N.06
Novembre/Dicembre 2008

La fiducia in San Paolo

Il tema della fiducia racchiude vari aspetti dell’esistenza umana e rivela con i fatti quella che è la visione dell’uomo e di Dio; essa manifesta il modo di intendere la realtà e come ci si relaziona ad essa. La fiducia, infatti, determina la relazione con se stessi, con gli altri e con Dio. Per fiducia s’intende la confidenza, l’interiore certezza riguardo a qualcuno o qualcosa, che genera l’adesione del cuore e della mente, quindi il conseguente affidamento mosso appunto da una rassicurazione interiore, che diviene esperienza di libertà, di franchezza, di vitalità e forza del vivere[1].

Anche se esiste un’espressione proverbiale, in realtà la fiducia non può mai essere cieca, o almeno non totalmente. Essa, infatti, si fonda sempre su alcuni elementi o condizioni, quali:

– Conoscenza: per fidarsi di qualcuno occorre conoscerlo, infatti non si può avere fiducia degli sconosciuti, verso i quali si è appunto diffidenti.

– Sentirsi amati: per poter riporre la nostra fiducia in qualcuno dobbiamo sentire che questo qualcuno ci vuole bene, ci ama e quanto maggiore è il bene che ci vuole tanto maggiore sarà la fiducia che riusciamo a dargli. (È questa la situazione in cui si trova ad esempio un bambino, che è capace persino di gettarsi nel vuoto, se è la mamma o il babbo a dirglielo, perché sa che ci saranno le sue braccia ad accoglierlo). È solo quando ci si sente molto amati che si può arrivare ad avere una fiducia cieca in colui che ci ama, certi che egli vuole il nostro bene e che mai farà qualcosa di male verso di noi o contro di noi.

– Sentirsi deboli e incapaci: chi ha piena fiducia in se stesso e nelle proprie capacità non sa riporre fiducia negli altri, perché non si sente bisognoso, debole, incapace, ma pensa di bastare a se stesso quanto a forza, capacità, sicurezza e dunque non sa completamente mettersi nelle mani dell’altro. Solo chi riconosce umilmente i propri limiti può accettare di affidarsi e fidarsi di qualcun altro.

Si può inoltre dire quali siano le caratteristiche che suscitano e alimentano la fiducia: stima, credibilità, coerenza (un agire che va di pari passo con quello che si proclama), sincerità, fedeltà alle promesse fatte, sintonia sui valori fondamentali della vita e della fede.

Partendo da queste considerazioni, tratte dalla comune esperienza umana, possiamo porci alcune domande concrete su Paolo: come è nata la fiducia di Paolo in Gesù? Su quali di queste caratteristiche si fondava? Come si è messo in gioco nei confronti del suo Signore? Come si è guadagnato la fiducia degli altri? Come, attraverso la fiducia nei suoi confronti, ha portato gli altri alla fiducia in Dio?

 

Fiducia umana, fiducia in Dio

La compiacenza di se stesso, la consapevolezza delle proprie forze, la rassicurazione derivante dal fare affidamento su quello che era ritenuto rilevante sia dal punto di vista sociale che religioso ha determinato in Paolo, come in ogni pio israelita, la formazione della sua giovinezza. La famiglia benestante ha fornito a Paolo i mezzi necessari affinché non gli mancasse nulla per raggiungere uno stato elevato nella società ebraica: circonciso l’ottavo giorno, avviato alla fede dei padri nell’orgoglio di appartenere alla prediletta tribù di Beniamino, indirizzato alla stretta osservanza della torah all’interno del farisaismo, per di più dopo una formazione culturale nella grande Tarso dell’epoca romana, avviato agli studi specialistici a Gerusalemme alla scuola del grande Rabbi Gamaliele, erede e forse nipote del caposcuola Rabbi Hillel. Tradotto in categorie moderne, possiamo dire che Paolo aveva avuto tutto quello che umanamente era possibile avere: base culturale invidiabile, capace di abbracciare il mondo greco e quello giudaico; conoscenza delle lingue del tempo: ebraico/aramaico, greco e latino; avviamento professionale e religioso. Tutto questo aveva generato in lui una estrema fiducia “secondo la carne”, cioè secondo le categorie valoriali sia del mondo religioso che civile: si sentiva di sfidare il mondo intero! Paolo aveva imparato a porre la sua fiducia in tutto questo… e a buon titolo! Eppure questa fiducia, che gli garantiva un futuro prospero e luminoso, crollò tutto d’un tratto rivelandosi inaffidabile, anzi dannosa.

