«Colui che vi chiama è fedele» (1Ts 5,24).
La comunità cristiana tra urgenze ecclesiali e fiducia in Dio
Introduzione
Il carattere impegnativo di questo tempo di crisi mette alla prova anche le comunità cristiane e le provoca ad una revisione della loro fede insieme ad un approfondimento e ad una purificazione delle ragioni che sostengono l’impegno ecclesiale ad ogni livello: spirituale, pastorale, missionario, vocazionale.
“Non avete ancora fede?”
In questo periodo rileggo spesso un episodio molto suggestivo del Vangelo (cf Mc 4,35-41). Gesù e i discepoli hanno passato tutta la giornata con la folla. Gesù ha annunciato loro il Regno attraverso parabole. Verso sera decidono di passare all’altra riva. Durante la traversata si scatena una tempesta che sembra travolgere la barca – o almeno così temono i discepoli. Le onde si abbattono improvvise e impreviste sulla barca e il terrore si impadronisce di coloro che la occupano. Solo Gesù sembra non avvertire il trambusto che si agita attorno, tanto che i discepoli ritengono di doverlo svegliare e di rimproverarlo per il suo disinteresse verso la loro sorte. E Gesù dà loro una risposta disarmante: «Non avete ancora fede?» (v. 40).
Non sappiamo che cosa i discepoli abbiano risposto a Gesù, ma ce lo possiamo immaginare: «Come, non vedi che ci stiamo dando da fare anche per te e tu ci lasci affondare? Non ti rendi conto che abbiamo condiviso con te la fatica della giornata, e adesso tu dormi, mentre noi facciamo lo sforzo di reggere la nave sul mare in tempesta? E tu ci rimproveri anche? Abbiamo messo la nostra vita a tua disposizione, e tu pensi che noi non abbiamo fede? Ma allora, che cosa significa condividere con te l’avventura del Regno?».
Anche noi ci sentiamo come i discepoli nella barca della Chiesa, squassata da un mare che sembra essersi fatto improvvisamente più burrascoso, agitato dalla violenza di un cambio di clima così rapido che ci sembra di non essere riusciti a renderci conto del sopraggiungere della tempesta.
Anche a noi viene da gridare al Signore: «Non ti importa che periamo? Che la tua Chiesa sia sopraffatta dalla violenza dei marosi?». E anche a noi il Signore risponde: «Non avete ancora fede?». Ci interroga sulla nostra fede, la cui generosità non si misura solo dall’aver lasciato tutto per seguirlo, ma sulla fiducia in lui; la cui forza non sta nell’aver messo la vita a disposizione della missione, ma nell’aver scelto lui, in qualsiasi condizione, fosse anche l’andare a fondo con lui.
Interrogati dal rimprovero di Gesù, anche noi ci sentiamo sollecitati a ripensare al nostro modo di stare nella barca, di guardare i marosi, di rivolgerci al Signore; e lasciamo riecheggiare dentro di noi la domanda di Gesù: «Non avete ancora fede?».
Una Chiesa nel cambiamento
Anche oggi la barca della Chiesa sembra scossa da onde impetuose; anche oggi possiamo lamentarci di vivere in un periodo particolarmente oscuro e difficile. Basti pensare alla pesante crisi economica, che mette tante famiglie in difficoltà, all’ingiustizia e alla povertà, alle costanti minacce per la pace, alla crescente intolleranza verso gli stranieri e i poveri. Si aggiungano le tensioni religiose, gli smarrimenti delle giovani generazioni.
La Chiesa è coinvolta negli stessi cambiamenti vertiginosi che interessano la storia umana, e non solo quelli che riguardano le strutture materiali della società, ma il modo stesso di pensare la vita, di guardare al presente e al futuro, di dare forma al vivere insieme delle persone, delle famiglie e dei popoli.
Vorrei accennare ad alcuni fenomeni che, generati dai cambiamenti in atto, stanno divenendo vere e proprie sfide che affaticano il nostro tempo e danno la percezione di attraversare una lunga oscurità, di cui non si vede il termine.
1. La solitudine della famiglia. Nel frastuono delle grandi città, con una vita che si svolge di corsa, in cui poco tempo resta per i rapporti tra le persone, compresi i figli, tutte le relazioni familiari sono sottoposte a tensione. A cominciare dalle relazioni di coppia, messe alla prova non solo dalla fragilità dei sentimenti e dalla loro banalizzazione, ma anche da un contesto che non aiuta a tenere insieme.
Le conseguenze di tutto questo sono pesanti in termini di sofferenza, che coinvolge non solo la componente adulta, ma soprattutto i più giovani, talvolta segnati per sempre da una situazione familiare difficile. Nessun ragazzo o giovane passa senza conseguenze personali attraverso l’esperienza della separazione dei genitori, che lo segna negli affetti, nell’orientamento personale, nella fiducia di fronte agli altri e alla vita.
