N.06
Novembre/Dicembre 2008

«So a chi ho dato la mia fiducia»?

Riflessioni psicologiche attorno al tema della fiducia nella prospettiva di un cammino umano e vocazionale

Il tema della Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni di quest’anno, centrato sulla testimonianza di Paolo, ci porta a riflettere sul tema della fiducia come elemento centrale in un cammino di maturazione umana e vocazionale. Cosa vuol dire avere fiducia, fidarsi di una data persona e/o situazione? Perché alcune persone sono capaci di farlo con maggiore disponibilità mentre altre sembrano prigioniere della paura, del dubbio, del sospetto che alla fine blocca il loro slancio nel porre scelte importanti di vita? Come si fa a decidere in chi porre la propria fiducia? A partire da queste e altre possibili domande la nostra riflessione cercherà di mettere in luce, in chiave psicologica, alcuni aspetti dell’esperienza della fiducia, che incrociandosi con l’orizzonte della fede ha notevoli implicazioni nel cammino vocazionale della singola persona.

 

Due situazioni

– Alessia è una ragazza di 24 anni. Sta terminando il corso di laurea in Scienze dell’Educazione e spera, una volta finiti gli studi, di poter lavorare nell’ambito per il quale si sta preparando. Proprio per poter portare a termine il suo impegno universitario ha scelto quest’anno, dopo averne parlato con il don, di interrompere alcuni dei servizi che faceva in parrocchia. Lei era quella sempre disponibile in mille cose in Oratorio; affidabile soprattutto quando c’era da fare con i bambini: li adorava e volentieri si prestava nei diversi servizi di animazione. Accanto a questo, Alessia viveva anche tutto un cammino di ricerca interiore e spirituale. Non è che ne parlasse molto, ma con qualche amica fidata e con il don si era confidata. Sentiva che non le bastava quello che stava facendo… e cercava qualche proposta che le permettesse di capire meglio quello che si stava muovendo dentro di lei. Era fiduciosa che il Signore non l’avrebbe abbandonata e che le persone attorno a lei l’avrebbero aiutata.

 

– Marco è un giovane che ha appena finito l’università: è contento, anche se un po’ preoccupato per il suo futuro. Si è sempre appassionato di disegno e, avendo dimostrato di avere delle buone capacità creative, la scelta della facoltà è andata nella direzione artistica. Ora però le alternative che si aprono davanti a lui non lasciano intravedere nulla di buono. Dovrebbe lasciare la sua piccola città per andare in un grande centro: Milano o Roma o, meglio ancora, fuori dall’Italia. Marco è sempre stato una persona riservata che preferiva esprimere il suo mondo interiore attraverso il disegno: è il suo modo per farsi notare e proprio per questo gli era stato chiesto di dare una mano nell’Oratorio per un’attività estiva che prevedeva il progetto e la realizzazione di un “murales”. L’esperienza era andata bene anche se, a suo dire, alcune cose potevano essere pensate meglio, evitando soprattutto che nel gruppo ci fossero i soliti che parlano alle spalle. Aveva avuto dei dubbi se accettare o meno, proprio perché sapeva che in certi contesti c’è sempre il polemico di turno. Voleva andarsene ma, allo stesso tempo, sentiva che lo aspettavano sfide difficili e non poteva contare sull’aiuto della sua famiglia, che gli aveva lasciato carta bianca. Più in profondità, pur desiderando di dare una svolta alla sua vita, ne aveva profondamente paura: per l’ennesima volta sentiva che aveva poca stima in se stesso e che fidarsi di qualcuno per lui era un problema…

Alessia e Marco: due storie diverse, due giovani che stanno pensando di dare una svolta alla loro vita e che si pongono nei confronti del futuro con un atteggiamento molto diverso. Alessia è più propositiva e fiduciosa, anche se non vede ancora molta luce davanti a sé; Marco invece è più problematico, più preoccupato, fa più fatica ad avere fiducia nelle persone e sembra non parlare con nessuno di quello che vive. Al di là delle situazioni specifiche, ci interessa mettere a fuoco quali potrebbero essere le radici psicologiche di modalità così diverse nel porsi rispetto ad una scelta importante nella propria vita.

