N.06
Novembre/Dicembre 2008

Donare fiducia

Una riflessione sul tema della fiducia dal punto di vista antropologico-filosofico

A prima vista potrebbe sembrare che la fiducia sia merce rara, se non oramai in via di estinzione. Ciò non toglie che lo sguardo filosofico sia in grado di mostrare che la fiducia è nel cuore dell’esistere umano e, amica dell’amore e della speranza, costituisce l’umile forza rigeneratrice di quella vocazione alla libertà e al dono che è ogni vita umana.

 

Il termine «fiducia»

Il termine «fiducia» (trust; Vertrauen; confiance; confianza) fa riferimento al latino fiducia. Indica (probabilmente da fidem ducere) l’avere confidenza in sé o in altri e dunque la convinzione che qualcosa o qualcuno sarà conforme alle proprie aspettative.

Nel campo semantico di «fiducia» troviamo anche il termine più specifico «fede» (fides; faith, belief; Glaube; foi; fè) che, in generale – secondo il significato fondamentale del verbo latino credere e, ancor più, secondo il greco pìstis (derivato di peìthen [persuadere] il cui medio peìsthai significa «lasciarsi persuadere», «obbedire», «aver fiducia») – dice consenso, assenso. L’«essere nella fede» è legato al credere come fidarsi, affidarsi, per cui questo termine si trova anche come sinonimo dei termini fiducia e credenza, o almeno vicino ad essi.

Tra i due termini vi è differenza in quanto «fiducia» ha più diretto riferimento ai rapporti tra le persone, mentre «credenza o fede» si riferisce più strettamente ad un fatto o ad un’affermazione e, in generale, al campo del conoscere. La «fede» può poi essere intesa in due sensi: attivo e passivo. Il senso attivo si realizza in chi, aderendo, si affida o si fida (in riferimento a persone, idee, fatti); il senso passivo si verifica in quella cosa cui si aderisce, ossia il contenuto o tema della fede. Nel senso qui descritto la «fede» appartiene – come la «fiducia» – all’esperienza umana universale, sia come forma della relazione, sia come determinazione della manifestazione del senso. Tuttavia «fiducia» e «credenza» hanno in comune il significato-base di adesione (affidarsi, fidarsi, ammettere, dar credito) e si ricollegano ambedue ad una «testimonianza».

Nelle Scritture ebraico-cristiane «fiducia» indica il fidarsi delle promesse di Dio affidandosi a lui. Qui si tratta di fiducia connotata da una particolare reciprocità, per cui se da un lato, alla promessa che «Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze» (1Cor 10,13), corrisponde il reciproco invito rivolto all’uomo: «non tenterai il Signore Dio tuo» (Dt 6,16; Lc 4,9), dall’altro vi è poi l’affermazione della positiva unilateralità della fiducia divina: «Certa è questa parola: se moriamo con lui, vivremo anche con lui; se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo anch’egli ci rinnegherà; se noi manchiamo di fede [apistoùmen] egli però rimane fedele [pistòs] perché non può rinnegare se stesso» (2Tm 2,11-13).

In Cicerone la «fiducia» è necessaria ad uno dei due atti della fortezza: quello di «aggredire» una situazione avversa, giustapposto al «sopportare»; qui «fiducia» viene intesa come fiducia in se stessi, nelle proprie capacità di portare a termine un’opera che sarà eseguita grazie alla magnificenza con adeguata spesa e fatica[1]. Tommaso d’Aquino, invece, ha inteso la «fiducia», dal punto di vista morale, come una parte integralis della virtù cardinale della fortezza, senza la quale non vi sono atti di tale virtù[2]. Oggi s’intende la fiducia in senso ampio, accogliendo complessivamente i significati del termine. Si parla dunque di fiducia globale e di mancanza di fiducia intesa come insicurezza, paura del futuro, della guerra, del terrorismo, della crisi economica.

 

La difficoltà della fiducia

In tutte le epoche la fiducia è un motore per lo sviluppo della storia umana. Nella nostra epoca, però, per una serie di motivi di rilievo culturale, tra cui spiccano la morte delle ideologie e il tendenziale nichilismo, la pratica della fiducia è divenuta piuttosto difficile. Nel Novecento alcune grandi visioni costruite dalla modernità promettevano che l’uomo sarebbe stato capace di costruire da sé la propria felicità. Esse si sono però rivelate contrarie al progresso, alla dignità umana e alla libertà. I marxismi, i fascismi e i miti di una tecnoscienza e di un’economia risolutive di tutti i problemi hanno mostrato, sul piano pratico come su quello teorico, i loro limiti e, a volte, la loro portata mortifera[3]. Queste visioni, che avevano favorito un clima di ottimismo e di fiducia fondato però su motivi illusori, sono così andate in crisi, generando una diffusa disillusione.