2. Il mutare dell’atteggiamento di fronte alla vita. La vita è oggi svuotata del suo mistero. I progressi della scienza, della tecnologia, della medicina, hanno offerto possibilità impensabili anche solo pochi anni fa, ma hanno generato una mentalità che induce a ritenere l’uomo come artefice della sua vita: la vita appare come un oggetto nelle mani dell’uomo; il tempo del suo cominciare e del suo concludersi, cioè le fasi della vita più di altre cariche di mistero e di divino, sembrano nelle mani dell’uomo. E si può pensare di mettere le mani sulla vita, per manipolarla, per concluderla, per toglierla di mezzo se non è programmata.
3. Le migrazioni dei popoli della povertà. Si tratta di un fenomeno sempre più consistente, al quale non si può non guardare con grande attenzione e con qualche preoccupazione, per i cambiamenti profondi che induce nella nostra società, toccandone organizzazione, identità, cultura, stili… Gli immigrati vengono soprattutto dai paesi della fame, della miseria, della guerra, in cerca di un futuro migliore per sé e per le proprie famiglie. Dobbiamo avere il coraggio di affermare che queste persone vengono implicitamente a chiedere giustizia. Non è un fenomeno cui si possa guardare senza preoccupazione, ma non certo pensando ad esso come una questione di sicurezza.
Insieme alla ricerca intelligente di risposte culturali e politiche, occorre leggere questa situazione come un segno dei tempi, che ci interpella e ci aiuta a crescere. Ci costringe a rimotivare le scelte che caratterizzano la nostra società e a rivederle in termini più umani; ci costringe ad attivare delle pratiche di dialogo, se non vogliamo che l’incontro con queste nuove culture sia solo motivo di conflitto e di scontro; ci aiuta a considerare in modo nuovo la questione di Dio, che troppo sbrigativamente noi abbiamo collocato nell’ambito delle questioni private. La società multiculturale e multireligiosa è il futuro del nostro Paese e del continente europeo. Non possiamo permettere che gli allarmi prevalgano sui progetti, le paure sulla scelta di farci noi stessi custodi della dignità di tutte le persone.
4. La crisi ecologica. L’ambiente sta diventando oggetto di crescente attenzione da parte dell’opinione pubblica. Le città sommerse dai rifiuti, l’allarme alimentazione, la questione energetica, i mutamenti climatici… sono alcuni dei più recenti segnali della sofferenza del pianeta, che reagisce così allo spirito di rapina dei suoi ospiti. La rivolta della terra, di cui l’umanità di oggi è testimone e spettatrice, ha la funzione di farci prendere coscienza del disordine che è anche in noi e che vediamo rispecchiato nell’ambiente; essa ci induce a decidere, forse solo per paura, scelte che possono aprirci la strada a riscoprire dimensioni dimenticate o negate dell’esistenza: la solidarietà che si genera in un’interdipendenza responsabile, la sobrietà che ci rende liberi dalle cose e padroni di noi stessi, il rispetto per il creato che ci è offerto come dono, perché possiamo entrare in una relazione armonica con esso.
5. La crisi del dialogo tra le generazioni. La generazione adulta è troppo affaticata per assumersi la cura della crescita delle giovani generazioni, compito che richiede accoglienza, proposta, accompagnamento. Si tratta di impegni che hanno bisogno di un’umanità calda e disponibile, gratuita e matura; che hanno bisogno di avere dei punti di riferimento valoriali chiari, forti e soprattutto credibili per i giovani; che richiedono l’energia di stare vicino, di fare da argine, di non cedere alla prima difficoltà. Come si vede, sono caratteristiche che contrastano con le immaturità che oggi vediamo tra gli adulti, mai decisi a superare il giovanilismo, che li mimetizza tra i giovani. Il compito educativo avrebbe bisogno di adulti liberi dal qualunquismo, spesso generato da una visione relativista della realtà; di adulti che avessero qualcosa di bello e di grande da far intravedere ai giovani.
Davanti ad adulti incerti e ripiegati su di sé, i più giovani fanno fatica a trovare la bussola della vita, ad acquisire quel senso del limite senza il quale è impossibile assumere identità, responsabilità, rispetto. I percorsi dell’educazione della fede avvengono su un tracciato educativo di questo genere, dando talvolta per scontata una crescita umana che non c’è e ponendo all’inizio del percorso, come dati di fatto, scelte che oggi possono essere assunte solo a poco a poco, con una maturazione che è resa più lenta da un contesto in larga parte ormai estraneo ad una visione cristiana della vita.
Quale lettura, come comunità cristiana, riusciamo a fare di quanto accade? Sappiamo dire, come credenti, una parola capace di illuminare questa notte, che sembra non avere mai termine?
