«Finché sia formato Cristo in voi» (Gal 4,19)
Guide spirituali alla scuola di San Paolo
Concordemente gli autori riconoscono l’importanza della figura e dell’opera di San Paolo nell’ambito della spiritualità cristiana. Infatti, il pensiero dell’Apostolo ha notevolmente segnato lo sviluppo della Chiesa primitiva, incidendo profondamente non solo nel contesto delle comunità del tempo, ma anche nelle successive generazioni di credenti. A buon diritto, si può affermare che San Paolo è stato e continua ad essere un “maestro” di vita spirituale. Cercherò dunque di cogliere qualche aspetto del suo essere “formatore di cuori e di vita”, sia sul piano biografico che su quello più tematico, per far emergere la ricchezza e l’attualità dell’esperienza di Paolo, vedendola con l’ottica che a me, forse, è più congeniale per la mia formazione e la mia esperienza personale di vita e di ministero: la prospettiva psico-spirituale, che ne esalta la dimensione di maestro e guida spirituale, sia personalmente che nella edificazione delle comunità cristiane che Paolo ha fatto nascere e crescere[1].
1. “Finché sia formato Cristo in voi”
È l’espressione che l’apostolo Paolo usa per esprimere la meta cui tende la sua opera di evangelizzazione e formazione presso la comunità dei Galati.
Una lettura sapienziale e spirituale fa cogliere l’intensità e la ricchezza di immagini che ci dona la frase appassionata di Paolo: «Figli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore, finché Cristo non sia formato in voi» (4,19).
1.1 L’immagine della maternità
È l’immagine a cui Paolo ricorre in diversi testi delle sue lettere, per esprimere il legame intenso e indistruttibile con i singoli membri delle comunità da lui costituite (cf 1Ts 2,7; 1Cor 3,2).
Nella Lettera ai Galati la frase «Figli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore, finché Cristo non sia formato in voi» (4,19) esprime l’ansia per coloro che erano stati generati alla fede e il proposito di ricondurli a Cristo sottoponendosi al dolore del parto, per poterli nuovamente chiamare creature nuove e portare a compimento in essi l’opera formatrice, come fanno una madre e un padre.
“Formare Cristo” è un lavoro profondo, non significa dare una somiglianza con Cristo solo esterna o superficiale, ma, piuttosto, agire profondamente nell’essere e nell’operare.
La “forma” di Cristo richiama “l’immagine e somiglianza con Dio”, secondo le quali l’uomo è stato creato (Gen 1,27). Dio plasma, dandole forma: è l’argilla sulla quale soffia l’alito vitale comunicando la vita (Gen 2,7).
Paolo, similmente, opera su coloro che hanno ascoltato l’annuncio del Vangelo per riplasmarli sulla “forma” di Cristo, mediante l’opera dello Spirito.
1.2 L’immagine della paternità
Ogni paternità umana, anche spirituale, discende da Dio, fonte di ogni paternità e viene da lui donata per partecipazione.
Paolo dichiara apertamente il suo rapporto di paternità nei confronti dei discepoli: «Potreste avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri: sono io che vi ho generati in Cristo Gesù mediante il vangelo » (1 Cor 4,15 ).
Paolo diventa modello emblematico del padre spirituale, reso tale dalla fecondità della Parola di Dio accolta in sé, come seme e fonte di vita.
L’immagine della paternità radicata nel mondo ebraico originario di Paolo, mostra il padre che lega al braccio e alla fronte la Toràh, introducendo i figli alla professione di fede; richiama la responsabilità dell’educazione e della formazione religiosa dei figli da parte del padre, soprattutto nell’esemplarità della vita che richiede l’imitazione da parte dei figli.
Paolo rivolge frequentemente l’esortazione ai propri figli spirituali: «Vi prego, diventate miei imitatori» (1Cor 4,16; cf 1 Cor 4,14; 11,1). Questa immagine racchiude tutto un mondo di relazioni che lega Paolo ai destinatari della sua attività di evangelizzatore e fondatore di comunità cristiane. Paolo ama le sue comunità e i singoli ed esprime ripetutamente questo amore. Tale amore nasce dall’amore di Cristo che vive in lui: «L’amore di Cristo ci possiede» (2Cor 5,14) e si fonde con la capacità affettiva di Paolo. L’epistolario paolino mostra l’amore di Paolo sempre personalizzato, mai generico (cf 1Ts 2,11; At 20,31).