Nella prima parte del nostro lavoro cercheremo di rileggere l’esperienza del bambino come alcuni autori l’hanno vista a partire dal tema della fiducia. Nella parte finale daremo spazio ad alcune attenzioni educative che possono essere importanti per un cammino umano e cristiano.

 

Il bambino aperto alla fiducia

Molti sono gli autori che hanno cercato di approfondire il tema della fiducia in chiave psicologica nelle sue molteplici sfaccettature, riconoscendo a questa dimensione della vita umana una valenza particolare, sia rispetto al passato della persona che nei confronti del suo futuro.

Può essere utile partire dall’interrogarci circa il senso profondo del fidarsi, che fa dire a Paolo: “Io so in chi ho posto la mia fiducia”. Cosa vuol dire allora «fidarsi di…», «aver fiducia di…», «sono una persona che si fida della gente» o, in senso contrario, spesso con una certa enfasi, «io non mi fido di nessuno»?

Secondo alcuni autori, quello della fiducia è un affetto diretto principalmente verso l’esterno, che comporta una sensazione di conforto, sicurezza e tranquillità circa il fatto che certi comportamenti si verificheranno o meno. Ma questo non basta per differenziare la fiducia da altri affetti ed esperienze quali la sicurezza o simili. Il termine fiducia indica non solo il senso di conforto in una data situazione, ma implica anche un credere in modo forte nei confronti del futuro. La persona fa una specie di predizione sul futuro, radicata sulla realtà dei propri vissuti passati.

 

Diventare persone con gli altri

Uno degli aspetti che molti psicologi tendono a mettere in evidenza nello studio dello sviluppo umano è la dimensione relazionale come centrale nel processo di “diventare persone” e come categoria utile per “capire” il mistero dell’uomo. «La persona umana che non si possiede interamente, si può ritrovare sempre e solo in un altro e, finalmente, in un Altro»[1]. Il primo “altro” di riferimento è la famiglia con le relazioni genitoriali; poi, nel corso della vita, l’individuo entrerà a far parte di altri gruppi a partire dai propri impegni, quale la scuola, e dai propri interessi. Nella psicologia qualcuno parla di una vera e propria “svolta relazionale” per indicare questa nuova modalità di approccio alla persona. In modo sintetico, possiamo evidenziare come il pensare allo sviluppo della persona implichi cogliere le sempre nuove modalità che la persona usa per entrare in relazione con gli altri: fin dalla nascita esiste una sorta di “dipendenza relazionale reciproca” fra il bambino e i genitori.

La sottolineatura in modo nuovo dell’alterità come centrale nella riflessione psicologica di questi ultimi decenni, è stata per alcuni aspetti accompagnata da un cammino analogo avvenuto anche in filosofia. A questo riguardo può essere significativo ricordare, fra i molti autori possibili, il pensiero e la figura di M. Buber. Egli ci aiuta a recuperare il senso di una relazionalità non secondaria, ma costitutiva del diventare persona, cercando in questo modo di superare quell’isolamento del soggetto che stava alla base del pensiero cartesiano. L’uomo come essere in relazione, diventa “Io” a contatto con un “Tu” e da questo incontro si crea una situazione nuova che è diversa dalla somma dei due soggetti.

 

L’esperienza del bambino

L’esperienza del bambino è tale per cui solo nel rapporto con l’altro si apre per lui lo spazio per coltivare le sue aspettative, che sono in un primo momento molto concrete e materiali, legate alla sua sopravvivenza, e che poi diventeranno via via di natura più psicologica e spirituale. Aver fiducia a questo livello è credere che l’altro possa fare ciò che si desidera in profondità, comporta ancora un appoggiarsi saldamente a un particolare «altro» sentito come affidabile perché passato al vaglio dell’essersi interrogati su di lui, sulle nostre aspettative verso di lui, dopo aver chiarito i diversi possibili dubbi[2]. Potremmo dire che il gesto del fidarsi è un atto intrapsichico (interno alla persona) in cui l’affetto della fiducia viene sentito e vissuto in relazione ad una situazione particolare (aspetto interpersonale). Da qui ne deriva la considerazione che l’avere fiducia è una situazione che conferisce una qualità particolare ad una relazione[3].