Papa Benedetto, nella sua omelia per Capodanno, ha proposto una lettura della situazione attuale, che la trasforma in sfida per la nostra fede: «L’attuale crisi economica globale va vista anche come un banco di prova: siamo pronti a leggerla, nella sua complessità, quale sfida per il futuro e non solo come un’emergenza a cui dare risposte di corto respiro? Siamo disposti a fare insieme una revisione profonda del modello di sviluppo dominante, per correggerlo in modo concertato e lungimirante? Lo esigono, in realtà, più ancora che le difficoltà finanziarie immediate, lo stato di salute ecologica del pianeta e, soprattutto, la crisi culturale e morale, i cui sintomi da tempo sono evidenti in ogni parte del mondo».
L’impressione è che i cristiani siano travolti dalle stesse situazioni, avviluppati dalle stesse angosce della gente di oggi, oltre che da ragioni tutte loro, che riguardano il futuro del cristianesimo: hanno perso consenso e riconoscimenti sociali; non riescono a comunicare con la società e con le persone di oggi; vedono rifiutati i valori espressi dal cristianesimo e pensano che esso sia in crisi. Ma il fatto che il cristianesimo sia diventato impenetrabile per la cultura occidentale non significa che sia in crisi: forse sta solo cambiando continente – come sostengono alcuni studi recenti – considerando la vitalità di comunità ed esperienze di fede dislocate nel Sud del mondo.
Oggi è in crisi la capacità delle comunità cristiane di comunicare soprattutto con le persone. Anzi, spesso la Chiesa cerca la comunicazione con le strutture della società, privilegia il confronto con la pubblica opinione, mentre l’erosione dei valori sta avvenendo nelle coscienze, le domande più profonde e le sofferenze delle persone sono di carattere esistenziale; le disponibilità e i rifiuti si giocano nel cuore delle persone.
Oggi i cristiani sono soprattutto appesantiti da una tristezza oscura e pesante. E questo non sempre perché, come credenti, condividiamo le angosce delle persone di oggi, ma perché i cambiamenti del mondo hanno prodotto anche nella Chiesa dei cambiamenti che stentiamo ad elaborare.
In effetti oggi la società occidentale sembra essere pervasa da valori, stili di vita, desideri che sono impermeabili al Vangelo. E questo ci lascia scoraggiati e impauriti in vista del futuro, ma, soprattutto, ci lascia delusi. Ecco: mi sembra che l’atteggiamento di fondo delle nostre comunità sia quello di un “cristianesimo deluso”.
Così la missione rischia di trasformarsi nella difesa di una cultura; il senso del futuro si risveglia con il sentimento della paura; la Chiesa si sente assediata, incompresa all’esterno e svuotata della fede dei suoi figli all’interno. E ci chiediamo: quale futuro per le nostre istituzioni che vediamo appassire sotto il nostro sguardo impotente? Quale futuro per il cristianesimo, che cominciamo a pensare come destinato ad un inesorabile declino? Certo le nostre comunità sono meno frequentate di un tempo; le statistiche ci dicono di una pratica religiosa che diminuisce, di scelte che si vanno modificando: basti pensare alla diminuzione dei matrimoni religiosi, alla diminuzione delle vocazioni…
Eppure, se il nostro cuore fosse meno appesantito dalla tristezza, forse vedremmo la realtà anche sotto altri aspetti: ad esempio, vedremmo che vi è una presenza del Vangelo e un’adesione ad esso che è diversa da quella di un tempo, ma non per questo è meno significativa.
Se ci si mettono occhiali meno istituzionali e più laici, se si guarda alla causa della fede oltre il perimetro delle istituzioni ecclesiali, dal punto di vista di chi sta nel mondo, ci si rende conto di come vi sia un cristianesimo diffuso che rende vive le nostre case, permette al nostro Paese di non soccombere alle crisi che si susseguono. È vero che molte forme di vita religiosa sono in crisi, ma è anche vero che ci sono alcuni monasteri che scoppiano; è vero che c’è una crisi generalizzata delle vocazioni, ma è anche vero che un numero maggiore di coppie sceglie il matrimonio con vero spirito vocazionale; è vero che c’è individualismo, ma anche spirito di solidarietà, che si manifesta in forme nuove, difficili da intercettare dalle comunità cristiane, che operano secondo programmi di iniziative strutturate. Certo, tutto questo è mescolato a tante fatiche e a molte confusioni, ma è innegabile che, sotto un’apparenza che sembra lontana dal Vangelo, vi sono percorsi sinceri. Forse vi è più fede che spirito ecclesiale; vi è una fede solitaria e per questo più fragile, poco sostenuta da comunità poco accoglienti, troppo chiuse, impegnate a porre dei confini su aspetti inessenziali della vita cristiana, ma che finiscono con il creare lontananze e sofferenze.
Sono convinta che la realtà ci appare ostile o favorevole più in rapporto all’animo con cui la guardiamo, che ai dati di fatto oggettivi. Noi, come cristiani, siamo convinti oggi di vivere in un tempo difficile; ma è mai esistita la percezione di un tempo facile? Di un tempo favorevole al Vangelo? Pensiamo alle comunità per le quali Paolo scriveva le sue lettere: alla comunità di Corinto, a Roma. Si può dire favorevole al Vangelo una società in cui esisteva la schiavitù, in cui la maggior parte delle persone viveva in condizioni di precarietà, in cui il potere pretendeva l’esercizio di un’autorità assoluta e divina?