1.3 Tratti essenziali di Paolo nella prospettiva della guida spirituale
Il modo in cui Paolo vive la sua fede in Cristo e la sua predicazione diventa l’esempio ideale per lo stile della guida spirituale. Paolo è “forma” di come vivere Cristo. Colui che è oggetto della cura e dell’accompagnamento spirituale potrà raccogliere così l’invito che l’Apostolo stesso, in varie lettere (cf Fil 3,17; 1Cor 4,16. 11.1; 1Ts 1,6; 1Cor 11,1), rivolge ai cristiani delle chiese da lui fondate.
Come si pone Paolo – “guida spirituale” – nei confronti dei suoi interlocutori, accompagnati nel loro cammino spirituale e di discernimento?
– Paolo si presenta con l’autorità dell’apostolo, chiamato a questo ministero da Cristo stesso.
– Si presenta però anche in tutta la sua debolezza (cf Gal 4,13), uomo tra gli uomini (cf Gal 4,12).
– Si mostra capace di assumersi la responsabilità nella libertà di Cristo, di far apertamente notare gli errori addirittura all’autorità della Chiesa (Pietro, nel Concilio di Gerusalemme), di essere quindi capace di pagare di persona per la verità.
– Si confessa totalmente conquistato da Cristo, innamorato di lui, disposto a tutto per lui e per il suo vangelo e lo testimonia con la propria vita.
– Confessa apertamente l’amore e la tenerezza per coloro che egli chiama figli e fratelli, ma che non esita anche, con altrettanto amore, a chiamare provocatoriamente “sciocchi”, “poco intelligenti”, per scuoterli e invitarli a chiarire la loro fede.
– Il Signore Gesù lo «ha giudicato degno di fiducia» (1Tim 1,12) e perciò egli parla e agisce allo stesso modo con i suoi figli, ha fiducia che essi sappiano passare ad una vita pienamente matura in Cristo.
– Per questo egli, come una madre, accetta di portare nel grembo queste nuove creature per tutto il tempo necessario, affinché l’uomo nuovo sia formato e completo, pronto a venire alla luce.
– Mantiene vivo il ricordo ed esprime sempre la gratitudine per l’accoglienza e l’affetto ricevuto, senza nascondere la commozione che lo pervade (cf Gal 4,15) e non esita ad esprimere il rimpianto e il desiderio di continuare a ricevere lo stesso amore (cf Gal 4,15.16.18.20; 2Cor 6,13).
– Si presenta, infine, come norma concreta di condotta ed esempio di vita matura in Cristo. La conformazione a lui, in virtù del battesimo, innesta nella vita umana debole e fragile un principio di vita superiore che la trasforma, così che l’esistenza non è più fondata sull’uomo naturale, ma sulla vita stessa di Cristo. I figli spirituali devono tradurre spontaneamente il loro affetto nell’imitazione; con l’adesione fiduciosa a Cristo potranno superare le fragilità, pur sentendone il peso[2].
Paolo è un uomo lungo la via, un pellegrino in cammino… Come è straordinaria questa immagine per un annuncio del Vangelo della Vocazione! C’è qualcuno che ci afferra dall’alto, lungo il nostro cammino.
Per questo al giovane che accompagniamo possiamo ripetere: «Non dimenticare la tua storia personale, le tue relazioni, le persone che ti hanno aiutato a crescere, a credere, ad amare. Vivi tutto ciò con profonda consapevolezza, perché questa è la tua storia di vocazione».
Pur riconoscendo la nostra totale debolezza e inadeguatezza (e chi non si sente tale), «sappiamo di portare il nostro tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi» (1Cor 4,10): è la forza della Grazia… E questo ci porta a dire, con abbandono totale di cuore: «Tutto è grazia, o mio Signore!».
2. Il cammino di Paolo è il cammino di ogni guida spirituale
2.1 «Quando piacque a Colui che mi ha chiamato…». La confessio laudis di Paolo
Benché consapevole del suo passato di persecutore, Paolo non pone mai in primo piano il Miserere, bensì la sovrabbondante grazia, il riconoscimento del piano salvifico e, conseguentemente, la confessio laudis, l’esaltazione della divina misericordia[3].
Paolo si sente amato, pensato, cercato, scelto da Dio… fin dal grembo materno. Tutto ha origine dall’iniziativa gratuita di Dio. Nel suo progetto d’amore, Dio gli ha rivelato il Figlio suo perché lo annunciasse ai pagani (cf Gal 1,15-17). Nell’incontro con Gesù, sulla via di Damasco, Paolo scopre la sua vocazione e missione, scopre il meraviglioso progetto salvifico del Padre che abbraccia l’intera umanità.
Egli confessa anzitutto la grazia, il primato dell’amore di Dio, il quale mostra la grandezza del proprio amore nel fatto che «mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,8). È abituale per l’Apostolo cominciare le sue Lettere con la lode e il ringraziamento.