Si coglie così un intreccio particolare fra gli elementi interni e quelli più relazionali che stanno alla base della capacità di affidarsi a qualcuno: la fiducia si sviluppa sia attraverso il processo soggettivo dell’identificazione con persone che sono degne di fiducia, sia grazie ad esperienze relazionali di incontro positivo nel rapporto con tali persone. È un po’ come guardare la stessa esperienza da due punti diversi, uno interno al soggetto e l’altro posto esternamente a filmare le scene che hanno reso possibile il processo identificativo della persona.

Il contesto sociale che conferisce una certa regolarità e certezza a quella situazione relazionale è decisamente importante: il bambino apprende la coerenza del comportamento delle figure genitoriali, la serietà con cui i genitori considerano i suoi vissuti, i suoi bisogni e i suoi desideri.

Anche la dimensione temporale non è indifferente alla crescita di quest’esperienza, che per diventare “stabile disposizione della persona”, atteggiamento di fiducia, deve passare attraverso la rilettura della propria storia. In una situazione in cui il genitore non risulta degno di fiducia, perché incoerente nei suoi comportamenti verso il bambino, o perché incapace di sintonizzarsi affettivamente con il piccolo, o per altri motivi, diventa probabile che lo sviluppo della fiducia nel bambino sia difettoso. Alcune conseguenze di queste carenze infantili possono persistere nell’individuo adulto, anche se dobbiamo riconoscere la molteplicità degli elementi e delle esperienze che possono influire e cambiare il corso di una vita.

 

Alle radici della fiducia: diverse prospettive per descrivere la stessa esperienza

La prospettiva di Erikson

In relazione al tema della fiducia, il nome di Erikson ha senz’altro un posto di particolare attenzione[4]. Nella sua proposta di sviluppo psicosociale egli pone al primo livello di sviluppo la polarità fiducia-sfiducia come una delle prime sfide evolutive che il bambino deve vivere e saper integrare. Durante il primo anno di vita il bambino deve imparare a fidarsi o a non fidarsi della prevedibilità dell’ambiente in cui vive. È l’esperienza delle persone che si prendono cura di lui a fornirgli gli ingredienti di base per crescere nella capacità di fiducia: egli comprende, da una parte, che le persone attorno a lui sono affidabili e allo stesso tempo che anche il suo corpo è in grado di svolgere le funzioni primarie che gli permettono di vivere. Così, oltre che in una ragionevole fiducia verso gli altri, cresce anche nella fiducia in se stesso. Erikson ritiene che questo aspetto trovi una particolare espressione nella volontà e nella capacità di sopportare l’assenza temporanea delle figure di riferimento dal proprio campo visivo senza che questo provochi eccessiva ansia o rabbia. Si tratta di conquiste che dipendono da un senso di sicurezza interiore oltre che da una prevedibilità esterna.

Crescendo, questa stessa sfida si ripresenterà in forme nuove a mano a mano che si rafforzerà il processo di costruzione della propria identità. Per esempio il passaggio della sesta tappa della teorizzazione di Erikson, proponendo il tema dell’intimità in tensione con l’isolamento, ci permette di vedere come la persona che ha raggiunto e sviluppato una certa fiducia nella propria identità sia chiamata a rischiare di “distruggere”, di perdere questa identità nel rapporto intimo con un’altra persona. Porsi nella prospettiva dell’intimità e non dell’isolamento vuol dire poter vivere con fiducia il dono di sé tipico della giovinezza, nelle diverse forme vocazionali possibili. Ma le radici profonde di questa capacità di intimità sono da ricercarsi in quei livelli più profondi e antichi della vita che abbiamo visto. La capacità di intimità del giovane è connessa con la capacità di fiducia del bambino!

Possiamo evidenziare due aspetti significativi di questa prospettiva. Il primo è la considerazione che ogni livello è vissuto su di una tensione fra due poli opposti. Questo implica che essere fiduciosi per Erikson vuol dire portare in sé anche la fatica di fidarsi, il dubbio, la paura e questo non come elemento patologico, ma come situazione normale della persona.

Il secondo aspetto riguarda il fatto che il tema della fiducia, per essere letto in modo corretto, deve essere visto in un contesto relazionale: è solo a contatto con una persona affidabile che il bambino imparerà a fidarsi di se stesso e del mondo attorno a lui. Per il momento non andiamo oltre, anche se si possono cogliere i risvolti educativi che ci possono essere anche in chiave vocazionale.