 

“Siamo noi infatti i veri circoncisi, noi che rendiamo il culto mossi dallo Spirito di Dio e ci gloriamo in Cristo Gesù, senza avere fiducia nella carne, sebbene io possa vantarmi anche nella carne. Se alcuno ritiene di poter confidare nella carne, io più di lui: circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge. Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede” (Fil 3,3-9).

 

Paolo tornerà spesso, nei suoi scritti, sul concetto di vanto secondo le categorie umane ed anche religiose nei riguardi di coloro che si credevano super apostoli, ma di fatto confidavano solo su stessi e non sull’agire di Dio:

 

“Bisogna vantarsi? Ma ciò non conviene!… Certo se volessi vantarmi non sarei insensato perché direi solo la verità; ma evito farlo perché nessuno mi giudichi di più di quello che vede o sente da me” (2Cor 12,1.6).

 

Scrivendo a Timoteo, Paolo dice: “Ai ricchi in questo mondo raccomanda di non essere superbi, di non riporre la speranza sull’incertezza delle ricchezze, ma in Dio, che tutto ci dona con abbondanza per nostro godimento…” (1Tm 6,17).

 

Il tracollo e la relativizzazione della fiducia basata sulle sue forze furono causati dall’incontro con il Risorto, sulla via di Damasco. Questa esperienza lo segnò per il resto della sua vita. La sua fu al tempo stesso una conversione o, meglio, una maturazione vocazionale: il Risorto gettò una luce capace di far leggere le cose nel loro valore, aprendo nuove vie e nuove prospettive; Damasco fu un demolire la propria sicurezza, per sostituirla con un’altra; fu un relativizzare la fiducia umana per puntare su quella di Dio. Quello che fino ad allora gli dava fiducia e certezza, a partire da se stesso, divenne paglia bruciata al fuoco dell’amore di Cristo, per cui tutti quei vantaggi in chiave umana furono spazzati via in un momento. Anzi, con scioltezza e naturalità, fu lui stesso a gettarli via, cominciando ad avere una retta valutazione delle cose e a capire che la vera fiducia non è quella che si ha in se stessi, partendo da se stessi, ma partendo da Dio; la confidenza in sé viene illuminata ed integrata dall’amore di Dio:

 

«Egli mi ha detto: “ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo» (2Cor 12, 9).

 

Fiducia-relazione come adesione a persona degna che parla e agisce

Quanto impegno speso da Paolo per acquisire la fiducia in se stesso! E il Signore lo ha portato a dubitare delle sue forze e delle sue sicurezze, fino a fargli abbracciare quello che prima riteneva disdicevole e negativo: “di me stesso non mi vanterò che delle mie debolezze” (2Cor 12,5). Pura follia, che nessuna visione sana dell’uomo potrebbe sottoscrivere: confidare su ciò che è debole, su ciò che non ha né valenza né rilevanza. Paolo, prima dell’incontro con Cristo, è l’immagine di ogni uomo che rifugge da tutto ciò che è stolto, non nobile, non potente, ma per gratuità di Dio ha imparato che

 

“Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, ciò che è debole per confondere i forti, ciò che è ignobile, ciò che è nulla per ridurre al nulla le cose che sono” (1Cor 1, 27-28).

 

La fiducia nasce da un lasciarsi convincere, che significa credere ad un altro, come pure da un lasciarsi persuadere, che comporta un seguire un altro, essere docile, ubbidire. Sotto questa prospettiva, Paolo presta ascolto a Gesù che parla, che dà le sue credenziali. L’ascolto di Paolo presuppone non solo l’organo dell’udito, ma la docilità del cuore, l’apertura del suo animo che diventa disponibilità. Prima dell’incontro con Cristo, la ragione dell’agire era la propria fede religiosa, il proprio convincimento; dopo l’incontro, tutto è raccordato a lui.

La dinamica ascolto-conoscenza-fiducia in-affidarsi a-vivere in relazione con colui al quale ci si è affidati lo si vede nella narrazione degli Atti ed è sparsa in tutto l’epistolario paolino:

– Bisogno di ascoltare la voce

«udì una voce che gli diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”. Rispose: “Chi sei, o Signore?”. E la voce…» (At 9, 4-5).