Per una conversione ecclesiale delle nostre comunità
Davanti a queste considerazioni, so che la domanda che viene spontaneo chiedersi: ma allora, che cosa dobbiamo fare? Ma ritengo che prima di questa domanda ce ne sia un’altra più importante: quale Chiesa vogliamo essere in questo contesto? Il volto affannato e deluso delle nostre comunità parla di una fede che ha bisogno di risveglio, di novità, di nuovi punti di vista, di nuova energia. Di una Chiesa che ha bisogno di ritrovare l’essenziale.
Le caratteristiche che ora indicherò per definire il volto delle nostre comunità vogliono riferirsi ad un modo ecclesiale di vivere la fede, che non è solo la fede delle singole persone; che non è la somma della fede dei singoli, ma è quella sensibilità spirituale, quel comune orientarsi, quasi spontaneo, di una comunità verso certe priorità… quel clima di Chiesa che è frutto del vivere insieme, del maturare insieme alcune scelte, del comunicare frequente per aiutarsi a discernere e a camminare nel Signore; quel sostare insieme sulla Parola letta senza addomesticamenti; quell’attitudine a prendere insieme alcune decisioni di fondo… Una fede ecclesiale di questo tipo non sarà espressione della posizione di alcuni leader, siano essi ecclesiastici o laici, ma sarà la fede del popolo di Dio, espressione di una comunità che vive. Tali caratteristiche potranno sembrare scontate, perché sono semplici. Ma si tratta di una semplicità che è punto di arrivo, dopo che si è sperimentato quanto siano inessenziali tanti elementi di contorno. Una semplicità che richiede una nuova conversione, dopo essersi resi conto che, nella complessità delle nostre azioni, è in agguato la tentazione di costruire una Chiesa secondo noi e non secondo il cuore di Dio.
Vivere dell’essenziale
I tempi difficili come quello che stiamo vivendo sono tempi di purificazione, tempi che hanno bisogno di percorsi di fede che riscoprano l’essenziale. Resistere a questa azione di purificazione, impedire a Dio di condurci verso la novità che germoglierà da questo tempo, significa disporsi a cedere alla tentazione di quelle scelte di decadenza che si manifestano nella mancanza di vigore, nella superficialità di chi si dedica ai particolari, perché ha perso di vista il cuore, o perché il cuore della fede non ci parla più.
La Scrittura ci propone un documento scritto in una situazione analoga alla nostra: la Prima Lettera di Pietro. Essa viene scritta a Roma, la grande città, in un clima di crescente ostilità verso i cristiani, “afflitti da varie prove”. Si percepisce, dietro le parole dell’Apostolo, l’intensa sofferenza che si vive nella comunità cristiana, seppur intrecciata con una più alta speranza. E l’autore della lettera invita a ritrovare forza recuperando l’essenziale: guardando al Signore Gesù, la pietra viva che può rendere stabile e forte l’esistenza dei discepoli. Invita a immergersi nella sua vita; a radicare la propria esistenza sulla sua Parola e nella relazione con la sua persona; a fare della sua Pasqua il mistero in cui radicare un modo di amare libero e capace di totale dedizione. Così, con il cuore in lui e con lo sguardo fisso su di lui, la comunità allena lo sguardo a guardare la vita come la vede lui e ritrova l’energia che hanno coloro che sanno di essere amati. Stretti a lui, pietra viva, anche i cristiani diventano pietre vive, uomini e donne che vivono con leggerezza, perché sono tenuti in vita non dal loro sforzo, ma dalla forza del Risorto.
Per vivere immersi nel mistero del Signore Gesù, le comunità devono essere fedeli nell’ascolto della sua Parola. Guidate da essa, vengono condotte quasi per mano a scoprire a poco a poco la profonda verità del Vangelo, la forza della sua logica paradossale, la fecondità di quel capovolgimento di prospettiva, che sostiene che chi ha perduto la propria vita, la troverà; che dei piccoli è la possibilità di conoscere Dio; che chi è primo deve farsi ultimo e servo di tutti.
Così, guidate dalla Parola, le comunità cristiane possono divenire luoghi in cui si matura una visione originale della vita, in cui si maturano sull’esistenza parole sapienti, alternative a quelle ricorrenti: parole libere, come lo sono quelle che nascono dal cuore di chi non cerca nulla per se stesso e si lascia condurre da un Maestro che ha parole di vita eterna, parole di una vita diversa, libera dagli impacci e dalle corte prospettive delle parole umane; parole sapienti che svelano il senso della vita e sanno anche oggi parlare della sua bellezza; parole che sanno mostrare l’intensa umanità del Vangelo e come esso sia percorso dall’attrazione alla piena realizzazione di sé, e non da un volontaristico senso del sacrificio. Questo ci ha detto Papa Benedetto XVI a Verona: «Vorrei sottolineare come, attraverso questa multiforme testimonianza, debba emergere soprattutto quel grande “sì” che in Gesù Cristo Dio ha detto all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza; come, pertanto, la fede nel Dio dal volto umano porti la gioia nel mondo».
