraria tolle­ranza che apre le porte anche per noi ad un pericoloso relativismo. Credo che, per il presbitero, una grande sfida dei nostri tempi sia la capacità di coniugare alla carità la parresìa, di esercitare una carità che sa tradurre la ricerca della verità in opere pastorali, in percorsi educativi, in cammini spirituali seri, fermi, coinvolgenti e ricchi d’amore.

Potremmo dire, in modo più forte, che chi guida le anime o è a servizio della verità o della menzogna. Che questo lo veda consapevole o meno. Sappiamo quanto Benedetto XVI stia insistendo sulla pastorale della veri­tà, anche dentro una pastorale dell’intelligenza. Non si possono neppure imma­ginare i danni vocazionali che potrebbe provocare chi non fosse convinto del significato della verità, che deve abitare la libertà del cuore e delle scelte.

 

La carità del pastore, “anima” della pastorale vocazionale

Ed eccoci, allora, giunti alla domanda centrale: come coniugare «carità pastorale» e «animazione vocazionale»? Considerando la carità pastorale – ecco la risposta che vi avevo preannunciato – come «l’anima» della pastorale vocazionale! Da quanto abbiamo detto, tuttavia, risulta che non si può considerare la carità pastorale in senso impersonale, ma bisogna sempre tener conto della ca­rità pastorale del prete, del singolo sacerdote. D’altronde, ogni discorso sulla pastorale della vocazione resterebbe vano, spiritualistico, addirittura – consen­titemelo – falso, senza la consapevolezza che la vocazione si lega al mistero dell’unicità irripetibile della persona umana.

Grazie alla carità pastorale, la stessa figura del pastore diventa l’anima della pastorale vocazionale. Proviamo dunque, in questa luce, a rileggere le varie dimensioni della stessa carità pastorale – principio unificante, dinamico e inte­riore – cercando di applicarle concretamente a quanto diciamo.

 

La carità del pastore: un principio unificante

La carità del pastore è unificante. Il pastore è, pertanto, chiamato ad unifica­re le varie iniziative della pastorale vocazionale. Mi riferisco, anzitutto, al ministero episcopale; di esso, tuttavia, ogni presbitero è collaboratore. Penso alla frammentazione che potrebbe venire – e, di fatto, talora viene – in una diocesi o in una parrocchia, dove ciascun movimento, istituto religioso, gruppo o singola persona, magari particolarmente carismatica, volesse portare avanti le proprie “ispirazioni” in proposito.

Penso alle iniziative che si moltiplicano e per le quali bisogna veramente bene­dire il Signore: le settimane vocazionali, le adorazioni notturne, i gruppi di discerni­mento giovanili, le pubblicazioni… ma che necessitano – come il Documento Nuove Vocazioni per una Nuova Europa sostiene – di un coordinamento[25].

La carità pastorale ispira questa molteplice attività, che deve andare avanti in ogni comunità, ma trae ispirazione anche da quella particolare lettura della realtà che al prete è data dal contatto diretto con le anime.

Proprio il rapporto tra direzione spirituale e pastorale vocazionale, ad esem­pio, ci mostra l’importanza della lettura della realtà concreta del mondo giovanile che la direzione spirituale può permettere e che, più di altre “indagini conosci­tive”, consente di ideare percorsi vocazionali realmente ispirati alla realtà, di concertare iniziative opportune e di portarle avanti in modo armonico.

Uno dei doni del sacerdote – dicevamo – è quello di essere chiamato a “conoscere” e ad ascoltare il gregge. Oggi c’è tanta nostalgia di qualcuno che ti ascolti. E spesso altre figure raccolgono confidenze e quesiti che sgorgano dall’animo umano e che i preti non hanno il tempo di ascoltare e discernere, mancando così di offrire risposte di fede ai tormenti e alle domande fondamentali dell’uomo. La carità pastorale, necessaria alla pastorale vocazionale, richiede questa attenzione; richiede, particolarmente, una grande vicinanza al mondo giovani­le. I giovani di oggi saranno i coniugi, i pastori, i consacrati di domani.