Questo stato di cose ha reso più evidente l’insicurezza collegata a quel tendenziale nichilismo che già percorreva l’occidente e che, come ha affermato Nietzsche, consiste principalmente nel fatto che «manca il fine», «manca la risposta ai perché» e «i valori supremi si svalutano»[4]. Si tratta, per dirla con Heidegger, di quella situazione di «spaesatezza» «in cui non solo gli uomini, ma l’essenza dell’uomo stanno vagando»[5] e rispetto alla quale urge trovare una saggezza del vivere che renda capaci di abitare con responsabilità un mondo e una vita dai contorni sempre più incerti[6], dove sembra non sia più possibile riconoscere delle mete precise e dei valori stabili e universalmente condivisi, capaci di dare orientamento all’esistenza. Ognuno immagina e costruisce i «valori» (la verità, il bene, la pace, la giustizia…) a modo proprio; condividerli, anche solo sul piano di un agire cooperativo, diventa difficile e la proliferazione delle opzioni a disposizione rischia di paralizzare. Questo rende più difficile, solitario e rischioso il cammino della scelta, perché la decisione della libertà che si affida a testimonianze credibili e a visioni stabili, o che segue qualche anonimo «si dice», diventa ardua.

In questo contesto, molte persone non riescono più a sperare in grande e la speranza si riduce alla sfera individuale: al massimo si vivono piccole speranze, barcamenandosi alla meno peggio[7]. Nello stesso tempo, però, questa situazione può rappresentare un’occasione di verità che spinge ciascuno a misurarsi più profondamente con la responsabilità di vivere il dono-compito dell’esistenza umana. Cioè, in altre parole, per riscoprire la vita come vocazione[8].

 

La fiducia come atto originario dell’esistenza umana

Pur se l’esercizio della fiducia è arduo e impegnativo, non appena ci si dedichi ad un’analisi seria e profonda dell’esistenza umana, esso si rivela qualcosa di inevitabile e insopprimibile: quest’analisi mostra, infatti, la fiducia come quell’atto originario dell’esistere che corrisponde alla ineludibile capacità di «affidarsi» a qualcosa/qualcuno. Si tratta di quella forma fondamentale ed elementare di passività e affidamento che precede e alimenta tutti i movimenti espliciti e tutti gli atti corporeo-affettivi, pratici e teorici costitutivi della nostra esistenza rendendoli possibili (così come rende non solo possibili, ma sensate, ovvero non irrazionali e disumanizzanti, tutte le forme concrete che la fede, anche quella esplicitamente religiosa, può assumere nella vita umana). La fiducia così intesa – fiducia originaria – è quell’atto che, liberando in noi l’intelligenza e la libertà, l’amore e la verità, ci fa vivere in modo umanamente dignitoso e responsabile.

Questa fiducia originaria, proprio perché è così intima in ogni nostro atto, è però spesso difficile da vedere. Per comprenderla occorre diventare capaci di riflettere su noi stessi e sugli altri considerando la vita umana nella sua qualità di esistenza: non come un mero «stare lì» quale dato di fatto, ma come quell’«atto», quell’«evento»[9] per cui io vivo e plasmo me stesso decidendo di attuare, in vista del futuro, alcune tra le possibilità che mi sono proprie come mio «aver-da-essere»[10]. In ciò la mia identità, diversamente da un’identità precostituita e data in una fissità insuperabilmente posta, mi si presenta come progetto gettato e aperto, come quell’apertura ad un possibile[11] che – poiché vivere è agire e agire significa scegliere – costituisce l’atto in cui io, esponendomi all’altro da me, mi affermo. In questo senso, la decisione plasmatrice che costituisce l’esistenza è insieme estasi, apertura ed impegno attivo, lotta, esercizio della forza umana per cui uscire da sé è tutt’uno con l’affermarsi. Qui decidere e decidersi significa insieme «dire dei sì» (accettare, aderire) e «dire dei no» (staccarsi, differenziarsi): se io accettassi sempre, senza mai rifiutare o rifiutarmi, finirei per sopprimermi; ma non raggiungerei mai la pienezza di me stesso se non mi riuscisse mai di scegliere qualcuno/qualcosa cui affidarmi, restandogli fedele[12].