– Conoscenza della persona

“Io sono Gesù, che tu perseguiti!” (At 9, 5). “E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze” (Fil 3,10).

– Fiducia in-affidarsi-vivere in relazione con

“Orsù, alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare.

Saulo si alzò da terra… lo condussero a Damasco” (At 9, 6.8).

“diventandogli conforme nella morte…solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo” (Fil 3, 10.12).

 

Si costata che la fiducia indica l’azione di una persona che presta fede ad un altro, gli dà il suo assenso, si abbandona a lui e in lui; la fiducia non indica uno stato o una situazione in cui ci si viene a trovare e in cui si rimane fermi o immobili, ma un movimento interno della persona verso qualcuno, una risposta a chi per primo ci ha interpellato, una relazione vitale con qualcuno. Per Paolo la fiducia/fede è un movimento, avvenimento salvifico, relazione con qualcuno, vita; un “correre per afferrare Cristo, che l’ha afferrato” (Fil 3, 12), “un correre verso la meta, per conseguire il premio di quella suprema vocazione di Dio in Cristo Gesù” (Fil 3, 14), un vivere “nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2, 20), un cominciare per mezzo dello Spirito per arrivare alla perfezione del Cristo Signore (cf Gal 3, 3; Ef 4, 13). In breve: per Paolo la fiducia lo conduce a sperimentare che per lui “il vivere è Cristo” (Fil 1, 21).

Fiducia e conoscenza significano far entrare l’altro in me, ammettere l’altro in me; è diventare una cosa sola con la persona accolta o con la cosa conosciuta, la fiducia è aprire le porte all’altro perché entri in me. Amare, d’altra parte, è il mio entrare nell’altro, nei suoi interessi, nel suo mondo. Se comprendere è fare mio l’altro (lasciarlo entrare in me), amare è farmi suo (entrare nell’altro) e Paolo vive misticamente questa dinamica umana e religiosa, ha fatto entrare Cristo nella sua vita e la sua in lui:

 

“sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2, 20).

 

Fiducia e ascolto del Vangelo

La fiducia nel Signore è nata in Paolo dalla credibilità di Gesù-parola e persona. Questa dinamica continua nel tempo; infatti, l’annuncio del Vangelo se accolto, ascoltato, genera la fede come fiducia e come adesione alla verità di salvezza che è Gesù. In Gal 3, 2 Paolo scrive: “Questo vorrei sapere da voi: lo Spirito l’avete ricevuto in virtù delle opere della legge o in virtù dell’ascolto di fede?” E ancor più in Rm 10,14b: “E in che modo crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? E in che modo ne sentiranno parlare, se non c’è chi lo predica?”. Esiste, per Paolo, un legame stretto tra predicazione e fede, tra “tradizione” che comunica il Vangelo di Gesù Cristo e la fede che, nell’ascolto, accoglie tale vangelo di salvezza. Di tale legame Paolo è convintissimo. Per lui, nella parola dell’apostolo è il Signore stesso che parla, chiama, ammaestra,

introduce nel mistero salvifico di Dio, che opera la salvezza (cf 2Cor 13, 3; 1Ts 4, 2): “non oserei parlare se non di quello che Cristo operò per mezzo mio, allo scopo di trarre i gentili all’obbedienza, sia con la parola che con le opere mediante la potenza dei miracoli e dei prodigi, in virtù dello Spirito di Dio” (Rm 15, 18-19). E ai Tessalonicesi scrive: “Rendiamo continuamente grazie a Dio, perché avendo ricevuto da noi la parola della predicazione, l’accoglieste non come parola di uomini ma, come è veramente, quale Parola di Dio, che anche al presente opera in mezzo a voi che credete” (1Ts 2, 13). Soltanto la fede può percepire e percepisce di fatto la parola di Dio nella parola dell’uomo. La fede ode e comprende che la parola di salvezza annunciata non è dell’apostolo che la comunica, ma di Dio che la pronuncia, per la salvezza di tutti, mediante gli intermediari umani, gli ambasciatori del suo amore: “Per Cristo dunque noi fungiamo da ambasciatori, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio” (2Cor 5, 20). La parola dell’apostolo è, pertanto, la parola di Dio, la parola di Cristo, che chiama tutti gli uomini di tutti i tempi alla salvezza (cf Ef 1, 13-14).