 

Le sollecitazioni di Stern

Sul tema del contesto relazionale come centrale nello sviluppo, la ricerca di D. Stern ha dato un ulteriore contributo significativo. Egli ha evidenziato come fin dall’inizio della sua vita il bambino viva in qualche modo un “senso di sé” che lo pone come interlocutore attivo nei confronti dell’adulto[5]. Il bambino elabora cioè le sue diverse esperienze in modo tale da poterle attribuire a una qualche forma di organizzazione del tutto soggettiva che comunemente viene chiamata e che si apre con curiosità, disponibilità e attenzione all’esterno. In termini generali, egli mostra come tutto lo sviluppo, in modo diverso a seconda dei diversi momenti evolutivi, è un “essere con l’altro”, è un entrare in relazione con l’altro secondo possibilità e capacità via via sempre più profonde e singolari. Questa disponibilità innata alla relazione ci porta a dire che l’essere umano è per sua natura una persona predisposta al fidarsi di chi gli sta intorno. In un contesto normale intorno a lui, per molto tempo, molto più che per gli altri esseri viventi, il bambino dovrebbe trovare persone che si prendono cura di lui e che lo introducono via via all’esperienza del vivere nei suoi molteplici aspetti. La perdita di fiducia in modo più o meno accentuato è la conseguenza di situazioni relazionali e personali dove il bambino sperimenta una sorta di tradimento della sua apertura all’altro.

 

La prospettiva dell’attaccamento

Secondo una prospettiva che oggi ha una certa attenzione fra gli psicologi, si potrebbe parlare della fiducia anche a partire dalla capacità o meno di attaccamento. L’autore di riferimento in questa teorizzazione è J. Bowlby[6]. È lui che maggiormente ha approfondito la questione, affermando che nel bambino esiste una predisposizione biologica verso la persona che gli assicura la sopravvivenza. Il legame bambino-adulto non è allora una conseguenza della soddisfazione di alcuni bisogni primari, ma è esso stesso una motivazione relazionale primaria. È il bisogno di contatto e di confronto a muovere primariamente il piccolo verso una figura di attaccamento privilegiata.

Alcuni comportamenti come il sorriso, il pianto, l’aggrapparsi, ecc. da parte del bambino sono messi in atto per stimolare l’adulto ad entrare in una relazione di vicinanza ed intimità con il bambino. L’adulto normalmente è sensibile a questi segnali, che traduce come richiesta di una presenza significativa, amorevole, premurosa. Potremmo dire che nel bambino c’è un’aspettativa, un’attesa di figure con le quali entrare in relazione e a cui attaccarsi. La modalità relazionale con cui queste figure si rapportano al bambino favorisce o meno il suo sentirsi amabile o non amabile, buono o cattivo, adeguato o non adeguato e si tradurrà in una più o meno capacità di integrazione dei diversi aspetti del (positivi e negativi) in vista dell’affrontare i diversi compiti e le sfide tipiche di ogni fase di vita.

In particolare si è visto che la capacità di esporsi a situazioni nuove e rischiose, come può essere per il bambino piccolo l’esplorazione di luoghi non immediatamente accessibili o per uno un po’ più grande la capacità di giocare con i coetanei lontano dagli sguardi parentali, sono in stretta correlazione con il senso di fiducia che il bambino ha nei confronti dei genitori, per cui può permettersi di affrontare una situazione non conosciuta sapendo che potrà sempre confidare in un “porto sicuro” a cui attraccare in caso di minaccia.

 

Winnicott e la capacità di stare da soli

Un’idea simile la troviamo in Winnicott, quando parla della capacità del bambino di stare da solo quale espressione di un passaggio affettivo significativo[7]. Per questo autore il bambino è in grado di stare da solo, senza paura, anche in presenza dell’adulto, nel momento in cui è stato in grado di interiorizzare, a partire dalla sua esperienza, delle figure affidabili, capaci cioè di garantirgli una certa pienezza di vita, così che può rischiare di aprirsi allo sconosciuto perché sa che può contare su queste presenze stabili, sicure. «La maturità e la capacità di essere solo implica che l’individuo abbia avuto la possibilità, grazie a cure materne abbastanza buone, di costruirsi la fiducia nell’esistenza di un ambiente benigno. Questa fiducia si forma attraverso una ripetizione di gratificazioni istintuali soddisfacenti»[8]. Torna il riferimento ad un contesto relazionale quale esperienza primaria capace di rafforzare quell’aspettativa di una presenza amica che il bambino porta con sé fin dal primo momento della sua vita.