 

La fiducia come apertura e l’esperienza di filialità

Se le cose stanno come abbiamo detto, l’«attuazione» dell’esistenza non è solo questione di un rapporto tra me e me: essa è piuttosto – intrinsecamente – un tessuto di relazioni di natura molteplice. Con ciò s’intende che l’«io» è già sempre essere-in, vita aperta-a, persona rivolta-verso e che spetta inevitabilmente alla decisione intelligente della libertà orientare e configurare quest’apertura a partire da ciò che, «altro da me» e «trascendente» (le cose, gli uomini e le donne, i fatti, il mondo, Dio…), mi viene incontro nell’aperto interpellando la mia accoglienza con la sua chiamata e la sua affidabilità. Il che accade in ogni conoscenza, azione e relazione.

Tra tutte le relazioni che caratterizzano il nostro esistere ve n’è poi una, quella filiale (bimbo/madre-padre), che costituisce il luogo primo della nascita della struttura di apertura dell’umanità dell’uomo. Infatti la singolarità aperta e comunicativa dell’esistenza umana si rende possibile in quel riconoscersi perché riconosciuti, che caratterizza l’esperienza della filialità quale inevitabile[13] legame con l’altro materno (duale) e paterno (terzo) che affascina e distrugge, unisce e separa. In questo legame nativo avviene il riconoscimento della possibilità reale e costitutiva dell’affidabilità vissuta e, in particolare, dell’affidabilità di quel campo di realtà, simbolicamente aperto dal terzo che, irrompendo nel legame madre-bimbo, rende possibile a questo legame di risolvere la propria ambivalenza.

Così la fiducia esistenziale, quale legame con l’alterità costitutiva/possibilitante l’umanità dell’uomo, non si indirizza semplicemente alla presenza di una persona o di una cosa (alterità duale), ma andrà sempre alla ricerca e vivrà del desiderio del legame con l’altro, dell’altro che fonda, rendendola stabile e affidabile, la possibilità dell’umano[14].

 

La fiducia, il legame del corpo con l’originario e la rivelazione del dono

Ciò che abbiamo osservato finora permette di cogliere come il movimento che è l’esistenza, in certo modo, inizia sempre in me, ma non avviene mai senza l’altro.

L’incontro con questa alterità interpellante – del sé, degli altri uomini, del mondo e di Dio – inizia in me dal corpo e di qui evolve nelle azioni, nei pensieri e nelle relazioni.

Nell’ordine della corporeità-spazialità «io» inizio a percepirmi come «essere già-sempre nell’essere». Qui l’esperienza propriocettiva del corpo come «carne» («corpo percepito, proprio, vivente»[15]) mi attesta/testimonia la presenza in me di quella passività/alterità donde procede e prende forma l’attività/ creatività del conoscere e dell’agire. Ogni conoscenza e azione – di me e degli altri uomini nella loro differenza dagli oggetti e dalle cose – sgorga da un sentire iniziante nel corpo che quelle «chiarificano», «significano» e «mettono alla prova», verificandone la corrispondenza alla verità e alla giustizia. In questo il corpo è mio e io sono corpo nell’atto in cui il mio corpo è anche altro da me e mi mette in contatto con gli altri e con l’originario, emergendo come potenzialità e limite per la mia ragione, libertà e volontà.

Inoltre il mio corpo – rammemorando e anticipando – mi attesta due eventi fondamentali della mia vita: la nascita e la morte, che, portati a coscienza tematica dagli atti dell’intelligenza e della libertà, mi rivelano qualcosa di essenziale della qualità della mia esistenza e dell’atto originario di fiducia che essa continuamente è. Il corpo mi attesta anzitutto l’avvenimento immemoriale della mia nascita[16]. Ciascuno di noi, ciascun io, un giorno è nato, cioè si è ricevuto – così come è e non come avrebbe voluto essere – in una relazione iniziale che ci costituisce «senza perché», «gratuitamente», «per dono». Così la nascita testimonia che non siamo da noi stessi, ma da altri ed è portatrice di un invito nel quale è in gioco, non anticipabile in una progettualità risolutiva, l’avventura della vita. La nascita, possibilità aprente, col suo segreto misterioso, mi affida il compito di interpretare la vita che mi è data: è alla radice della mia vocazione, che si attua quale progettualità che contraddistingue l’esistenza e che si unisce col dato irrinunciabilmente affermativo dell’essere di ogni singolo nella gettatezza che lo costituisce (il suo essere dato così, con queste possibilità, qui e ora).