Credo che la pastorale della Chiesa, con le Giornate Mondiali della Gio­ventù, abbia trovato uno straordinario canale di comunicazione con i giovani, ma anche di comunicazione attraverso i giovani. Nessun pastore può più pensa­re ad una pastorale senza di loro. Per questo, nessun pastore può più pensare ad una pastorale che non sia propriamente vocazionale.

Comprendiamo come sia pedagogicamente utile, in questo senso, poter abbinare la celebrazione della Giornata Diocesana della Gioventù con la Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni. Ho fatto questa bellissima esperienza attraverso il CDV e mi appresto a viverla come pastore di una diocesi. Credo sia un concreto modo di dire che la risposta alla vocazione è il tema fondamentale, l’impegno fondamentale, il motore fondamentale che anima la stessa età giova­nile. Se tutte le scelte in questo tempo germogliano, come dire meglio di così che, fra tutte, principale è proprio la scelta dello stato di vita?

 

 

La carità del pastore: un principio dinamico

Abbiamo poi definito la carità pastorale come un principio dinamico.

Un principio che non solo unifica, ma spinge dal di dentro. Spinto da que­sta carità, il pastore è colui che spinge alla carità le diverse persone. Che aiuta ad orientare e a riportare sempre alla dinamica della carità non solo chi vive il discer­nimento o comunque il cammino della propria vocazione, ma anche chi è chiama­to a vivere per la vocazione altrui. «La crisi vocazionale è anche crisi di comunione nel favorire e far crescere le vocazioni»[26]. Quanto è importante quel “discernimento dei carismi” che permette una pastorale vocazionale unitaria: anzi, direi meglio, realmente comunionale! Ma quanto è importante che ogni servizio nella Chiesa – dunque anche il servizio specifico degli operatori di pastorale vocazionale – sia sempre radicato nella dinamica del dono!

Sappiamo bene tutti noi quante tentazioni pericolosissime siano sempre in agguato:

-il protagonismo dell’operatore pastorale;

-la manipolazione della vocazione che parte da un’idea precostituita sulla persona;

-la privatizzazione delle vocazioni: pensiamo alla crisi della vita religiosa, che troppo spesso non offre ai religiosi stessi la lucidità necessaria alla libertà della guida spirituale;

-l’ombra del fallimento e la certezza della sterilità…

E, invece, ecco il dono di sé, sottofondo e criterio di ogni servizio. La paternità di cui il pastore viene, per grazia, arricchito si esercita a pieno titolo anche verso coloro di cui Dio stesso si serve per la guida delle vocazioni. Più questa pastorale vocazionale vive, potremmo dire, di vera carità pasto­rale, più ognuno troverà un posto in questa carità. Il pastore, in modo particola­re, trova il posto di tutti:

-di chi è chiamato al servizio della Parola, della catechesi, della testimonianza diretta;

-di chi può offrire il supporto delle scienze umane per la crescita della persona;

– di chi può compiere opera di cultura e diffusione;

– di chi dona un contributo più propriamente organizzativo;

– di chi, nella sofferenza e nella preghiera, può “portare in sé” le singole voca­zioni attraverso l’affidamento delle singole anime…

 

La carità del pastore: un principio interiore

La carità pastorale, infine, è principio interiore, anima che vivifica la pasto­rale vocazionale.

Questa pastorale esige certamente delle doti particolari, soprattutto nella parte organizzativa. Ma se è vero quanto abbiamo detto finora, ne deriva che ogni prete è “animatore” vocazionale.

Perché l’animazione vocazionale abbia un’anima, dunque, è necessario ri­ferirci in ultimo all’interiorità del prete. Occorre interrogarsi sulla preghiera del pastore, quella preghiera che prepara, ad esempio, l’incontro spirituale, ma che anche sa chiedere al Signore il dono della vocazione: il dono di far comprendere a ciascuno la propria vocazione. Il pastore o è uomo di preghiera o “non è”! Così l’animatore vocazionale.