È stata messa in luce una certa continuità fra le esperienze della prima infanzia e quelle successive, per cui una carenza di disponibilità nelle figure di attaccamento primarie sarebbe alla radice di una difficoltà di apertura fiduciosa verso gli altri nei diversi contesti della vita ordinaria. Un giovane, un adulto che vive le sue relazioni con un carico di paura, sospettosità e minaccia non farebbe altro che ripresentare quella che è stata la sua esperienza relazionale infantile.

 

Visione del mondo e fiducia

Avevamo visto all’inizio due brevi flash tratti dall’esperienza di Alessia e Marco. Accanto ai dati soggettivi appariva chiara la diversità nel modo di vivere la loro situazione di indecisione: avere fiducia o non averne, determina in modo non secondario il mondo soggettivo dell’individuo[9]. Le aspettative, le anticipazioni e le speranze ne risultano influenzate; le percezioni e le concezioni di se stessi e degli altri, le possibilità di rapporti interpersonali, sono molto diverse a seconda che la persona sia fiduciosa o diffidente. Il fiducioso e il diffidente, per alcuni aspetti, vivono in mondi diversi!

La loro differenza nel modo di porsi risulta evidente da come le prime percepiscono e sperimentano l’ambito delle diverse possibilità dentro lo spazio di scelta, poiché l’ambito della libertà è molto ampliato per chi è sicuro rispetto all’insicuro. Per quest’ultimo le scelte sono più difficili o, meglio, saranno vissute in un’ottica di chiusura, del negarsi delle possibilità che pure gli sembravano interessanti. Probabilmente si troverà a vivere maggiormente l’isolamento, la timidezza, la paura della minaccia, il dubbio verso l’altro, come conseguenza del dubbio verso se stesso. Le persone che non hanno fiducia negli altri hanno finito con il convincersi, spesso con un senso di rabbia e amarezza profonda, che nessuno al mondo è degno di fiducia. Saranno anche difficilmente disposte a mettere in dubbio questa loro convinzione avendo raggiunto una certezza di tipo negativo, di solito radicata nei livelli più profondi della persona, anche se a livello più razionale sembrano disponibili a concedere il beneficio del dubbio. Possono giustificare questa loro posizione facendo riferimento ad un atteggiamento di prudenza, ma in realtà è la loro paura dell’altro e delle sofferenze connesse con la relazione a prevalere.

Il fiducioso, al contrario, proverà meno ansia nei confronti dei diversi pericoli sia esterni sia interni, e questo lo renderà più disponibile a fare nuove esperienze, perché di fatto vive in un mondo di cui fanno parte persone sentite come amichevoli e ben disposte. Sarà maggiormente in grado di anticipare l’accettazione che riceverà da parte di altre persone affidabili, lasciando meno spazio al dubbio o al sospetto; e sarà anche maggiormente in grado di sperimentare sentimenti quali la simpatia e la compassione verso gli altri.

 

Fiducia e fedeltà

Un altro elemento collegato con la fiducia è il tema della fedeltà. Essere fedeli comporta sia il dirigere il proprio impegno verso una meta ideale, che per la persona è centrale per il mantenimento della propria stima, come pure essere capaci di vivere relazioni stabili e continuative nel tempo, capaci di superare l’emozione ed il coinvolgimento di un momento, di un’esperienza forte. Perché questo si possa realizzare ci deve essere nella persona la capacità di passare da una visione parziale della realtà, catturata solo dagli aspetti più appariscenti della situazione, ad una visione più globale che sa cogliere e leggere anche quello che in un primo momento era sfuggito.

Ci spieghiamo: nel corso di un’esperienza di coppia o di inserimento in un contesto comunitario, è inevitabile che ci siano momenti in cui l’ideale iniziale venga in qualche modo deluso. L’altro, la comunità appare allora diverso, non più così bello e attraente come in un primo momento. Forte potrebbe essere la tentazione di abbandonare quella situazione perché lontana da quell’ideale che la persona portava nel cuore e che voleva realizzare nella sua vita. La fedeltà è possibile solo nella misura in cui si riesce a superare lo scacco della delusione per integrare i nuovi aspetti scoperti con quelli precedenti.