La fiducia, pertanto, è orientata essenzialmente al Vangelo di salvezza: “potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede” (Rm 1, 16); è accoglienza dell’opera salvatrice, liberatrice e giustificante di Dio compiuta in Gesù Cristo; è accettare Gesù salvatore e lasciarlo operare profondamente ed esistenzialmente in noi: “ora si è manifestata la giustizia di Dio”, cioè la sua azione salvifica in Gesù Cristo “per tutti quelli che credono” (Rm 3, 21.22). Nella fede Dio chiama l’uomo, lo giustifica e per mezzo di Cristo gli concede la sua grazia e lo rende da peccatore giusto e da schiavo figlio di Dio (cf Gal 4, 3-5): “Coloro che ha chiamati, questi ha pure giustificati, coloro poi che ha giustificati, li ha anche glorificati” (Rm 8,30).

 

Fiducia e imitazione di Cristo: dalla fiducia nasce il desiderio di conformarsi all’Amato

La fiducia generata dall’ascolto della Parola conduce a relazionarsi con Gesù fino a desiderare di vivere in obbedienza a lui (Rm 1,5; 1,8; 16,19.26; 2Cor 10,5-6 ecc.). In italiano non si può rendere il collegamento della lingua greca tra “fede/fiducia che ascolta” (akoé) e “fede/fiducia che obbedisce” (hupakoé), ma il senso è chiaro: la fiducia permette un ascolto accentuato, deciso, che comporta una sottomissione (hupo), una decisione ed un impegno per Dio. La fiducia/fede è una vera conversione dalla disobbedienza alla obbedienza totale e radicale per Dio. In ciò avviene un’assimilazione perfetta a Cristo, una partecipazione non solo al suo essere Figlio, ma anche ai suoi sentimenti più profondi: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo, il quale umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce” (Fil 2,5.8). Nell’obbedienza, il cristiano si spoglia di ogni sua sicurezza e di ogni altro riferimento alle possibilità umane, e si affida totalmente a Dio. Non si tratta di obbedienza passiva, ma di accoglienza dell’Altro, di ciò che l’Altro dice e fa, ed essendomi scoperto amato totalmente e gratuitamente, dice Paolo, so che il mio bene è essere come lui è: “per me infatti il vivere è Cristo… il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo” (Fil 1, 21.23). Sono parole di un innamorato che non teme la morte pur di essere con colui che ha dato senso alla sua vita.

Per questo, stando a Paolo, il cristiano diviene imitatore perfetto di Gesù, seguace ben disposto ad accettare la follia dell’amore, fino alla croce, “sapienza e potenza di Dio” per coloro che nella fede sono stati chiamati alla salvezza (cf 1Cor 1, 17-25). Gesù è il suo fondamento, la croce di Gesù la sua gloria (1Cor 1, 31; 2, 2; Gal 6,14), la sua imitazione un’accettazione convinta di Gesù e della sua radicale obbedienza amorosa: di fronte al Crocifisso, testimone verace della fede, l’affidarsi a Dio nell’obbedienza acquista un senso di totalità e di definitività.

Nella fede, infatti,

 

“portiamo nel nostro corpo la morte di Gesù, affinché anche la vita di Gesù sia manifestata nel nostro corpo. Sempre infatti noi che viviamo siamo esposti alla morte per Gesù, affinché anche la vita di Gesù sia manifestata nella nostra carne mortale … Avendo lo stesso spirito di fede secondo che è scritto: «Ho creduto, perciò ho parlato», anche noi crediamo e perciò parliamo, sapendo che Colui il quale risuscitò il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù… Per questo non ci scoraggiamo, ma anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno” (2Cor 4, 10-16).

 

Fiducia: tra presente e futuro, certezza di speranza, impegno dell’uomo e di Dio

In tutte le sue lettere Paolo insegna Cristo ed esorta a vivere Cristo. È guardando a lui come modello di un’esistenza filiale che ritrova la propria identità nella volontà del Padre. In 2Cor 1, 7 Paolo parla di “speranza salda” (elpis bebaia); essa emerge in maniera molto forte per contrasto con la vicenda alla quale Paolo fa riferimento in 2Cor 1, 8 e che comportò una tale angoscia da determinare quasi la perdita di ogni speranza. Dio lo ha salvato proprio quando ormai si considerava perduto. Paolo scopre, però, in questa prova l’invito a non contare sulle proprie forze, ma a confidare solo in lui. Impara, attraverso un’esperienza personale, a toccare con mano la propria debolezza e la necessità di contare su un altro:

 

“Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne mortale. Di modo che in noi opera la morte, ma in voi la vita.