Ma il discorso sull’interiorità non concerne solo la preghiera propriamente detta. Esso pone in causa il rapporto del chiamato con la propria vocazione. Ritengo perciò cruciale, a questo punto, una considerazione conclusiva. Mi sembra, cioè, che una riflessione profonda sul tema che mi è stato assegnato esiga una domanda di fondo: i nostri pastori sono formati a questo? Non inten­do dire se sono formati all’animazione vocazionale in senso “tecnico­organizzativo”: di questo aspetto, altri possono essere più direttamente respon­sabili, anche all’interno di realtà quali i CDV, le parrocchie, le comunità…

D’altra parte, nella Pastores dabo Vobis quella pastorale è considerata solo una delle diverse aree della formazione sacerdotale; o, in modo ancor più concreto, la finalizzazione, l’approdo delle altre aree formative che ri­guardano il pastore: formazione umana, spirituale, intellettuale[27].

Mi permetto, a questo proposito, di sottolineare quanto valore abbia oggi, per il futuro sacerdote, una solida e completa formazione umana. Quanto im­portante sia riscoprire il valore dell’uomo per garantire anche una profonda formazione spirituale. Lo dico portando ancora nel cuore l’esperienza viva fat­ta come Rettore di Seminario che, proprio sulla linea della Pastores dabo Vobis, mi ha portato ad inserire il percorso di formazione umana nell’itinerario formativo dei candidati al sacerdozio. È un’esperienza raccolta e pubblicata in un testo[28], nel quale si propone il cammino di educazione alla sessualità, all’affettività e all’amore come percorso di crescita umana e spirituale, nella maturazione della vocazione sacerdotale e di tutti gli altri stati di vita. Desidero tuttavia precisare il significato che attribuisco a tale formazione umana. Non si tratta, cioè, soltanto di garantire il supporto delle scienze psicologiche in particolari situazioni: si tratta di raccogliere la grande sfida antropologica, che tra l’altro oggi sta anche al cuore delle preoccupazioni della Chiesa, e trasformarla in percorso di vita. Si tratta di aiutare ogni chiamato a riscoprire nella propria umanità, accolta nella pienezza del proprio essere spirito incarnato, la dignità e la ricchezza di quel progetto del Creatore, che si esprime proprio nella dinamica vocazionale.

 

Essere uomo – sappiamo che scriveva Giovanni Paolo II – è la «fonda­mentale vocazione», il primo «talento»[29]. Solo chi percepisce la propria umani­tà come il dono fondamentale potrà fare dono di se stesso.

È questa consapevolezza che credo ispiri quanto il Documento Nuove Voca­zioni per una Nuova Europa sottolinea: «Tutta la pastorale vocazionale è costruita su questa catechesi elementare del significato della vita. Se passa questa verità antropologica allora si può fare qualsiasi proposta vocazionale. Allora anche la vocazione al ministero ordinato o alla consacrazione religiosa o secolare, con tutto il suo carico di mistero e mortificazione, diventa la piena realizzazione dell’umano e del dono che ogni uomo ha ed è nel più profondo di sé»[30].

Ma tornando in concreto alla formazione sacerdotale, vorrei esplicitamente insistere sull’importanza, ad esempio, che quel «luogo-segno», che è il Semi­nario, riveste per tutta la pastorale delle vocazioni. Da una parte esso è «segno forte» – leggiamo nel Documento Nuove Vocazioni per una Nuova Europa – «perché costituisce una promessa di futuro»; dall’altra «segno debole, perché chiede una costante attenzione della Chiesa particolare, sollecita una seria pa­storale vocazionale per ripartire ogni anno con nuovi candidati»[31].