In questa prospettiva, i vissuti di ogni giorno appaiono una continua «rinascita», nella quale continua a vivere la relazione costituente donde siamo nati, ove ci cogliamo come dono-da-altri[17]: esercitando le nostre possibilità più proprie, che hanno il loro sigillo e la loro orientazione nel dono dal quale siamo venuti al mondo, siamo chiamati dalla vita a tener vivo il dono originario che ci costituisce nei giochi affascinanti e rischiosi delle nostre libertà finite, che intessono e ritessono continuamente trame di relazioni[18]. Con ciò ciascun essere umano porta perciò nella sua corporeità l’inscrizione ad essere orientamento, apertura a un possibile[19], rispetto al quale la relazionalità vissuta mediante il pensiero e la libertà appare elemento energizzante che mette in movimento invitando al dono[20]. In ciò mi si rivela la vocazione e l’identità profonda della mia vita: quella di essere-per-il-dono. Il che mi rinvia alla formidabile decisione del pormi liberamente di fronte agli «altri» rischiando me stesso: o nell’accoglierli lasciandoli essere se stessi mettendomi a loro disposizione, o nel rifiutarli togliendone l’alterità, tenendomi tutto per me stesso.

Allo stesso tempo il mio corpo, segnato dalla fragilità e dalla finitezza, mi segnala anche – anticipandola – la mia fine: la mia morte, che spesso prevedo in base alla morte degli altri, illudendomi che non mi riguardi. Questa ulteriore indicazione del corpo, che si traduce nella consapevolezza di essere mortale, mi chiede di vivere la giusta misura di me stesso, accettando le mie possibilità come possibilità. Finché la mia morte non è qui ed è solo possibilità, essa si fa già sentire nel fatto che non posso tutto perché ogni decisione è anche una negazione e nel fatto che, soprattutto, non ho il potere di disfare ciò che ho fatto. Di fronte alla possibilità della morte – certa quanto alla sua realtà, incerta quanto all’ora – le possibilità e le decisioni dell’esistenza rivelano così di non avere tutte la stessa portata, lo stesso peso e lo stesso valore e tutte si mostrano come puri e semplici possibili (ovvero come qualcosa che è mentre potrebbe non essere). Così imparo che, pur se lo volessi, non posso tenermi tutto per me stesso. Se, rispetto all’oltre della vita nel mondo (il dopo-morte), la morte è per la filosofia la soglia di un mistero e di una speranza sul quale possono eventualmente illuminarci la fede e la teologia, essa contiene comunque una chiamata silenziosa rispetto al mio oggi in questo mondo, chiamata a vivere con sobrietà e responsabilità facendo del tempo lo spazio per l’accoglienza di me stesso e dell’altro. Poiché, però, questo tempo è breve (e, nella prospettiva cristiana, ci sarà un giudizio) occorre scoprire e capire ciò che davvero conta, per non costruire sulla sabbia. E ciò che conta davvero di fronte alla morte ce lo rivelano ancora l’immemoriale della nascita e l’istanza dell’esistere che ci costituisce da cima a fondo (cioè fino alla «fine», che ci attesta come non possiamo tenerci per noi stessi): essere noi stessi decidendo di lasciar vivere il dono che siamo e che la vita che è in noi promette[21].

 

La fiducia e le relazioni

Il dono che ci costituisce e c’interpella da cima a fondo, nonostante l’ambivalenza della sua traduzione in humanis, dice subito legame, relazione con l’altro[22]. Così l’essere-in, caratterizzato dal dono passivo e attivo (ricevuto e donato), caratterizza l’atto dell’esistere come struttura di relazioni che si costruisce a partire da atti di fiducia o non-fiducia.

Alcuni significativi pensatori contemporanei che hanno riflettuto su queste questioni ci aiutano a penetrarne la profondità.

Heidegger ha colto la centralità dell’esistenza come «essere-nel-mondo» contrassegnato dall’essere coinvolti prendentesi «cura»[23]. La cura heideggeriana è però tanto inevitabile – in quanto l’esserci è sempre avanti rispetto a se stesso – quanto neutra rispetto all’autenticità e l’inautenticità è indifferente rispetto a tendenze d’essere di carattere ontico come la preoccupazione o l’incuranza[24].