In primo piano è sempre l’azione di Dio, la sua iniziativa di grazia, la sua immensa misericordia.
L’animo di Paolo è costantemente abitato da sentimenti di gratitudine. Basta dare un’occhiata all’incipit delle sue lettere (cf 1Ts 1,2-3; 1Cor 1,4-5; Fil 1,3).
In Paolo è costante il primato della grazia e quindi la lode e la benedizione. L’amore di Dio è anima e respiro, legge e profumo della vita cristiana (cf Rm 5,5; Gal 4,6).
2.2.1 Prima applicazione: la riscoperta dello stupore e della meraviglia
Quando ci riappropriamo di spazi di calma e di tranquillità per guardare “intorno” a noi e per rientrare “dentro” di noi, tutto ciò crea un senso di soffuso stupore e di sbalordita meraviglia, perché quello che vediamo o quei fatti che sono parte della cronaca quotidiana acquistano un riverbero diverso.
Ci stupisce che alcune cose siano accadute, quasi ne avessimo perso la memoria; che ci sia stata quella particolare scoperta o quel fatto culturale; che quella persona così importante e famosa se ne sia andata; che quella particolare calamità abbia colpito una popolazione…
Ci stupiscono la morte e la vita, le passioni e i desideri, i tradimenti e l’amore, l’avventura e il coraggio…
Uno stupore di cui spesso abbiamo perso la traccia nella nostra affettività; uno stupore che ci fa bene, perché ci aiuta a riprendere confidenza nella maniera giusta con la vita, a non lasciarci travolgere dagli eventi, ma anche a non restare ciechi di fronte ad essi.
Personalmente, lo stupore più profondo nasce in me di fronte ai fatti che esprimono il coraggio nella vita quotidiana:
– quando vedo una persona che sa sopportare con pazienza la sua malattia o sofferenza e con un “grazie” ricambia quel poco che ti pare di donarle come attenzione, aiuto e conforto: il cuore resta attonito e stupito;
– quando incontro qualcuno che di fronte ad un bisogno si dichiara subito disponibile, senza domandare perché, per cosa, per come… facendomi capire, come diceva Sant’Agostino, che l’amore non mette limiti all’amore;
– quando, in un momento di difficoltà, di stanchezza, di tristezza, trovo qualcuno che non è schiavo dell’orologio e scappa via dicendo: «Ti ascolterò un’altra volta, perché ho tante cose da fare…», ma lascia le cose da fare, si ferma e con pazienza e dolcezza mi ascolta;
– e ancora quando, dopo essere rimasto in silenzio per tanti mesi con una persona amica, nel momento dell’incontro, ritrovo tutta quella carica di simpatia, di affettuosità e di calore umano che mi fa sentire accolto, capito e profondamente a mio agio…
In una cultura che esalta l’adulto “yuppie e grimpeur”, arrogante e rampante, privo di scrupoli e di vincoli etici, che porta i bambini ad essere sempre più prepotenti ed egoisti, tutto ciò è la riscoperta dello stupore semplice e grato.
2.2 «Conquistato da Cristo Gesù…». La confessio fidei di Paolo
Quell’”a tu per tu” con il Risorto sulla via di Damasco è una sorta di terremoto per Paolo, un capovolgimento totale di vita. L’inquieto fariseo che cercava di costruire la sua giustizia nella piena osservanza della Legge perviene alla fede, il persecutore al battesimo: una piena immersione nella morte e risurrezione del Cristo (cf Rm 6,4).
Paolo vive il battesimo come radicale morte alle pretese del proprio ego e, dunque, ad un certo modo di vedere, giudicare e agire per assumere i pensieri e i sentimenti di Gesù Cristo. Per Paolo vivere è Cristo (Fil 1,21).
Tutto gli appare ormai relativo. Ciò che prima esercitava tanto fascino su di lui, lo giudica una “perdita”, lo valuta “spazzatura”.
Non c’è bisogno che Cristo gli chieda di vendere tutto. Paolo lo fa spontaneamente, come il mercante della parabola evangelica: egli ha trovato la perla preziosa per cui merita vendere tutto. Ha incontrato l’Amore!
Paolo valuta ormai tutto alla luce di Cristo, si immedesima con la sua passione, desidera essere pienamente solidale, partecipare attivamente «alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti» (Fil 3,10). Egli vive per primo ciò che insegna, fa propri i sentimenti di umiltà e di obbedienza del Cristo, la sua kénosi, il suo volontario abbassamento, il suo essere-per, la sua totale dedizione (cf Fil 2,5-8).