Da una parte, segno forte – mi verrebbe di aggiungere – perché testimo­nianza incisiva e provocante; perché luogo di raccolta e di iniziative speciali. Dall’altra, segno debole proprio per la necessità della formazione sacerdotale che esige cura, energia, speranza. A volte ho la sensazione che troppi luoghi dove si formano i futuri pastori non esprimano ancora abbastanza questa cura, questa energia… e, per questo, non sono luoghi di speranza. A poco serviranno gli sforzi in senso vocazionale delle Chiese particolari e parrocchiali se, ad esempio, il Seminario di una dio­cesi non è un luogo aperto, propositivo, accogliente… Se la carità pastorale è l’anima dell’animazione vocazionale, perché è l’anima del sacerdozio, il Seminario è il luogo che, in un certo senso, la coltiva e la custodisce, l’accoglie e la fa crescere.

Giovanni Paolo II, nel libro Dono e Mistero, che racconta la storia della sua vocazione, parla del Seminario come della “pupilla dell’occhio” del vescovo; quella pupilla che lo fa vedere e gli fa vedere la Chiesa del presente e immaginare quella del futuro[32]. Questa pupilla lo stesso vescovo, ed ogni pastore, è chiamato a proteggere, riversando in essa la sua paternità e la stessa maternità della Chiesa e trasmettendo, a sua volta, il mistero di questa paternità spirituale, che poi con­sentirà ad altri pastori di generare altre anime alla fede e alla vocazione. «L’ovile di Cristo ha come responsabili dei figli e dei mercenari. Solo a patto che siano figli i prelati sono pastori», dice infatti Agostino[33]. Perché ogni iniziativa in ambito vocazionale sia feconda occorre che ci siano preti così: figli diventati padri!

 

 

Conclusioni

La riflessione sulla carità pastorale ci ha fatto penetrare nel ministero pecu­liare ed insostituibile che al prete è affidato: quello di vivere lo stesso amore di Cristo, quello di agire “in persona Christi”, quello di essere un “alter Christus”. Anche nell’animazione vocazionale. Dire “alter”, tuttavia, indica da una parte la “similitudine” – come Cristo – dall’altra la “diversità” – altro, appunto.

La vera anima della pastorale delle vocazioni – non lo dimentichiamo – è Gesù Cristo: è il Signore! L’animazione vocazionale conduce alla percezione profonda di questa veri­tà e diventa un “luogo” umano e teologico per una formazione sacerdotale diretta a crescere nell’autenticità del proprio essere pastori che guidano altre vocazioni, senza frapporsi fra l’uomo e Dio.

«Egli deve crescere, io diminuire» (Gv 3, 30), dice il Battista, splendida icona di quella carità pastorale che solo chi diventa «l’amico dello sposo» (Gv 3, 29) può vivere nel profondo.

«Egli deve crescere, io diminuire»: ecco la maturazione vera del pastore e di tutti coloro che accompagnano il cammino di scoperta della chiamata di Dio; ecco, dunque, l’anima della vocazione e della pastorale delle vocazioni.

«Egli deve crescere», nelle anime che ci sono affidate, e noi veramente dobbiamo diminuire; perché, come dice Agostino, si possa «misurare la diffe­renza che c’è tra un uomo che è soltanto uomo e un uomo che è Dio… Una cosa è, infatti, la luce che illumina; un’altra la luce che è illuminata»[34].

Chiudo con un augurio che rivolgo a me stesso e a ciascuno di voi. Che sia questa luce che illumina a permettere la risposta vocazionale; che sia questa luce a risplendere sempre più nei pastori e attraverso pastori secondo il cuore di Dio. Che sia questa luce a guidare ogni discernimento e ogni iniziativa, ad illuminare ogni percorso vocazionale. Perché il cammino di fede e di santità è una crescita di luce e nella luce.