 Animati tuttavia da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: Ho creduto, perciò ho parlato, anche noi crediamo e perciò parliamo, convinti che colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù e ci porrà accanto a lui insieme con voi” (2Cor 4, 8-14).

 

La speranza dell’Apostolo, allora, può sussistere non perché poggia sui Corinzi, così deboli tanto d’aver già conosciuto l’infedeltà e il ripudio di un credo abbracciato, ma in quanto poggia su Dio che è fedele, roccia sicura che non viene meno. La fiducia nasce da un vissuto concreto: Paolo ci insegna che nel nostro dialogo con il Padre c’è spazio per ciò che siamo e per quanto appartiene al nostro quotidiano, impastato di gioie e sofferenze. In alcune situazioni, il credente si trova a misurarsi con avversità che hanno il potere di turbarlo interiormente e di farlo sentire debole ed indifeso. In At 14,22 ci ricorda che: “è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio”.

Come pastore, Paolo si preoccupa che i suoi fedeli guardino in avanti; “entrare nel regno” significa essere “protesi al futuro” (Fil 3, 13), che non implica disincarnazione, ma desiderio di pienezza nella certezza che Dio mantiene la sua parola e le sue promesse. Per questo, scrivendo ai Tessalonicesi, l’Apostolo è certo che il Dio della pace li confermerà nella stessa santità di Dio, perché “colui che vi chiama è fedele: e lui anche farà (tutto questo)” (1Ts 5, 23-24): la vocazione è una chiamata che contiene un impegno. Dio, che ha preso l’iniziativa della chiamata, la continua e siccome è coerente e fedele saprà aggiungere anche la realizzazione della fede-fiducia di Paolo nella coerenza di Dio: “ma il Signore è fedele; egli vi rafforzerà e vi custodirà dal maligno. Riguardo a  voi, abbiamo questa fiducia nel Signore, che quanto vi ordiniamo già lo fate e continuerete a farlo. E il Signore diriga i vostri cuori nella carità di Dio e nella ferma attesa di Cristo” (2Ts 3, 3-5).

In modo simile, ai Filippesi dice: “Sono persuaso che chi ha iniziato il bene in voi, lo porterà a compimento fino al giorno di Cristo Signore” (Fil 1, 6); Dio è un buon costruttore, inizia con il progetto e poi, con i suoi tempi e i suoi modi, realizza nel tempo l’edificio di ogni fedele, edificio che è “tempio dello Spirito santo” e “questa è la fiducia che abbiamo per mezzo di Cristo” (2Cor 3, 4). Per questo dice: “siamo sempre pieni di fiducia” (2Cor 5, 6) ed è certo che “il Signore lo (mi) libererà da ogni male” (2Tm 4, 18). Così invita tutti ad “avvicinarsi in piena fiducia a Dio” (Ef 3,12), che realizzerà l’opera iniziata in ciascun uomo.

Il futuro di speranza si poggia sulla fiducia in Dio, ma questo non dispensa l’uomo dal porre in atto tutto quello che può e che ha, affinché il Signore realizzi la sua promessa. La fiducia richiede la messa in atto di tutte le facoltà umane: non è un lasciar fare ad un destino vago, ma un mettersi in gioco sapendo che tutto dipende da Dio e che al tempo stesso tutto dipende dall’uomo.

Pur certo della sua debolezza, Paolo dice che “tutto posso in colui che mi dà forza” (Fil 4,13), perché “Dio ci ha dato uno Spirito di fortezza” (2Tm 1,7). Ed eccolo, allora, indomito a non lasciare nulla di intentato affinché il vangelo di salvezza giunga a tutti, faticando “notte e giorno”:

 

“Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno. Tutto io faccio per il vangelo, per diventarne partecipe con loro” (1Cor 9, 22-23).

 

Paolo ha una fortissima fiducia nel dono ricevuto da Dio, anche se tutto crolla intorno a lui: la fiducia nel suo carisma lo apre ad un impegno, ad una collaborazione con il Signore, perché niente “può separarci dall’amore di Cristo” (Rm 8, 39). Intelligenza, fortezza, tenerezza, volontà, capacità di discernimento… insomma, tutto viene messo a servizio, affinché il Signore compia la sua opera di salvezza!