E tutto questo lo assume con un forte senso ecclesiale, nella stessa prospettiva d’amore del Cristo, tanto che può dire: «Anche se il mio sangue deve essere versato in libagione sul sacrificio e sull’offerta della vostra fede, sono contento» (Fil 2,17).
2.2.1 Seconda applicazione: testimoni di fede e fiducia
Vorrei identificare tre sentieri lungo i quali camminare, per essere realmente “testimoni e profeti della nostra confessione di fede”.
1- Ritrovare e purificare la fede del cuore: è una esperienza religiosa e spirituale che sa andare al di là della pura logica della ragione, torna ad essere capace di meravigliarsi e sa superare i rigidi aut-aut che determinano gran parte della vita stessa o i rigidi efficientismi che spesso la angosciano: è l’esperienza di una “tenerezza” che sa donarsi totalmente (cf Lc 7,36-50).
2- Vivere il coraggio di una fede profetica, capace di parlare “in nome di Qualcuno” che è oltre noi, la nostra storia, la nostra cultura, il nostro piccolo ambito di tempo. Essa è capace di guardare in alto, per ritrovare il gusto di guardare in avanti, con la fiducia in un “dopo” sereno e benedetto. È finalizzata all’essere testimoni che indicano la via della “semplificazione”, in un mondo sempre più complesso e, ahimè, tremendamente complicato (cf Lc 2,22-38).
3- Lasciare spazio in noi ad una esperienza di fede laudativa e sapienziale. La sapienza biblica è come l’architetto che progetta ed edifica la casa; come il nocchiero che sa veleggiare guardando alle stelle e non come un mago illusionista che fa solo abili, ma intriganti, giochi di prestigio (cf Gv 21,15-18).
2.3 «Quando sono debole…». La confessio vitae di Paolo
Paolo ha viva consapevolezza del peccato, conosce per esperienza diretta l’umana debolezza e fragilità. Egli non rimuove il suo passato, anzi, vi ritorna più volte nelle sue confessioni.
Ma la situazione è più radicale, Paolo sperimenta e confessa una lacerazione interiore: «Non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. (…) Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!» (Rm 7,15-25). Emerge in lui il conflitto tra il volere e l’operare, rispetto a ciò che è bello e buono: la volontà è disponibile, ma i suoi risultati non lo sono altrettanto… Paolo descrive un Io che è schiavo del peccato nonostante la sua volontà.
Di debolezza in un altro senso, cioè in una forma più esistenziale e diretta, l’Apostolo parla ai Corinti ai quali confessa: «Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione» (1Cor 2,3). Una debolezza che si inscrive radicalmente nella “parola della croce” e nella “stoltezza della predicazione” attraverso la quale piacque a Dio, nella sua sapienza, di salvare quelli che credono (cf 1Cor 1,18-25).
Il processo di conformazione al Cristo crocifisso comporta per Paolo non solo l’assunzione della propria fragilità e debolezza, ma anche un vivere la missione evangelizzatrice e il ministero di cura pastorale in chiave di umiltà e debolezza, partecipando così al mistero pasquale del Cristo (cf 1Cor 4,11-13). Nella Seconda Lettera ai Corinti, parla di un «tesoro in vasi di creta» (2Cor 4,7), affinché appaia chiaramente che la potenza del Vangelo viene da Dio e non dall’uomo[4]. Si rimane senza parole di fronte all’elenco delle sue fatiche e sofferenze (cf 2Cor 11,24-29).
Paolo accoglie la fragilità e la debolezza del vivere come dimensione essenziale della confessio vitae. Egli avrebbe mille motivi per vantarsi, sia come ebreo che come apostolo, ma non è dei suoi rapimenti in cielo e delle sue estasi che si gloria, bensì della propria debolezza e infermità. Rientra in questo contesto l’esperienza della misteriosa “spina nella carne”. Qualunque sia la situazione cui fa riferimento questo linguaggio metaforico, una cosa appare chiara: Paolo insistentemente («per ben tre volte») chiede al Signore di esserne liberato, ma si sente rispondere: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2 Cor 12,9). La debolezza si sposa qui con il pieno affidamento alla grazia. L’Apostolo infatti conclude: «Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo; quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,9-10).
2.3.1 Terza applicazione: dalla fragilità personale al ministero della “consolazione”
Chi è chiamato ad essere una guida spirituale diviene anche un dispensatore del dono della “consolazione”. In forza di ciò egli è chiamato a curare le ferite proprie, per essere preparato poi a guarire le ferite altrui[5]. Ma quali sono le nostre ferite?
La ferita della solitudine
È proprio la parola “solitudine” ad esprimere meglio di altre la nostra esperienza immediata. È una ferita che può diventare una fonte inesauribile di autocomprensione. Stiamo in guardia da chi promette soddisfazione immediata e rapido sollievo.