E l’augurio diventa quasi preghiera, con le parole di Agostino che, attra­verso ogni animatore vocazionale, dovrebbero raggiungere ogni chiamato e, attraverso ogni pastore, ogni cristiano:

«Sia dunque Dio a crescere in te, Dio che è sempre perfetto… Ieri lo cono­scevi un poco, oggi lo conosci un poco di più, domani lo conoscerai ancora meglio: è la luce stessa di Dio che cresce in te, così che in qualche modo Dio cresce in te, lui che è sempre perfetto. È come se uno, avendo iniziata una cura per guarire gli occhi da una vecchia cecità, cominciasse a vedere un pochino di luce, e il giorno appresso un po’ di più, e il terzo giorno un po’ di più ancora: egli avrà l’impressione che la luce cresca, mentre la luce è perfetta sia che egli veda sia che non veda. Così è dell’uomo interiore, il quale progredisce in Dio, e gli sembra che Dio cresca in lui; in verità egli diminuisce, decadendo dalla sua gloria per elevarsi alla gloria di Dio»[35].

 

Note

[1] GIOVANNI PAOLO II, Esortazione Apostolica Pastores dabo Vobis, 22.

[2] Ibidem, 26.

[3] CONGREGAZIONE PER IL CLERO, Il presbitero, Maestro della Parola, Ministro dei Sacramenti e guida della comunità in vista del terzo millennio cristiano, II, 1.

[4] GIOVANNI PAOLO II, Esortazione Apostolica Pastores dabo Vobis, 36.

[5] BENEDETTO XVI, Lettera Enciclica Deus Caritas Est, 2.

[6] GIOVANNI PAOLO II, Esortazione Apostolica Pastores dabo Vobis, 26.

[7] PONTIFICIA OPERA PER LE VOCAZIONI ECCLESIASTICHE, Nuove Vocazioni per una Nuova Europa, 33.

[8] Cf BENEDETTO XVI, Lettera Enciclica Deus Caritas Est, 12.

[9] IDEM, Esortazione Apostolica Sacramentum caritatis, 80.

[10] Ibidem, 67.

[11] Cf GIOVANNI PAOLO II, Esortazione Apostolica Pastores dabo Vobis, 34.

[12] AGOSTINO, Commento al Vangelo di Giovanni, Città Nuova, Roma 2005, p. 730.

[13] Ibidem, p. 748.

[14] GIOVANNI PAOLO II, Esortazione Apostolica Vita Consecrata, 84.

[15] AGOSTINO, Commento al Vangelo di Giovanni, p.1188-1189.

[16] GIOVANNI PAOLO II, Lettera ai Sacerdoti per il Giovedì Santo 1979.

[17] IDEM, Esortazione Apostolica Pastores dabo Vobis, 48.

[18] Ibidem, 23.

[19] Ibidem, 22.

[20] Ibidem, 23.

[21] Ivi.

[22] BENEDETTO XVI, Lettera Enciclica Deus Caritas Est, 13.

[23] Cf GIOVANNI PAOLO II, Esortazione Apostolica Pastores dabo Vobis, 74.

[24] Ibidem, 23.

[25] PONTIFICIA OPERA PER LE VOCAZIONI ECCLESIASTICHE, Nuove Vocazioni per una Nuova Euro­pa, 29.

[26] Ibidem, 29e.

[27] Cf GIOVANNI PAOLO II, Esortazione Apostolica Pastores dabo Vobis, 57.

[28] SANTO MARCIANÒ, PAOLA PELLICANÒ, Secondo il mio cuore (Ger 3, 15). Sessualità, affettività e vocazione all’amore: un itinerario formativo, un cammino spirituale, S. Paolo, Cinisello Balsamo 2001.

[29] GIOVANNI PAOLO II, Lettera alle Famiglie, 9.

[30] PONTIFICIA OPERA PER LE VOCAZIONI ECCLESIASTICHE, Nuove Vocazioni per una Nuova Euro­pa, 36b.

[31]Ibidem, 29b.

[32] GIOVANNI PAOLO II, Dono e Mistero. Libreria Editrice Vaticana. Città del Vaticano 1996, p. 110.

[33] AGOSTINO, Commento al Vangelo di Giovanni, p. 739.

[34]Ibidem, p. 312.

[35] Ibidem, p. 317.