 

Fiducia nell’amore di Dio e liberazione dalla paura

L’amore ha condotto Cristo a morire per tutti: “Poiché l’amore del Cristo ci spinge, al pensiero che uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro” (2Cor 5, 14-15); l’amore lo ha avvolto e coinvolto nell’esperienza dell’umanità, tanto che la sua vita eterna si è adattata al tempo, la sua onnipotenza si è limitata alla storicità e la sua relazione trinitaria si è protesa nell’amore degli uomini, sia di quelli che lo amano, sia di quelli che non lo conoscono o lo rifiutano:

 

“Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati per il suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, dal quale ora abbiamo ottenuto la riconciliazione” (Rm 5, 8-11).

 

La conseguenza di questo amore totale è la fiducia nei confronti di Dio. Una fiducia che non ammette ombre o tentennamenti. Anzi, offre un’interiore serenità che dà ardimento e sicurezza, non basati sulla forza umana, ma sull’amore che Dio ha mostrato inviando suo Figlio sulla terra, morto per noi quando eravamo ancora peccatori e non amabili. Chi ha conosciuto la profondità, l’immensità, l’incommensurabilità di quest’amore, come può dubitare di esso o temere il suo giudizio? Chi si è lasciato avvolgere e plasmare da esso, così da esserne ricolmato e rigenerato, come può mettere in dubbio la sua efficacia e pensare di non aver parte con esso? Chi non si è separato da esso, né ha seguito la menzogna, come può sentirsi turbato o smarrito davanti alla sua manifestazione ultima? L’amore di Dio, che dimora nel cristiano, diventa una presenza vitale così intensa che nessuna potenza contraria è in grado di scalfirlo o di suscitare diffidenza nei suoi confronti:

 

Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto:

Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello.

Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8, 35-39).

 

Per questo nell’amore non c’è apprensione, ma abbandono e coraggio confidente. Il contrario della fiducia è precisamente la paura ansiosa di Dio, paura che viene scacciata dalla presenza rassicurante dell’amore che Dio ha per noi.

Per Paolo, solo chi ama e chi si sente amato può vivere senza sgomento. Al di fuori del raggio dell’amore, il panico riaffiora sempre; la ragione ultima di ogni angoscia umana (della morte, della sofferenza, dell’insuccesso, ecc.) sta nella carenza di amore e nella trepidazione del castigo di Dio. La prospettiva del giudizio non può, dunque, spaventare il cristiano dal momento che il Padre ci ha donato quello che aveva di più caro, il suo Figlio, e questi, morto per noi e risuscitato, intercede incessantemente in nostro favore; lungi dal temere il giudizio “i santi giudicheranno il mondo” (1Cor 6, 2). È precisamente quest’amore di Cristo, riflesso di quello del Padre, e la sua potenza efficace che scacciano la paura. L’uomo, privo dell’amore, vive sotto questo giogo opprimente; ogni cosa che fa o che riesce a realizzare non toglie questo peso esistenziale. Solo l’amore dona fiducia e sicurezza, fa vivere sereni, gioiosi, veramente liberi.

Paolo si è sentito amato gratuitamente e rassicurato da quest’amore, reso forte per vivere la sua vita come dono di amore per il suo Signore, imitando Gesù, il Figlio amato dal Padre e docile alla sua volontà. Si rende così possibile una vita vissuta nell’amore pieno, in grande serenità e libertà interiore, senza più l’affanno e l’oppressione del timore dettato dalla propria povertà. Si inaugura un modo di vivere al cospetto di Dio secondo una nuova dimensione, quella del figlio che ha conosciuto e sperimentato l’amore infinito del Padre e, intorno a questo amore, non pone più alcun dubbio; in esso si abbandona e vive felice.

L’amore viene fortemente accentuato da Paolo quando parla di Dio e del suo atteggiamento nei nostri confronti. Egli può definire Dio come: “il Dio dell’amore” (2Cor 13, 11).