La solitudine ci ripropone, fondamentalmente, il nostro mondo di separazione e di incompletezza. Se si creano false aspettative e illusioni, si impedisce a se stessi di rivendicare la propria solitudine come fonte di comprensione umana.
È una solitudine costitutiva della nostra esistenza, perché la guida spirituale è spesso chiamata in causa anche nei momenti definitivi della vita stessa: nascita e morte, unione e separazione, amore e odio… Spesso la guida spirituale è chiamata anche a dare significato alla vita umana e, insieme, si trova al margine degli eventi stessi.
Solo una profonda comprensione del nostro dolore, ci porterà a cambiare la debolezza in forza e a presentare la propria esperienza come fonte di guarigione per coloro che spesso sono smarriti nelle tenebre del loro dolore incompreso.
La guarigione come ospitalità
Occorre ricordare che il parlare dei propri problemi non aiuta gli altri: è uno stile di poca fede e di carenza di prospettive nuove.
Fare delle proprie ferite una fonte di guarigione significa vivere nella dimensione che il dolore e le sofferenze emergono dal profondo della condizione umana, a cui tutti partecipiamo.
Qui nasce il senso della ospitalità, che ha radici profonde nella tradizione ebraica e cristiana. L’ospitalità è la capacità di avere cura dell’ospite; questo è molto difficile, essendo noi preoccupati dei nostri bisogni e delle nostre tensioni, che ci impediscono di prendere le distanze da noi stessi per interessarci degli altri.
Chi voglia prestare attenzione all’altro deve muoversi a proprio agio in casa propria, deve scoprire nel proprio cuore il centro della sua esistenza[6].
Il ritorno a se stessi è un processo molto doloroso e solitario, perché ci obbliga ad affrontare direttamente la nostra condizione in tutta la sua bellezza e in tutta la sua miseria: è la via della teshuvàh, così cara alla tradizione ebraica, che Martin Buber evidenzia come il principio cardine di ogni esperienza relazionale[7].
Quando non abbiamo paura di rientrare nel nostro stesso nucleo, per concentrarci sulle emozioni del cuore, arriviamo a capire che vivere significa essere amati. Questo richiede di scoprire gli ancoraggi nel nostro stesso centro. Il paradosso è che l’ospitalità esige uno “spazio vuoto”, dove l’ospite possa scoprire il proprio cuore.
Guarisce, perché toglie l’illusione menzognera che ci si possa dare reciprocamente la completezza; guarisce perché non annulla dolore e sofferenza, ma invita l’altro a spartirla dopo averla riconosciuta.
La guida spirituale, come ogni ministro della consolazione, non è un medico che possa togliere il dolore, ma piuttosto essa penetra nel dolore, fino ad un livello in cui possa essere condiviso.
Forse il compito principale di un accompagnatore spirituale, oggi, è quello di aiutare la gente a non soffrire per dei motivi… sbagliati. Molti soffrono per una supposizione errata su cui hanno fondato l’esistenza: la supposizione che non dovrebbero esserci né timore né solitudine, né confusione né dubbio.
Un dolore condiviso non è più paralizzante, ma mobilitante. L’ospitalità permette una fragilità spartita e una speranza condivisa; la prigionia si spezza e si creano alternative nuove.
2.4 «Proteso verso il futuro, corro verso la meta…». La confessio spei di Paolo
Paolo non si ritiene un “arrivato”, ma uno che corre. E non più, come un tempo, all’inseguimento della perfezione indicata dalla Legge, ma al seguito di Gesù, fortemente attratto dal suo amore (cf Fil 3,12). Paolo corre… Corre chi ha in cuore una meta; corre chi ama.
Non solo Paolo corre, ma lotta anche e tratta duramente il suo corpo (cf 1Cor 9,26-27). Perché? Non erano più che sufficienti le sofferenze e le persecuzioni a cui doveva far fronte? Si colloca qui l’ascesi di Paolo, che, tutto preso dall’amore per Cristo, si sottopone a training e disciplina. È questione di amore e di speranza.
Chiunque pratica uno sport si esercita, fa allenamento, si sottopone a dieta e disciplina. Occorre training perché un atleta, un maratoneta, possa diventare un vincitore.
Occorrono allenamento e disciplina perché non c’è una scontata continuità tra il correre e il conseguire il premio. Il correre di Paolo è decisamente teso alla meta. La sua disciplina è mirata, include la mortificazione e sottomissione del corpo, in modo che le pretese del fisico non abbiano il sopravvento su quelle dello spirito.