Una Chiesa che vive del Signore e del Vangelo è diversa da una Chiesa tenuta insieme, di fatto, solo da un senso di appartenenza generato da una causa comune, impegni comuni, iniziative condivise; è diversa da una Chiesa in cui si confonde il Vangelo con una delle culture ad esso ispirate e alla fine quasi inesorabilmente destinate a risucchiare l’azione ecclesiale. Paolo ci direbbe che non c’è più né giudeo né greco e che ogni cultura, nel suo particolarismo, appare relativa di fronte al carattere universale del Vangelo. Il Vangelo è libertà e non è legato a nessuna cultura, a nessuna forma storica, a nessuna istituzione, perché le trascende tutte nella sua assolutezza e universalità. Radicati in esso, ci sentiamo coinvolti nella stessa libertà e resi leggeri dalla sua forza. Ciò che ci tiene nella Chiesa è la prospettiva di quella speranza straordinariamente umana che il Vangelo ha fatto balenare davanti ai nostri occhi un giorno e che, istante dopo istante, ci viene svelata in modo sempre più chiaro e profondo.
Ciò che ci tiene nella Chiesa è il Signore, e non le cose che facciamo nel suo nome. Con la leggerezza che la vita riceve dalla libertà del Vangelo e dal radicamento nel mistero del Signore, la Chiesa affronta con fiducia il tempo in cui vive, qualsiasi ne siano le caratteristiche, perché guidata dalla certezza che lo Spirito è all’opera nella storia umana, incessantemente. La legge dello Spirito è quella di chi opera in profondità, là dove l’azione è invisibile. Dunque nel nascondimento e nel mistero: quello del cuore delle persone, della storia profonda dei popoli, nel mistero della vita della Chiesa stessa.
Lo Spirito opera anche quando sembra che nulla accada. Oggi siamo in inverno e tutto sembra bruciato dal gelo; eppure, sotto la terra, vivono germogli pronti a sbocciare come vita nuova, anche se fragile, indifesa. Noi non abbiamo la pretesa di veder sbocciare dalla terra la pianta fiorita!
Il germoglio che sboccia dal seme sepolto nella terra è generato da esso, ma è una vita nuova rispetto ad esso. Non possiamo pretendere che sia uguale alla pianta da cui trae origine, né possiamo disprezzarlo perché non è in tutto uguale ad essa.
I tempi difficili sono anche i tempi della radicalità. Vorrei indicare due caratteri attraverso cui può essere vissuto in modo concreto questo aspetto.
Riconoscere che il Signore è tutto. Un amico monaco, nella sua cella, ha scritto bene in vista, in modo da averlo sempre sotto gli occhi: Dio, o è tutto o è niente. Dio è tutto non in senso materiale, ma è il tutto nell’ordine dell’amore. Quando una persona è presa da un grande amore, questo le cambia la prospettiva e il tono delle cose che si sono sempre fatte. Le cose sono le stesse, ma l’animo ha la leggerezza che le cose non possono dare.
Anche in questo caso, il problema non riguarda la fede delle singole persone, ma il divenire del loro cammino cristiano compiuto insieme, nella comunione ecclesiale. E non si tratta tanto di fare dichiarazioni verbali relative al posto del Signore nella comunità, ma come realtà posta accanto alle tante cose che rendono piena, e talvolta affannata, la vita di parrocchie e diocesi; non si tratta di porre questo convincimento “accanto” ai nostri giudizi sulla storia, su ciò che accade Ma un convincimento che sta al fondo di tutto; che riempie tutto l’orizzonte e non accetta concorrenti nel dare significato a quanto accade. L’Eucaristia, che ogni comunità celebra la domenica, ha in sé la grazia di dare alla comunità nel suo insieme la possibilità di attingere a questo amore, di lasciarsi plasmare da esso. Quando essa non è irrigidita in un rito gelido nella sua perfezione formale o in una sciatta ripetizione di gesti sempre uguali a se stessi, essa coinvolge tutte le persone in una corrente di vita che rigenera i rapporti tra le persone, rinnova il pensiero sulla storia, proietta la comunità nell’orizzonte dell’obbedienza a Dio e di un dono di sé senza confini. In questo modo, la comunità è coinvolta effettivamente nel mistero della Pasqua e ne è rinnovata.