Ma questo processo ne implica un altro più interno e precedente nel processo maturativo della persona: la possibilità di aver integrato, di aver accettato il positivo e il negativo di se stessi senza che questo diventi motivo di rotture interiori, di negazioni più o meno consapevoli di parti conflittuali di sé. E questo processo integrativo è possibile solo nella misura in cui il bambino, l’adolescente, il giovane, hanno trovato nella propria vita persone capaci di amore completo e totale, di gratuità e di accoglienza, anche di quegli aspetti che il soggetto interessato sentiva e viveva come minacciosi. Uno sguardo fiducioso e accogliente nelle possibilità della persona è l’ingrediente base per una crescita che sa integrare il positivo ed il negativo della propria esistenza.

 

Dalla fiducia di base alla capacità di affidarsi a Dio

Il contributo di Ana Maria Rizzuto nella lettura psicologica del vissuto religioso, è il frutto di trent’anni di ricerche e di pubblicazioni e si pone in una posizione particolare nel contesto della ricerca psicologica.

Il suo ragionamento parte dalla semplice considerazione che lo sviluppo della persona procede sia a livello fisico, secondo le sue leggi, che a livello simbolico. Quest’ultima capacità abilita in qualche modo la persona ad intravedere altre realtà al di là delle limitazioni percettive del corpo stesso. «Per raggiungere queste realtà, gli esseri umani sviluppano una funzione che apre le porte a tutto ciò che è significativo a livello psichico, interpersonale e religioso: è la funzione del credere. Non c’è vita psichica senza essa. Il risultato del credere è uno specifico contenuto di fede, il quale dipende sempre dal contesto di esperienze del in una particolare situazione esistenziale»[10]. È interessante vedere come il credere sia in qualche modo inseparabile dalla capacità di diventare persona e questo fin dalle primissime esperienze di vita. Abbiamo visto il senso del credere in un bambino di pochi mesi: egli crede ed impara che la mamma, anche se è occupata in cucina, gli porterà il biberon dopo averlo sentito piangere. Il processo del credere e del fidarsi dipende allora, dal punto di vista psicologico, dalle esperienze che hanno reso possibile una tipologia specifica di contenuto di fede. Quanti hanno incontrato adulti che hanno meritato la loro fiducia, saranno portati a credere che fidarsi di un’altra persona sia un gesto affettivamente significativo. Scaturisce da questa riflessione il fatto che quando il bambino sarà in grado di avere un’idea del senso della parola «Dio», farà ricorso all’esperienza che ha dei genitori per dare forma ad un essere di cui i genitori stessi gli avevano parlato con una certa riverenza e al quale si sono rivolti nella preghiera, ma che non è presente nella vita concreta. Il credere in Dio appare allora un aspetto particolare e specifico della capacità del bambino di fidarsi dell’ambiente che gli sta attorno e che percepisce come affidabile grazie alle mediazioni di adulti affidabili.

 

La testimonianza di Paolo

La frase di Paolo che fa da sfondo al nostro titolo può ora essere rivista in modo pieno e nuovo. Non abbiamo particolari notizie dell’infanzia di Paolo.

Sappiamo che era stato educato fin da piccolo secondo la sua cultura ebraica e che così aveva imparato a fidarsi di Dio. Ora, verso la fine della sua vita, Paolo ha raccolto tutta una serie di esperienze che confermano come la scelta di affidarsi al Signore è stata “vincente” rispetto alle promesse che aveva ricevuto sulla via di Damasco. Il sapere di Paolo è il frutto maturo di un cammino di rivisitazione della sua vita. Poteva saperlo prima? Poteva dire prima quell’affermazione? Per alcuni aspetti è indubitabile che Paolo frasi simili le avesse già dette, anche se non con gli stessi termini. La sua vita aveva trovato un senso nuovo dopo l’incontro con il Signore risorto. Ora quello che aveva affermato da giovane assume un valore e un peso ben diverso.

Si potrebbe dire così: Paolo ha toccato con mano sulla sua pelle cosa voglia dire fidarsi del Signore, per cui il suo sapere della lettera a Timoteo è certamente nuovo e più profondo di quello di prima. Si era fidato; ora, nel ripensare alla sua storia, sa per esperienza diretta!