Si comprende che nulla è scontato, neppure per Paolo. Correre è per lui un’esigenza del cuore, un bisogno dell’anima affascinata e afferrata da Gesù.
Ma anche la carne ha le sue pretese e Paolo ne è ben consapevole. Perciò lotta e combatte contro se stesso, perché non sia la carne ad avere il sopravvento, ma lo Spirito. Quello che insegna, egli lo vive in prima persona. «Certa è questa parola – scrive a Timoteo – se moriamo con lui, vivremo anche con lui; se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo…» (2Tm 2,11 ss.).
La speranza del cristiano riguarda proprio la “redenzione del corpo”: non la liberazione dell’anima dal corpo, ma la salvezza di tutta la persona, chiamata a partecipare della gloria del Cristo risorto (cf 2Tm 2,11; FU 3,21; Rm 8,19-24).
2.4.1 Quarta applicazione: nell’epoca delle “passioni tristi”… lampionai di speranza
Quanto sin qui abbiamo cercato e proposto costituisce un itinerario, una ricerca, un progetto e un impegno non facili da tradurre in pratica nella propria vita. Per essere “lampionai di speranza” occorre innanzitutto partire da se stessi: significa imparare ad accendere la Speranza “dentro” di noi.
Le cose “vere” della vita nascono sempre dal di dentro, perché solo nell’interiorità e nel silenzio esse possono crescere e maturare senza forzature e manipolazioni.
La via della convinzione: la speranza diviene possibile e vivibile solo se noi stessi, per primi, la crediamo tale. Quante persone perdono la Speranza forse proprio perché smarriscono la via dell’interiorità del cuore. Quanti dicono sconsolati: «È così!… Per me sarà sempre così, non posso fare nulla per cambiare la mia vita». E si arrendono. Ma la vera vittima, nella vita, è soltanto chi si rassegna: vittima di se stesso, della sua sfiducia, della sua non speranza.
La via dell’accoglienza, che sana le ferite di chi non si è sentito capito, accettato e soprattutto amato. Un grande psicoanalista e psicoterapeuta contemporaneo, Sacha Nacht, usa un’immagine che mi ha profondamente colpito: «Se qualcuno viene da te per raccontarti le sue angustie e le sue ansie, tu non classificarlo subito, non giudicarlo, non imbrigliarlo dentro alle “tue” illuminazioni o sensazioni. Sii piuttosto per lui come… “una comoda poltrona” in cui egli possa sedersi, rilassarsi, sentirsi davvero a suo agio, accolto e ascoltato». Il cuore inteso come “comoda poltrona”… Quando si vive qualche momento di sofferenza, di malinconia, di tristezza – e la vita, in questo senso, non fa sconti a nessuno! -, questi diventano macigni insopportabili se si uniscono al peso della solitudine. Chi è solo trova con difficoltà la forza di reagire e di cercare, di rialzarsi e di ricominciare; insomma, la forza di “sperare”. La solitudine taglia le gambe molto spesso: da fantasma aleggiante ed impalpabile diviene ingombrante e insopportabile realtà.
La via della compagnia: non solo e non tanto perché “insieme è bello”, ma perché insieme il cuore può superare tante paure. E qui diventa importante, forse davvero essenziale, trovare chi accetta di condividere il proprio “lumicino” di Speranza e camminare con noi, tenendo il ritmo del nostro passo, anche se appesantito, vacillante e incerto. Queste sono le vie dei cuori semplici, di coloro che hanno imparato (e non certo senza fatica) a “soffrire… sperando”. Del resto anche l’aver vissuto solo qualche contatto con qualsiasi realtà legata all’handicap, alla malattia o alla sofferenza psicologica e morale, diventa una miniera preziosa di come imparare dai più deboli ad affrontare la vita, coniugando insieme pianto e sorriso. Ci sono dei testimoni preziosi e feriali di questa Speranza, a cui ognuna delle nostre vite può attingere. Questa, in fin dei conti, è la via dell’abbandono nella fede!
2.5 «Non sono più io che vivo… vive in me Cristo». La confessio amoris di Paolo
In Gal 2,20 appare in modo folgorante la dimensione mistica di Paolo, l’unione della sua vita con Cristo, la sua confessio amoris.
Paolo fa esperienza del Cristo che lo ha preceduto con un amore assolutamente gratuito, totale, sconcertante: «Mi ha amato e ha dato se stesso per me», scrive con profonda emozione ai Galati (2,20). Come tessere adeguatamente l’elogio del Cristo, del suo sorprendente amore? Paolo è un torrente in piena quando ne parla, ma è come se le parole non gli bastassero. Ricorre allora a una cascata di domande che coinvolgono direttamente l’ascoltatore nel suo sentire: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada…?». E risponde con toni lirici: niente e nessuno, «né morte, né vita, né cose presenti, né cose future, né potenze, né altezza, né profondità, né alcun’altra creatura potranno separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,35-39).