Martin Buber ha cercato di andare oltre questa indifferenziata qualità neutra, cogliendo nell’universo delle relazioni possibili una differenza fondamentale tra la relazione io-tu e la relazione io-esso. Per questo pensatore di origine ebraica l’apertura dell’uomo al mondo è, cioè, da intendere nel duplice segno dell’«esperienza» (di oggetti) e della «relazione» (con le persone[25]): nel primo caso si è nell’ambito dell’utilizzabilità e strumentalità; nel secondo il tu non può essere sperimentato come gli oggetti-strumento perché accade solo nella relazione.

Emmanuel Levinas coglie il limite dell’impostazione buberiana e intende la relazione io-tu come relazione all’altro dove il movimento non parte dall’io ma dal «volto» dell’altro che mi guarda in volto, interpellandomi e suscitando la mia libertà affinché divenga bontà. Rifiutando la visione secondo cui il mondo e la società, ovvero l’alterità estranea ed ostile, dovrebbe, logicamente, alterare l’io[26], Levinas introduce la categoria della «prossimità», di ascendenza biblica: il «volto» nella sua filosofia è il modo del prossimo che si approssima. Tale volto è irrappresentabile: è l’essere che è sempre presupposto e mai oggetto. Ed è traccia dell’infinito, traccia di un’assenza[27]: è presenza nell’assenza dell’essere, che è sempre alterità e trascendenza rispetto al dato (l’infinito nel finito). Esso è invito al bel rischio dell’approssimarsi in quanto approssimarsi, all’esposizione dell’uno all’altro. In questo senso io, in quanto soggetto, sono un essere convocato e un approssimarsi, e il volto del prossimo è il chiamare originario che costituisce il soggetto in quanto approssimante. Qui chiamare è invitare ad essere; il convocato risponde approssimandosi all’altro, rispondere è essere per l’altro: l’io in sé non è, l’io è per l’altro. E in questa presenza, in cui l’io non è più a sé stante ma un «eccomi», ciò che è in causa è, prima ancora della fiducia, la responsabilità che ne costituisce la premessa. Il corrispondere al volto del prossimo provoca l’esistere come apertura accogliente e mi fa essere. L’essere del soggetto, la prossimità, è accoglienza e ospitalità. In essa la fiducia, che levinassianamente ha in sé sia la forza dell’amore-bisogno (passionale, teso alla conservazione di sé e al godimento mediante il nutrirsi dell’altro) che quella dell’amore dono (altruistico, teso a dare la vita per altri, a farsi nutrimento per loro)[28], viene al mondo se l’io accede alla responsabilità per l’altro nell’ospitalità per il «terzo», ovvero – come sostiene Levinas – la presenza di tutta l’umanità che guarda l’io e il tu e li chiama[29]. Da questo punto di vista, la relazione di fiducia non è più puramente duale (io-tu; io-altro), ma è sempre aperta alla fraternità umana.

Alla riduzione dell’essere della coscienza all’attestazione dell’essere nel mondo, caratteristica della prima filosofia heideggeriana, Levinas ha opposto una riduzione simmetrica dell’alterità della coscienza all’esteriorità dell’altro che si manifesta nel suo volto.

A questa alternativa, troppo radicale, Paul Ricoeur ha recentemente opposto il carattere originale e originario di ciò che gli sembra costituire l’essere-ingiunto in quanto struttura dell’ipseità[30] dove, alla radice della mia libertà e del mio dovere, – che rendono possibile l’apertura e la risposta che è la mia esistenza – c’è quell’ incondizionato per cui esse sono in me senza essere da me e dunque sono altro, l’altro in me. Forse – osserva Ricoeur – il filosofo, in quanto filosofo, deve confessare che egli non sa e non può dire se questo altro, fonte dell’ingiunzione e della costituzione del sé, è ultimamente un altro che io possa guardare in faccia o che mi possa squadrare, o i miei antenati di cui non c’è rappresentazione, o Dio – Dio vivente, Dio assente – o un posto vuoto. Su questa aporia dell’altro il discorso filosofico si arresta per cedere il posto all’affidamento ultimo cui la libertà è chiamata nel suo decidersi radicale.