Credo che in controluce si possa trovare in questo passaggio anche il senso dell’accompagnatore spirituale e vocazionale. Si tratta di uno che, avendo sperimentato cosa voglia dire fidarsi del Signore e mettere la propria vita nelle sue mani, si propone come garante, come testimone silenzioso ed umile del cammino dell’altro.

 

Risvolti educativi

Le considerazioni fatte hanno cercato di mettere in evidenza le radici psicologiche dell’atteggiamento di fiducia che una persona vive. L’esperienza della fede, nel momento in cui viene vissuta, s’inserisce nelle strutture psichiche dell’uomo: è il canale normale che Dio ha scelto per entrare in relazione con le persone “parlando con loro come ad amici”. Anche lui può essere vissuto come un “padre” fedele che merita fiducia, oppure può essere sentito come un giudice minaccioso e/o poco affidabile.

Nella dinamica della fiducia abbiamo visto quanto sia importante l’esperienza e la relazione che la persona ha vissuto con i genitori, senza però con questo cadere nel determinismo in quanto la persona ha l’occasione di vivere molteplici esperienze successive che possono contribuire ad aprirle il cuore bloccato dalla paura e dalla sfiducia. Il compito educativo è tale proprio perché ha la pretesa di poter intervenire nel corso della vita di una persona, stimolandola e aprendola ad esperienze e a sentimenti fiduciosi che prima non aveva ancora sperimentati.

Come aiutare un giovane a fidarsi e ad affidarsi in un cammino educativo? Come aiutarlo a scoprire in Dio un “Padre affidabile”, al quale consegnare la propria vita come Paolo ha saputo fare? Per quanto siamo venuti dicendo possiamo evidenziare alcune attenzioni che dovrebbero essere anche altrettanti atteggiamenti che caratterizzano il ruolo di un educatore o accompagnatore spirituale:

– Il primo atteggiamento richiesto è quello dell’accoglienza del giovane, evitando quei giudizi affrettati in positivo o negativo che ci farebbero correre il rischio di accentuare gli elementi di sfiducia nell’altro. È lo sguardo di Gesù che troviamo molte volte nel Vangelo e che Paolo ha sentito posarsi su di sé proprio mentre stava contrastando il cristianesimo nascente. Saper accogliere vuol dire allora vedere la persona non solo per quello che è e che presenta, ma anche per le potenzialità che lei stessa ancora non vede, per il bene che non è ancora capace di concretizzare ma che pure è presente.

– Un atteggiamento implicito nell’accoglienza, ma che crediamo sia importante evidenziare come specifico proprio in riferimento allo stimolare la fiducia, è quello della pazienza. Si tratta di mettere in preventivo che una persona, soprattutto se sfiduciata, ha bisogno di molto tempo per poter rimettere in discussione le sue “certezze” nei confronti delle altre persone e del mondo. Pazienza vuol dire saper essere vicini in modo attivo, ma senza avere la fretta di vedere cambiamenti e risultati. La persona sfiduciata probabilmente cercherà di mettere alla prova la disponibilità dell’accompagnatore per verificare la sua affidabilità, cercando conferme per la sua certezza “negativa”.

– In relazione con la pazienza crediamo sia anche importante parlare della fedeltà da parte dell’accompagnatore: una fedeltà che si traduce nel saper essere presenti, nel farsi trovare quando l’altra persona ci richiede un aiuto, una parola. Abbiamo visto come a fondamento della fiducia ci sia nel bambino l’imparare a riconoscere che l’ambiente attorno a lui è affidabile. Così allora anche il nostro essere educatori, prima ancora che di contenuti, deve caratterizzarsi per questo saper essere presenti.

– L’accoglienza si traduce anche nella capacità di gratuità. Pur nella consapevolezza che deve arrivare il momento in cui saper porre anche richieste importanti, è fondamentale sapersi porre, soprattutto all’inizio di un cammino, con assoluta gratuità senza proiettare sull’altro le nostre aspettative e i nostri desideri: in un cammino di crescita nella fiducia, la persona deve cogliere che l’educatore è libero da qualsiasi desiderio che non sia il bene dell’altro, per il quale si mette a servizio. Questo vuol dire comunicare l’idea che il vero protagonista della relazione è la persona, quello che vive, che sente, che prova e questo merita sempre la massima attenzione.