L’amore del Cristo ha condotto Paolo ad un progressivo esproprio di sé. Non c’è un interesse di Paolo accanto a quello di Cristo. Tutta l’energia, la passione, l’interesse di Paolo convergono nel vivere e comunicare Gesù Cristo. Giustamente si è detto che il cuore di Paolo è il cuore di Cristo. Il suo vivere è Cristo. Paolo può dire: «Vivo, ma non più io, vive in me Cristo». Indubbiamente siamo al vertice della mistica. Ma Paolo non ritiene affatto che questa dimensione mistica sia un’esperienza privilegiata, esclusiva o riservata a pochi eletti. Al contrario, ogni battezzato è chiamato a vivere in Cristo e di Cristo mediante l’azione dello Spirito, che sintonizza con i valori del Cristo e fonda in modo originale il Cristo stesso in ogni credente.
Spirito, amore, libertà! Impossibile separare queste parole per Paolo (cf Gal 5,13-25). Cosa comporti per Paolo la confessio amoris è splendidamente illustrato in 1Cor 13, in quell’inno all’amore che si compiace della verità e tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
Si tratta di una delle pagine più vive e sentite del Nuovo Testamento, un elogio esaltante dell’amore, “un inno”, ma Paolo lo chiama propriamente una via, una strada, una pista da percorrere: «Vi mostro una via di gran lunga migliore» (1Cor 12,31). E la strada percorsa da Gesù e dallo stesso apostolo che può dire: «Quanto a noi, siamo i vostri servitori per amore di Gesù» (2Cor 4,5). La fede e la speranza avranno fine, ma l’amore no. L’amore dura per sempre.
2.5.1. Quinta applicazione: la via dell’amore per la guida spirituale
È la via percorsa dal Cristo e anche da Paolo, che si è fatto “tutto a tutti” per amore di Cristo. Dietro le più belle apparenze si nasconderebbe un vuoto pauroso, se non ci fosse l’amore. Il segreto e la pienezza della vita spirituale, nella prospettiva di Cristo e di Paolo, è decisamente l’Amore. È questa la via migliore!
3. Tre sentieri per la guida spirituale
3.1 La via dell’Accoglienza
Creare una dolce intimità, ove si possa camminare a piedi nudi… Henri Nouwen, psicologo e pastoralista americano, morto abbastanza giovane qualche anno fa e molto conosciuto in Italia per le sue opere pubblicate, afferma: «A volte immagino che il mio cuore sia come un posto irto di aghi e di spilli. Come accogliere qualcuno se non vi può riposare pienamente e dolcemente?».
Un cuore agitato da preoccupazioni, rabbia e gelosia, causa delle ferite a chi vi entra. Devo creare una zona libera in me, per poter invitare altri ad entrarvi e guarire. La compassione richiede un’autocritica minuziosa che conduca ad una dolcezza intima. È una interiorità dolce, un cuore di carne e non di pietra, uno spazio dove si può camminare a piedi nudi…[8].
3.2La via della Gratuità
La Gratuità non è impaziente, non vuole dettare i ritmi e i tempi secondo le proprie personali aspettative o cadere nella trappola del “tutto e subito”!
La Gratuità non è dominante, nel senso di pensare di diventare per l’altro il… guru illuminato, che a tutto sa rispondere e che tutto può indirizzare… Gesù in questo senso lascia davvero liberi i suoi discepoli, dopo il difficile discorso sul pane di vita: «Volete andarvene anche voi?» (Gv 6,67).
La Gratuità non sempre è reciprocità e grazie! Certo, si vorrebbe che ci fosse un segno di riconoscimento di quello che noi possiamo fare per l’altro, ma non sempre avviene così; e tanti genitori lo sperimentano, anche in maniera drammatica, con i propri figli…
Come non ricordare il fatto raccontato nel Vangelo di Lc 17,11-19, in cui dieci lebbrosi sono guariti e uno solo ritorna per un grazie…
3.3 La via della Comunicazione
Su questo aspetto sarebbe importante trovare tempi e modi per tornarci a riflettere in maniera più profonda e specifica, per imparare a cogliere che cosa significa veramente una comunicazione nell’ambito spirituale.
– La vera comunicazione nasce dal silenzio: Gesù la prepara nel silenzio della preghiera (Lc 6,12)[9].