L’esito di tutto questo cammino pluralistico è che l’uomo perviene a se stesso nella misura della sua apertura ad altri, apertura che è già inscritta nell’originario indeducibile del suo essere cosciente e che si esercita nel nesso affettivo, teorico e pratico col mondo nel quale l’io, riflessivamente, costituisce e ritrova se stesso e la sua libertà, rispondendo responsabilmente alla chiamata dell’altro che lo suscita, affidandosi – con rischiosa decisione – alla chiamata di cui questi è portatore. Questa è la circolarità relazionale tra l’io, l’altro e il terzo dove vive la fiducia.

 

La fiducia e la struttura temporale dell’esistenza

Tutto questo avviene come configurarsi temporale dell’apertura del soggetto nel gioco dei reciproci rimandi tra «aver da essere», «essere stato» ed «essere presente». Ed avviene nel modo in cui noi siamo anzitutto protesi al futuro. A quel futuro di cui dobbiamo dire: esso non è ancora conosciuto, non è ancora stato esperito da noi. E così, ad ogni passo, camminiamo su un terreno inesplorato, con la conseguenza che il cammino della nostra esistenza ci procura anche preoccupazione. In questo senso esistere, aver-da-essere, è dare attualità all’attesa. Attendiamo che l’essere futuro ci sorregga, ci metta al sicuro, ci procuri un senso compiuto.

Ascoltando questa insopprimibile attesa di futuro si comincia a fare affidamento-su. Io non conosco il mio futuro, ma devo impegnarmi in esso, rischiando con la mia libertà. Di fronte ad esso non ho evidenze, devo porre un atto di fiducia ragionevole. Le relazioni e le esperienze umane fondamentali (l’amore, il perdono, la generazione, l’impegno, la lotta, ecc.) sono abitate da questa fiducia: qui tutto è attraversato da una decisione per il possibile e l’impossibile.

Solitamente non ci diamo molto pensiero di sapere se i passi che stiamo compiendo continueranno a portarci. Ma nel far questo operiamo continuamente una sorta di precorrimento o anticipazione che fonda la possibilità dell’esistenza in tutte le sue forme. Questo precorrimento, per il quale noi per il solo fatto che vivendo decidiamo e ci orientiamo nell’esistenza, passando continuamente e inevitabilmente il confine che divide il conoscibile e calcolabile dall’ignoto e incalcolabile in un oltrepassare che è la condizione dell’attuazione stessa dell’esistenza, costituisce un elemento fondamentale del prendere forma di quella fiducia originaria di cui abbiamo finora parlato.

In esso ci affidiamo al futuro, ma anche agli altri, al nostro prossimo, in un incontro reciproco dove noi diventiamo noi stessi in un reciproco diventare se stessi, nel quale anche ciò che chiamiamo realtà acquista una forma diversa, nuova. Qui siamo alla prova della libertà. L’atto dell’affidarsi è, infatti, sempre anche un «salto», perché non nasce con necessità rigorosa da una pre-conoscenza, da una previsione o da un calcolo, ma avviene liberamente, senza costrizione, in umiltà e fiducia, con un investimento di dono che nasce dalla speranza. L’altro, testimoniando se stesso di fronte a me, mi pone chiamandomi alla libertà. Io non devo di necessità credere in lui e lo lascio essere in libertà, come dicendogli: sii te stesso, io mi affido a te.

 

Donare fiducia

La fiducia è, dunque, ciò che nella relazione tra libertà e libertà che costituisce l’esistenza, lascia sempre spazio affinché il possibile dubbio si sciolga in un possibile dono. Perciò si dice che noi «doniamo» fiducia a qualcuno.

 

Note

[1] Cf M. T. CICERONE, Rethorica seu De inventione oratoria, II, 54.

[2] Cf TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, II a-II ae, q. 128.

[3] Si ricordi la denuncia del potenziale antiumanistico di queste ideologie sviluppata dalla rivista Esprit e, in particolare, l’esame critico della civiltà che ne conseguiva, operato nel 1936 dal personalista cristiano Emmanuel MOUNIER nel suo Manifesto a servizio del personalismo comunitario (Ecumenica Editrice, Bari 19822, in partic. pp. 59-114).

[4] Cf F. NIETZSCHE, Frammenti Postumi – Autunno 1887, in Opere Complete VIII**, pp. 12-14. Va tenuto presente anche il discorso sociologico weberiano sul «politeismo dei valori» e l’analisi di Romano GUARDINI ne La fine dell’epoca moderna (Morcelliana, Brescia 1960, in particolare nel capitolo «L’immagine moderna del mondo si disintegra. Un’altra ne appare»).