A partire da queste attenzioni tipiche per ogni cammino di accompagnamento, ma particolarmente importanti nel caso di un cammino di crescita nella fiducia, si possono precisare anche alcuni contenuti che a nostro parere dovrebbero essere affrontati.

– La persona va aiutata ad allargare il proprio sguardo sulla realtà. Ci sono aspetti che non sempre si possono cogliere subito e che invece meritano di essere presi in considerazione. L’educatore si pone verso il giovane come compagno alla scoperta di cose nuove, là dove sembra già tutto scontato. Questo atteggiamento è particolarmente significativo nella fase di rilettura del proprio passato. Per lo sfiduciato quel passato è fonte di incertezza e di dubbio. Può essere però che quella stessa esperienza contenga in sé anche altri aspetti, che la persona non vede e che devono essere scoperti come portatori di senso nuovo e servire da base di partenza per un diverso approccio alla realtà.

– Una delle più immediate conseguenze del punto precedente è quella dell’imparare a sorprendersi. Sia da un punto di vista semplicemente umano che nella prospettiva della fede la sorpresa implica il cogliere la fantasia e la creatività della vita che, nella forza dello Spirito Santo, diventa la novità con cui Dio sta conducendo la storia. La fiducia può crescere nella misura in cui s’impara a vedere l’opera continua di Dio nella storia della persona.

– È quanto mai significativo allora che l’accompagnatore sappia mettere a tema anche l’immagine di Dio che la persona porta in sé. Si tratta di passare da un volto di Dio legato ai vissuti personali a quello che Gesù ci presenta con la sua vita e che troviamo nella Parola. Le figure e i testimoni che la vita della Chiesa ci offre diventano garanti del cammino di affidamento che la persona è chiamata a fare. I loro esempi ci ricordano, come abbiamo visto in Paolo, che vale la pena mettere la propria vita nelle mani di Dio. Ma in questo passaggio anche la figura e la vita dell’accompagnatore sono chiamati ad entrare in gioco: non si può essere spettatori di un’avventura che gli altri vivono! Nella prospettiva sia psicologica che spirituale che abbiamo descritto, la dimensione relazionale è centrale e questo implica un continuo mettersi in gioco anche se con ruoli e modalità diverse, perché in fondo si sappia in chi abbiamo posto la nostra fiducia.

 

Note

[1] F. IMODA, Sviluppo umano. Psicologia e mistero, EDB, Bologna 2005, p. 247.

[2] Nel bambino piccolo questo interrogare e passare al vaglio non è un’esperienza razionale come potrebbe fare un adulto, ma si tratta del risultato di una molteplicità di interazioni che toccano diversi aspetti della sua vita.

[3] Cf K. ISAACS – J. ALEXANDER – E. HAGGARD, Fede, fiducia e credulità, in AA.VV., “Entusiasmo, fiducia, perfezione”, Bollati Boringhieri, Torino 1993, p. 63.

[4] Cf L. SUGARMAN, Psicologia del ciclo di vita, Raffaello Cortina, Milano 2003, pp. 105-109.

[5] Cf D. STERN, Il mondo interpersonale del bambino, Bollati Boringhieri, Torino 1987.

[6] Cf J BOWLBY, Una base sicura, Raffaello Cortina, Milano 1989.

[7] Cf D.W. WINNICOTT, Sviluppo affettivo e ambiente, Armando Editore, Roma 1970, pp. 29-39.

[8] D.W. WINNICOTT, Sviluppo affettivo e ambiente, p. 33.

[9] Cf K. ISAACS – J. ALEXANDER – E. HAGGARD, Fede, fiducia e credulità, pp. 55-80.

[10] ANA MARIA RIZZUTO, «Sviluppo: dal concepimento alla morte. Riflessioni di una psicoanalista contemporanea», in A. MANENTI – S. GUARINELLI – H. ZOLLNER, ed, Persona e formazione. Riflessioni per la pratica educativa e psicoterapeutica, EDB, Bologna 2007, pp. 50-51. Cf ANA MARIA RIZZUTO, La nascita del Dio vivente. Studio psicoanalitico, Borla, Roma 1994.