– La comunicazione, per poter scendere in profondità, ha bisogno di tempo: come il segreto messianico nel Vangelo di Marco, che viene svelato a poco a poco e ancora più lentamente compreso…
– In una comunicazione spirituale, luci ed ombre si combinano insieme, non tutto può essere chiaro e comprensibile in tempi brevi e senza lo sforzo di una ricerca. È la costante dialettica di manifestazione e nascondimento che troviamo anche nel Vangelo: tra Tabor e Getsemani.
– Nella comunicazione la trasparenza delle realtà e delle scelte, come anche la capacità di sciogliere il nodo dei conflitti e dei problemi, non è mai assoluta. L’aiuto dello Spirito Santo, invocato con perseveranza, aiuta a cogliere la verità tutta intera (cf Gv 16,13).
– La comunicazione che sa veramente “accompagnare”… è coinvolgente; essa è fatta di incontri personali in cui la persona viene svelata a se stessa, ma anche profondamente rispettata e accettata per quella che è. I Vangeli testimoniano che Gesù incontra le persone in un modo e con uno stile profondamente diverso, proprio perché le loro storie e le loro personalità sono profondamente diverse.
Per concludere
Mi pare che l’affermazione di Paolo chiami in causa la persona del Signore, come roccia su cui è poggiata l’esistenza del credente e l’atteggiamento della fiducia come forma della relazione con il Signore. I tempi difficili come l’attuale ci sollecitano: o riscopriamo l’essenziale e lo reinterpretiamo per l’oggi, o ci facciamo corresponsabili dello sclerotizzarsi di una fede che ha perso la fonte. L’essenziale è il Signore Gesù. Siamo cristiani per Lui, non per tanti elementi accessori che rischiano di riempire la scena e di farci perdere il valore vero delle cose.
Penso che oggi le varie chiamate vocazionali dovrebbero essere sempre più alleate per interrogarsi su ciò che Dio dice al nostro tempo; su dove Dio si manifesta nella storia umana; su come far risuonare il Vangelo come parola di bene, di bontà, di amore di Dio per l’uomo. Un’alleanza per esercitare insieme una profezia che forse, oggi, è impossibile vivere nell’isolamento e nell’autoreferenzialità.
Sento altrettanto vero di poter dire che, in questa ricerca sui sentieri della Unità condivisa e della Speranza che Gesù ci dona, questi sono certamente pensieri poveri e semplici, riflessioni meno mutuate dai libri e più cercate e apprese nella vita e dal cuore della gente semplice, nelle loro storie fatte di sofferenza e di desideri, di nostalgie e di ricerca di una Fiducia nuova. Pensieri di una ricerca che rimane “aperta” più che consegnata alle certezze acquisite.
A questo punto le nostre parole sulla Speranza lasciano spazio alle parole del Silenzio. Nella consapevolezza profondamente acquisita che più che sapere, occorre saper essere, più che guardare, occorre vedere, più che parlare, occorre vivere.
Qui ritroviamo anche il senso dello slogan vocazionale di questo anno 2009: “So a chi ho dato la mia fiducia” (2Tm 1,12) che potrebbe ben coniugarsi con un saluto che oggi Paolo ci rivolge, alla fine del nostro Seminario: Cammina nella Pace del cuore… Ti basta la mia Grazia!
Note
[1] Cf G. Benzi, «Una grande vita », in Ufficio Catechistico Nazionale – apostolato biblico, In cammino con San Paolo, Ellenici, Leumann (Torino) 2008, 99.21-33
[2] Cf Sant’Agostino, Commento alla Lettera ai Galati, Nr. 37.38; PL 35, 2131-2132.
[3] Le 5 “confessioni” che propongo, come paradigma di lettura dell’esperienza di “guida spirituale” in Paolo e del suo essere formatore di cuori, sono mutuate da In cammino con San Paolo, op. cit.; cf E. Bosetti, Paolo, maestro di vita spirituale, pp. 63-74; M. Bellet, Vocazione e Libertà, Cittadella, Assisi 2008; AA.W., L’accompagnamento spirituale, Ancora, Milano 2007.
[4] Cf B. Maggioni, L’umanità della Bibbia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2008.
[5] Cf J.M. Nouwen, // guaritore ferito: il ministero nella società contemporanea, Queriniana, Brescia 2003.
[6] Cf H.J.M. Nouwbn, Nella casa della vita: dall’angoscia all’amore, Queriniana, Brescia 2003.
[7] Buber, Il cammino dell’uomo, Qiqajon, Magnano (VC), 1990.
[8] J.M. Nouwen, La voce dell’amore: itinerario dalle profondità dell’angoscia ad una nuova fiducia, Queriniana, Brescia 1997.
[9] Cf T. Spidlik, Amate il silenzio, Gribaudi, Milano 2003.