Radicalità significa anche assumere sul serio il carattere pasquale della vita cristiana. La Pasqua, nella vita del Signore Gesù, è espressione della totalità del dono di sé. Il Vangelo di Giovanni, narrando l’episodio dell’ultima cena, lo introduce con queste parole: avendo amato i suoi, li amò fino alla fine. Noi crediamo che il Signore abbia amato i suoi e ciascuno di noi, ma facciamo fatica a cogliere la portata di quel fino alla fine. E ad accettarne le conseguenze. Eppure è proprio quel fino alla fine che rende la Pasqua un amore “da Dio”, secondo la misura di Dio.
Nella nostra sensibilità di cristiani, spesso anche nell’azione pastorale delle nostre comunità, la Pasqua è percepita come oggetto dell’annuncio, ma non sempre assunta come metodo e stile dell’azione pastorale. Nella mentalità diffusa nelle nostre comunità ciò che si stenta ad accettare della Pasqua è quell’aspetto di sconfitta e di fallimento che essa evoca. Anche Paolo sperimentò questo senso di scacco. Nei suoi scritti emergono qua è là gli echi delle sue fatiche apostoliche, ma anche le delusioni, i contrasti, le sofferenze della sua vita missionaria. Ma lo sostiene la convinzione che la potenza dell’apostolo si manifesta nella debolezza: «Quando sono debole, allora sono forte» (2Cor 12,10). La potenza di Dio si manifesta nella fragilità, nell’inadeguatezza. La forza dell’apostolo, dunque, è quella della pochezza; è quella di chi sente la propria debolezza come condizione perché la potenza di Dio si manifesti e al tempo stesso, certo di colui nelle cui mani ha messo la sua vita, si sente al sicuro.
Ma come si manifesta la potenza di Dio? Dove si manifesta? Sappiamo che questo appartiene all’imprevedibile modo di agire di Dio. Noi cerchiamo qui e la sua azione si manifesta là; noi cerchiamo nel rumore di tuono, come Elia, e Dio si manifesta in un soffio di brezza leggera… Ma a noi non interessa vedere dove e come la sua azione si fa presente. Paolo ci insegna che a lui interessa solo predicare “Cristo Gesù, il Signore” (2Cor4,5).
Certo, conosciamo queste parole dell’Apostolo; eppure sappiamo che, giorno per giorno, davanti alla fatica e all’insuccesso, inchiodati a certi calvari della vita nostra e delle nostre comunità, ci verrebbe da dire al Signore: «Scendi dalla croce, il mondo ha bisogno della tua potenza misteriosa; continua a usare la forza che hai mostrato nei tuoi miracoli sconfiggendo la morte, mostrando che la vita è più forte della morte». Gesù, in effetti, lo ha mostrato, ma lo ha fatto attraversando il dolore e la morte, che fanno parte della storia umana e, soprattutto, stanno dentro la storia dei poveri e degli umili. Gesù ha vinto la morte e il dolore non con un atto di potenza, ma con un atto di amore, che è più forte del potere che sottomette il male. Questa è la sapienza della croce, che da allora in poi costituisce scandalo, pensiero paradossale, capovolgimento del comune modo di sentire, realtà e pensiero generato da un amore umanamente impensabile. Da allora, tocca a noi raccontare di questa sapienza, e, soprattutto, mostrarla con il nostro modo di porci davanti alla realtà.
Sta qui il cuore dell’evangelizzazione, di cui la Chiesa è debitrice al mondo. Al fervore del rinnovamento dei metodi e degli strumenti, che impegnano persone e comunità nella loro creatività e nella loro dedizione, non può dunque non corrispondere un rinnovamento profondo anche dello spirito e degli atteggiamenti dell’evangelizzazione, unico impegno attorno a cui raccogliere l’azione della Chiesa. Il primato dell’evangelizzazione, che la Chiesa ha via via riscoperto, quando si è resa conto che la fede non poteva essere data per scontata, comporta anche ritrovare la centralità della persona del Signore Gesù e del suo mistero, della sua misericordia, della sua compassione, della sua mitezza, del suo amore per tutti, a cominciare dai più poveri; comporta la bellezza e la forza di una umanità vissuta nella prospettiva del Vangelo; significa riscoprire il senso della parola della croce, come parola d’amore capace di giungere fino alla fine.
L’evangelizzazione sarà soprattutto comunicare e condividere la gioia del Vangelo e mostrarne la bellezza. E si esprimerà nella capacità della Chiesa di amare il mondo con cuore materno, mostrando effettivamente, in pura perdita di sé, che le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi, sono anche le sue (cf GS 1).
A questo punto, posso provare a suggerire alcune prospettive pastorali, che non sono però le tanto desiderate indicazioni di cose da fare, ma delle priorità, delle sensibilità preferenziali.