[5] M. HEIDEGGER, Lettera sull’ «umanismo», in “Segnavia”, Adelphi, Milano 1987, p. 291.

[6] I tratti caratteristici di quest’incertezza, come si danno nell’epoca della globalizzazione, sono ben delineati negli scritti di Zygmunt BAUMAN, in particolare Modernità liquida (Laterza, Roma-Bari 2008 13) e Paura liquida (Laterza, Roma-Bari 2008). Per uno sguardo sintetico alle caratteristiche salienti della cultura attuale, «postmoderna» cf R. TOMMASI, L’ascolto della realtà e la questione del metodo in teologia pastorale. Un contrappunto filosofico, in “Orientamenti Pastorali” 8(2007), in partic. pp. 22-38.

[7] Per una riflessione sul tema della speranza rinviamo a: BENEDETTO XVI, Spe salvi, 30.12.2007, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2007.

[8] Dicendo che la vita umana è vocazione intendiamo mettere in luce come essa sia sempre un appello, una chiamata: «diventa ciò che sei», metti in atto le tue possibilità decidendoti in vista del tuo aver da essere, del senso che il tuo essere racchiude. La responsabilità (dal latino respondeo = rispondo) inizia proprio dalla risposta all’appello della vita umana che è in me, vita che, in quanto umana, rimanda alla possibilità di relazione buona con gli altri.

[9] Cf B. WELTE, Che cosa è credere, Morcelliana, Brescia 1983, p. 29.

[10] Con «esistenza» intendiamo qui – ispirandoci in modo originale a Martin Heidegger – qualcosa di preciso e specifico: in questo filosofo del Novecento, diversamente dalla precedente tradizione filosofica secondo la quale il termine (affiancandosi e opponendosi a essentia) diceva il sussistere nella realtà effettiva, existentia indica l’ex-sistere della natura umana, cioè il suo carattere «estatico» nel senso del suo «stare fuori» ed essere esposta al suo «non ancora», che richiede di essere progettato e deciso. Con linguaggio più poetico potremmo dire, assieme a Gabriel Marcel e a Martin Buber, che esistere significa «essere in cammino».

[11] Cf M. HEIDEGGER, Essere e tempo, Longanesi, Milano 2005, in partic. pp. 360ss. Oggi, in questo senso, si parla dell’identità umana come di un’«identità aperta». Per approfondire questo tema in chiave di antropologia cristiana cf I. SANNA, L’antropologia cristiana tra modernità e postmodernità, Queriniana, Brescia 20022.

[12] Cf E. MOUNIER, Il personalismo, AVE, Roma 19785, pp. 79-82. Vedi anche: G. MARCEL, Homo viator. Prolegomeni ad una metafisica della speranza, Borla, Roma 1980, pp. 147-190.

[13] Se non tutti gli uomini sono genitori, tutti sono però figli.

[14] Cf R. MAIOLINI, Tra fiducia esistenziale e fede in Dio. L’originaria struttura affettiva della coscienza credente, Glossa, Milano 2005, p. 433.

[15] I termini corpo «di carne», «vissuto», «proprio» vanno oltre le immagini del «corpo prigione» (di ascendenza orfica) e del «corpo macchina» (di ascendenza cartesiana) per accedere (sulla scia di E.B. de Condillac, F.P. Maine di Biran, A. Rosmini, F. Nietzsche, nonché della fenomenologia di E. Husserl e di alcuni suoi discepoli come E. Stein, M. Merleau-Ponty e P. Ricoeur) alla visione secondo cui il «corpo umano vivente» – che, a differenza di tutti gli altri oggetti estesi, non si lascia mai oggettivare interamente – rinvia a quella sintesi complessa per cui, portatore di diversi campi sensoriali e percettivi, costituisce il «punto zero» – sempre supposto ma sempre inosservabile – del mio orientamento nel mondo spaziale ed è la sede primordiale delle espressioni dell’io che ha un rapporto con la volontà e il pensiero: in questo senso, esso è rapporto con la coscienza (tutta la coscienza è legata al corpo, tutto il corpo alla coscienza) e con il mondo (le cose e gli altri sono incontrati muovendo dalla corporeità). Recentemente Michel Henry ha parlato in proposito di una «Affettività originaria» della «carne» (cf M. HENRY, Incarnazione. Una filosofia della carne, Sei, Torino 2001, in partic. p. 71).