Il nucleo attorno a cui si muove il pensiero e da cui scaturisce l’animazione di tutto è propriamente l’amore, colto nella sua costituzione più alta e più pura; l’essere di Dio è sperimentato nella sua manifestazione più concreta e più semplice: Gesù Cristo che è morto per noi. Nella morte di Cristo appare il carattere assoluto e senza motivo dell’amore di Dio. Dio ha dato la vita per i peccatori, per i deboli, per i nemici e perfino per gli empi. Tutto questo è determinante perché l’uomo ritrovi il senso della fiducia in Dio, perché di fatto ogni creatura umana viene all’esistenza con una grave situazione di sofferenza, che ferisce il suo animo e lo carica di angoscia e di solitudine; si tratta della realtà del peccato, che può essere definito, nella sua essenzialità, come rifiuto di Dio che è amore. Dal peccato risulta quello stato interiore di amarezza, di conflittualità e di paura, dato precisamente dalla mancanza di amore, di cui ogni uomo fa dolorosa esperienza. Sorge allora la necessità di ricuperare il senso vero dell’amore, che guarisce le ferite e ridona la gioia e la libertà di vivere.

Paolo indica l’unica strada possibile, che è quella di incontrare l’amore assoluto e gratuito, l’amore che ama solo per amore e per totale donazione di sé, senza limiti o malintesi. L’Apostolo ricorda che di questa esperienza liberatrice e sanatrice il cristiano non può mai dimenticarsi, per non ricadere nello stato primitivo di solitudine e di angoscia:

 

E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre!” (Rm 8,15).

 

Conclusione

Per Paolo avere fiducia significa poggiare la propria sicurezza su Dio, perché solo lui può essere degno di affidamento, non il denaro, il potere e neppure l’uomo con le sue capacità religiose o/e umane. La fiducia è la dimensione fondamentale del credente che definisce la sua vita come dipendente dalla grazia e dalla misericordia di Dio, perché “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù” (Rm 3, 23-24).

Chi confida in Dio non rimane deluso né sarà confuso; per questo si apre in modo confidente a Dio, nella preghiera, e, avendo fatto esperienza della radicale im­potenza a superare le prove interne ed esterne basandosi sulle sole proprie forze, sa che, lasciandosi trasformare dalla potenza dell’amore di Cristo, tutto diviene possibi­le: “tutto posso in colui che mi dà forza” (Fil 4, 13). “Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza. Dice infatti la Scrittura: Chiunque crede in lui non sarà confuso…” (Rm 10, 10-11).

Paolo vede in Abramo il padre della fede/fiducia che ha confidato non nelle sue opere, ma nell’azione gratuita e potente di Dio:

 

“Egli ebbe fede contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: Così sarà la tua discendenza. Né vacillò nella fede, pur vedendo già morto il proprio corpo – aveva circa cento anni – e morto il seno di Sara. Davanti alla promessa di Dio non esitò per diffidenza, ma prese vigore nella fede, dando gloria a Dio, nella certezza che ciò che lui aveva promesso era anche capace di realizzarlo” (Rm 4, 18-21; cf Gal 3, 6).

 

Per questo “accostiamoci con piena fiducia al trono della grazia, per ricevere misericordia e trovare grazia ed essere aiutati al momento opportuno” (Eb 4, 16). La fiducia è l’ambito nel quale si sviluppa la vita del credente; essa si nutre nella speranza, che si mantiene viva anche in mezzo alle tribolazioni, perché “la speranza non delude, infatti l’amore di Cristo è stato riversato nei nostri cuori con lo Spirito Santo che ci è stato donato” (Rm 5, 5) e dona la libertà e la dignità del vivere:

 

“Questa è la fiducia che abbiamo in Cristo, davanti a Dio. Forti di tale speranza, ci comportiamo con molta franchezza…” (2Cor 3, 4.12).

 

Note

[1] In chiave filologica e non tematica la parola italiana fiducia deriva dalla radice peith-, pith-col primo significato di avere fiducia, e questa stessa radice è alla base dei composti pist-, pisteuô cioè fede, credere e sinonimi. Il verbo peithô alla forma intransitiva attiva significa fidarsi, affidarsi, al passivo lasciarsi convincere o persuadere; alla forma transitiva attiva: convincere, persuadere; il perfetto attivo pépoitha, come intransitivo, significa fidarsi ciecamente, fare affidamento su, e il perfetto medio-passivo pepeismai esprime l’essere stato convinto o l’essersi convinto. Certo, tematicamente la fiducia non è unicamente correlata ad un solo termine greco, ma abbraccia un campo semantico più ampio, quale per es. quello della libertà, della franchezza e della speranza, della gloria e del vanto. In modo particolare bisogna poi ricordare che spesso la stessa fede esprime la dimensione fiduciale del credere, oltre che il contenuto al quale aderire e non sempre è possibile distinguere i due aspetti.