Una Chiesa per il nostro tempo:
1. è una Chiesa disposta a “convertirsi all’umanità”: quella del Signore, così poco considerata, apprezzata, contemplata… come via per incontrarlo nell’esistenza, come mistero del suo condividere la nostra stessa umanità; la nostra umanità, da educare, da formare, da far crescere, perché il nostro essere cristiani non è a lato rispetto a noi, alla nostra storia, alle nostre qualità umane, che costituiscono il linguaggio più ordinario e comune per parlare di Vangelo, mostrandolo; l’umanità delle persone che ci vivono accanto, radice comune su cui si fondano comune dignità e valori di fraternità; l’umanità della parola con cui annunciamo, perché non sia a prescindere dalla vita o – ancora peggio – contro la vita; perché non sia dottrina senza spessore di esistenza; perché sia voce che rivela la grandezza della nostra vocazione di donne e uomini, che indica qualche percorso per dirigersi verso la pienezza di essa; perché non sia legge che rinchiude, ma amore che libera; perché non sia grigia ripetizione di pensieri che non parlano al cuore, poiché non scaturiscono dalla vita; perché non sia giogo, ma rivelazione che fa intravedere il senso di ogni istante; l’umanità delle relazioni tra noi e con tutti, perché abbiano quel calore, quella cordialità, quell’accoglienza, quella misericordia e quell’assenza di giudizio, che hanno caratterizzato le relazioni del Signore Gesù con le persone che ha incontrato.
2. È una Chiesa con i “laici”, perché desiderosa di assumere come punto di vista quello dal confine in poi, per vedere la vita così come la si vede stando in mezzo alla gente, con gli occhi delle persone comuni, quelli che rendono i problemi non delle astrazioni da studiare, ma delle porzioni di vita da assumere.
3. È una Chiesa che si pensa con generosità nella prospettiva del Vangelo. Non solo le grandi strategie ecclesiali della Chiesa ufficiale, quelle che appassionano i media e che finiamo anche noi con il ritenere essenziali; ma lo stile delle comunità cristiane che ciascuno di noi incontra quando va in parrocchia, o frequenta le associazioni o i movimenti di cui fa parte. È lo stile di vita quotidiano delle comunità quello che convince o meno del Vangelo le persone che le guardano vivere e persino quelle che le frequentano: è la loro umanità, la loro accoglienza, la loro generosità, ma ancor prima, è lo stile dei rapporti tra le persone, l’assenza di personalismi, l’impegno a evitare divisioni generate da futili motivi; la capacità di controllare in esse le dinamiche del potere e di orientare le relazioni tra le persone a quello stile fraterno che parla di un’originalità degna di considerazione.
Colui che vi chiama è fedele
«Siate lieti… pregate… la vostra vita si conservi per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo» (1Ts 5,16-24). Sono i “consigli” di Paolo ai cristiani di Tessalonica, il modo con cui li orienta ad affrontare le difficoltà della testimonianza e la fatica di vivere come Chiesa. Questi atteggiamenti di serena speranza hanno il loro fondamento nell’amore e nella fedeltà di Dio: Dio è fedele!
Di questa fedeltà Paolo è certissimo e sa che nulla lo potrà separare dal Signore. La sua sicurezza non poggia sulla fiducia in se stesso e nella sua forza, ma su Dio stesso. Se dovesse poggiarsi solo sulle risorse della fedeltà umana, ci sarebbe da temere; ma lo Spirito, che «viene in aiuto alla nostra debolezza» (Rm 8,26), custodisce questo amore al riparo dalle crisi e delle fragilità umane.
Dunque il cristiano e la Chiesa possono essere lieti e liberi, perché vivono di un amore garantito da Dio stesso.
Chi si sa amato, si sente forte. È la forza del bambino tra le braccia della madre: è indifeso e incapace di provvedere a se stesso, eppure si sente sicuro, perché si fida ed è certo che la madre ha cuore e braccia per prendersi cura di lui.
Così è del discepolo: la sua forza non è quella potente di chi sa su quali mezzi può contare, ma quella disarmata di chi sa di essere amato. Solo questo amore conta per il discepolo, qualunque cosa accada. Per questo non può essere scoraggiato dalle difficoltà: il suo coraggio è nel legame con Dio; non può essere indebolito dalla fame, perché il Signore, che nutre e veste i gigli del campo, si prende cura di chi vale molto più di un passero; non può essere annientato dal dolore, perché Dio, che si è fatto debole come noi, cammina con noi e soffre dentro di noi il nostro stesso dolore; non può essere distrutto dalla morte, perché il Signore della vita è risorto e in lui tutte le cose sono chiamate ad una vita nuova e per sempre.
I martiri di tutti i tempi hanno testimoniato la forza straordinaria che riceve chi si lascia avvolgere dall’amore di Dio: essi non sono stati né eroi né persone straordinarie, ma cristiani che non hanno mai perduto, nemmeno nel momento della prova, la certezza dell’amore che aveva pervaso il loro cuore e conquistato la loro vita.