[16] Cf C. ROMANO, L’événement et le mond, Epimethée PUF, Paris 1999 2, pp. 60ss.

[17] Cf ibidem, p. 111. Ogni avvenimento successivo alla nascita, generato a partire da un progettarsi, diventa così riappropriazione di quanto di essa rimane ancora immemoriale ed eccedente.

[18] Cf M. HENRY, De la Phènomènologie, Tome I, PUF, Paris 2003, p. 131.

[19] Cf V. MELCHIORRE, Corpo e persona, Marietti, Genova 1987, p. 95.

[20] Cf J.L. MARION, Dialogo con l’amore, Rosenberg & Sellier, Torino 2008.

[21] È istruttivo, anche se volutamente provocatorio, quanto afferma in proposito di J. L. Marion che, commentando Dionigi, chiama allusivamente questo atto «ridondanza»: «Ricevere il dono significa ricevere l’atto donatore, poiché Dio ci dà soltanto il movimento d’infinita kenosi della carità, cioè tutto. L’uomo riceve il dono come tale solo accogliendo l’atto di donare, cioè donando a sua volta. Ricevere il dono e donare si confondono in una ed identica operazione, la ridondanza. Solo il dono del dono può ricevere il dono, senza appropriarselo e distruggerlo in un mero possesso. Chi non donasse non riceverebbe nulla, senza paralizzarlo subito nel proprio possesso. Ricevere e donare terminano perciò nello stesso atto» (J. L. MARION, L’idolo e la Distanza, Jaca Book, Milano 1979, p. 168).

[22] La parola “dono” per lo spirito moderno significa un’operazione commerciale, in seguito alla quale un oggetto cambia di proprietario (do ut des). Le situazioni umane in cui avviene il dono scambio sono in realtà sottili: a parte l’ambiguità stessa del dono (che rende in qualche modo dipendente chi lo riceve e può essere una trappola: Timeo Danaos et dona ferentes), in humanis la gratuità allo stato puro sembra non esistere e un controdono è spesso insieme il prezzo, garbatamente taciuto, ma culturalmente fissato, da pagare da parte di colui che si lascia gratificare e la manifestazione della potenza stessa del beneficato, che ha sperimentato nel dono ricevuto una violazione del suo ambito di potere e così si «vendica» invadendo l’ambito del donatore. Se però la modernità rifiuta di credere all’esistenza del dono è perché essa se lo rappresenta come l’immagine rovesciata dell’interesse materiale egoistico (cf J.T. GODBOUT, Lo spirito del dono, Bollati Boringhieri, Torino 1993). La filosofia attuale approfondisce criticamente tutto ciò. Ne è un evidente esempio la discussione tra le ultime, sorprendenti intuizioni di J. Derrida che, sulla scia dell’Es gibt heideggeriano, impongono al pensiero filosofico di misurarsi spregiudicatamente con la tradizione teologale del «puro dono» e le analisi sul dono con cui gli risponde J-L. Marion il quale, visto che il dono non ha ragion sufficiente in quanto questa vi sottostà (nel senso che il dono diventa la ragione di quella ragion sufficiente che si può considerare il principio regale del mondo moderno), connette la logica del dono alla gratuità dell’amore originario.

[23] Per Heidegger il «mondo» rappresenta l’insieme degli altri esseri umani e delle cose a cui noi, come esistenti, ci riferiamo e a cui ci troviamo riferiti. Cf Essere e tempo, pp. 59-273.

[24] Cf ibidem, p. 235.

[25] Cf M. BUBER, Il principio dialogico e altri saggi, Paoline, Cinisello Balsamo 1993, p. 59. Con il termine «relazione» Buber indica esclusivamente il rapporto io-tu, non il rapporto io-esso.

[26] Cf E. LEVINAS, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 1986, pp. 19ss.

[27] IDEM, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Milano, Jaca Book, p. 116.

[28] In modo diverso ma interessante, come questione della correlazione tra eros e agape, questa tematica è stata recentemente ripresa anche da BENEDETTO XVI, nell’enciclica Deus caritas est , 25.12.2005, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006, nn. 3-18.

[29] Cf LEVINAS, Totalità e infinito, p. 218.

[30] P. RICOEUR, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993, p. 473.