Negli anni in cui Paolo scrive, i cristiani e le comunità hanno già incontrato quelle ostilità che il Signore Gesù aveva preannunciato prima della sua morte. Lo stesso Paolo ha sperimentato percosse, prigioni, fatiche, veglie, digiuni (cf 2Cor 6,5), persecuzioni e pericoli di ogni genere. Tutto ha affrontato con la forza del discepolo di un Maestro che non ha avuto dove posare il capo e che ha concluso la sua vicenda terrena inchiodato ad un patibolo. In catene, ha sperimentato la libertà che nessun potere umano può sottrarre: quella della coscienza proiettata altrove dall’amore e libera dunque da ogni paura, dalla preoccupazione per se stessi e per il proprio futuro. Le persone libere hanno uno straordinario coraggio: nulla le può fermare. Dedicate a ciò cui hanno legato la vita, sono sospinte dall’amore che le ha generate come discepole. Scrive Paolo: «L’amore del Cristo ci spinge, al pensiero che uno è morto per tutti…» (cf 2Cor 5,14). Veramente l’amore mette le ali ai piedi!
Ma allora, chi ci separerà dal Signore? (cf Rm 8,35).
Chi separerà la Chiesa dall’amore del Risorto, che per la sua sposa ha dato la vita? Chi separerà ciascuno di noi, discepolo di oggi, dall’amore del Signore? Paolo fa l’elenco delle situazioni che l’opinione comune pensa mettano alla prova l’amore: la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada.
Il nostro elenco di cristiani di oggi non potrebbe che essere diverso, ma non meno impegnativo. Chi potrà separare il discepolo dall’amore di Dio?
Forse il torpore di chi ha tutto e si è abituato ad affidare alle cose la sua speranza?
Forse l’abitudine che non permette più di sorprendersi davanti a nulla?
Forse la consuetudine alla vita cristiana, la cui originalità si è disciolta e dissolta in una cultura diffusa cui abbiamo affidato con troppa fiducia la custodia del Vangelo?
Forse una vita cristiana che ha perso il cuore, soffocato sotto un eccesso di impegni e di ragioni che non ci convincono, se manca quella scintilla che rende incandescente la vita?
Ma noi, discepoli di oggi, non siamo né migliori né peggiori di quelli di altri tempi, nemmeno dei contemporanei di Paolo; la presenza dello Spirito è forte e fedele, come sempre. Anche per noi, allora, è la parola di Paolo: «Chi ci separerà?». Ogni epoca ha le sue caratteristiche, i suoi problemi, le sue esigenze, le sue ricchezze.
A noi, discepoli di oggi, spetta il compito di interpretare la certezza dell’amore di Dio e di testimoniare l’inesauribile vitalità dello Spirito. Attorno a noi, e dentro di noi, c’è un grande bisogno di speranza: di ragioni forti, di senso, di futuro. Avere troppo rischia di ottundere il desiderio: non saranno né le cose, né le conoscenze, né le garanzie di diverso genere che saranno in grado di restituire alle persone di oggi il gusto di vivere, ma solo il sapersi amati. Gesù, negli incontri della sua vita terrena, ha fatto sì che le persone si sentissero riconosciute e accolte e si sapessero amate: e ha annunciato in questo modo la salvezza. Nella sua parola e nella sua vita la salvezza è apparsa non idea di un’astratta dottrina, ma sguardo, rispetto, ascolto, incontro, chiamata; in questo modo ha detto il valore dell’umanità di ciascuno e ha dato una direzione alla speranza.
Anche oggi potrà dare speranza un cristianesimo capace di rimettere al centro l’amore e di comunicare alle persone che Dio le ama. Così, la vita di ogni discepolo, anche del più piccolo e del più semplice, acquista uno straordinario valore nel mostrare questo amore attraverso i gesti semplici di ogni giorno; attraverso il modo di dare senso alle vicende della vita; attraverso le fedeltà più ardite e nascoste; attraverso la dedizione che sa rendere grandi i gesti banali della vita quotidiana.
Così, il discepolo che vive attingendo al tesoro della sua vita mostra a tutti la stabilità che l’amore può donare, la libertà e la forza di cui arricchisce l’esistenza, gli orizzonti che esso apre a chi non smette di sorprendersi di essere amato da Dio e, al tempo stesso, si radica nella certezza che questo amore è fedele e non può venir meno.
Dio è fedele!
Nei momenti in cui ci sembra che lo slancio dell’amore si affievolisca dentro di noi, quando ci sembra che il calcolo umano vinca sulla disponibilità a fidarci, possa lo Spirito, che sempre viene in aiuto alla nostra debolezza, pregare in noi per ravvivare la certezza che l’amore che ci fa vivere non verrà meno: Dio è fedele! Come potrà, lui che ha dato il suo Figlio, abbandonarci nell’oscurità del nostro cuore opaco o nel freddo di un cuore di pietra? Come potrà abbandonare la sua Chiesa all’illusione di essere la regista della sua vita o alla solitudine in cui la rinchiude l’affanno per le troppe cose da fare?
E allora, nulla potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore (Rm 8,39). Dio è fedele!