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N.04
Luglio/Agosto 2009
Dossier /
2 Agosto 2009

«Mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze perché dimori in me la potenza di Cristo» (2Cor 12,9)

La crescita umana e spirituale della guida spirituale

di
Roberto Roveran

Più che una guida: San Paolo fu un apostolo che raccontò di sé

Che San Paolo vivesse proteso verso l’esterno, in relazione al mondo e agli altri e prima di tutto centrato sul Cristo, lo dimostrano alcune sue frasi: «Mi sono fatto servo di tutti… mi sono fatto tutto a tutti…» (1Cor 9,19.22); «Per me infatti vivere è Cristo…» (Fil 1,21). Queste espressioni evidenziano la sua deci­sione di lasciarsi coinvolgere, di abbassarsi e di valorizzare tutte le proprie energie per raggiungere gli altri là dove sono e come sono (Giudei, pagani, osservanti o meno, deboli…). Egli ci abitua molto in fretta a fare i conti con il suo stile e modo di raccontarsi, in cui usa con frequenza la prima persona singolare e il pronome “io”. Non cerca una vana umiltà San Paolo, convinto com’è invece che l’annuncio del Vangelo ha bisogno di esperienze concrete più che di teorie o dottrine:«Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me. La vita che ora vivo nella carne, la vivo nella fede del Figlio di Dio che mi amò e diede se stesso per me» (Gal 2,19-20).

 

Così Paolo evangelizza, parlando della sua esperienza, di come Gesù lo avvolga della sua benevolenza e della sua grazia, in prima per­sona, quasi che non vi possa essere un altro modo più efficace di stimolare alla fede nel Figlio di Dio. L’Apostolo ci testimonia così che egli stesso diventa metodo, in quanto attinge dalla propria vita con­tenuti esperienziali per toccare gli ascoltatori al cuore, nelle viscere, più che alla testa. Egli trae le risorse della sua predicazione dalla propria esperienza di relazione personale e profonda con il Signore Gesù, dalla storia d’amore e amicizia che Dio intesse nella sua vita.

San Paolo non ha timore di raccontarsi e, soprattutto, di raccon­tare come il Signore sia intervenuto e continui ad intervenire nella sua vita (più volte, ad es., racconta la sua trasformazione interiore da angolature diverse[1]), in forza di un’elevata capacità di conoscersi interiormente e di leggere il proprio vissuto umano e di fede.

Egli ci insegna che il servizio di guide a cui ci stiamo interessando non dipende tanto dalla competenza tecnica da acquisire – seppur necessaria e indispensabile, vista la complessità del mondo in ge­nerale e, in particolare, di quello giovanile a cui ci rivolgiamo -, ma, innanzitutto, da uno stile di vita che sa cogliere gli interventi di Dio all’interno della realtà quotidiana della propria esistenza e ne sa trasmettere l’arte o capacità di lettura e discernimento a chi viene accompagnato. Paolo ci racconta infatti frammenti della sua storia con Dio e della sua intima amicizia con Gesù, così da abilitare gli ascoltatori a riconoscere l’opera divina nella loro stessa esperienza vitale.

È questa – ci sembra – la chiave di lettura più significativa dell’opera dell’Apostolo nei confronti del nostro servizio di guide. Per un buon principio di corretta comunicazione possiamo dire che, a giudicare dall’effetto, davvero San Paolo sapeva annunciare il Vangelo di Cristo o, detto in altri termini, poiché il suo annuncio era ascoltato e seguito, vuol dire che egli per primo ne viveva davvero il contenuto e, pertanto, il suo dire risultava del tutto convincente. Perciò, potremmo affermare che, mentre annunciava si raccontava e, viceversa, mentre si raccontava annunciava!

San Paolo era allo stesso tempo un buon maestro di vita e un ot­timo testimone. È proprio così che dovrebbe essere l’apostolo: una persona libera e integrata, perché consegnata al Signore e quindi capace di “trasudare Dio da tutti i pori” della sua pelle, con le pa­role, le opere, le preghiere, i gesti, gli atteggiamenti; in pubblico e in privato [2]. E cosa ha testimoniato Paolo se non l’amore di Cristo? Paolo ha scelto con responsabilità la strada dell’amore, strada che siamo invitati a percorrere noi, oggi, da subito!

Quali possono essere i tratti emergenti della sua opera di evangeliz­zazione e annuncio della fede? Guardando a lui e al suo stile di vita intendiamo raccogliere annotazioni importanti per la nostra cresci­ta come guide spirituali dei giovani d’oggi.

 

Passione educativa

Predomina in Paolo una sorta di passione e zelo, che lo condu­cono ad aver somma cura dei fedeli da lui evangelizzati. Paolo parla addirittura di “gelosia divina” (cf 2Cor 11,2-3) e noi sappiamo che la gelosia ha a che fare con l’affettività, che ha aspetti di possessività. Ecco, allora, l’aggiunta dell’aggettivo “divina” per precisarne più opportunamente la finalità: l’Apostolo non intende legare a sé le persone, ma orientarle e ricondurle alla sequela di Cristo. Paolo si sente coinvolto nell’opera di condurre l’uomo a Dio, arrivando anche a lottare per difendere i nuovi fedeli conquistati a Cristo… Paolo teme per la fragilità di coloro che sono venuti alla fede e quindi lotta perché nessuno li inganni, cerca di prevenire la loro debolezza, li richiama, li difende anticipando i possibili pericoli. Non si accontenta di averli guadagnati a Cristo, ma continua a seguirli accom­pagnandoli dentro le tentazioni inevitabili del credente in fasce.

E quando non può più farlo in modo diretto passando nelle co­munità e parlando faccia a faccia con le persone? Non c’è proble­ma: ecco la soluzione della lettera che arriva come ispirazione dello Spirito e che diventerà un vero e proprio metodo del tutto nuovo e originale di evangelizzazione e di sostegno per le diverse comunità della prima cristianità.

Un San Paolo così appassionato ci fa capire che, se davvero ci stanno a cuore le persone, siamo disposti ad imparare, diventare creativi, innovativi, ad aggiornarci… pur di aiutarle.

Un simile interesse e coinvolgimento, però, non si improvvisa­no, ma derivano da una profonda passione educativa che l’apostolo Paolo coltivava in sé e metteva in atto nella relazione con i fratelli in Cristo. Una passione legata strettamente alla sua missione di an­nunciatore del Vangelo. Annunciare, per Paolo, significava anche sostenere, accompagnare, consolare, condividere, ecc.

 

Uomo del dialogo

Chi si gioca tutto nell’educare valorizza al massimo lo strumento del dialogo quale mezzo fondamentale per creare fiducia e alimenta­re il germe della fede nei cuori. Paolo dimostra una grande flessibilità e duttilità nel saper adeguarsi e intervenire nelle singole questioni delle diverse comunità. Su ogni problematica non si stanca di ri­correre al fondamento che è Cristo Signore e di trovare espressioni e metafore atte a comprendere e superare anche le situazioni più complesse (siete il corpo di Cristo, il tempio di Dio, il campo di Dio; l’uomo vecchio va sostituito col nuovo; occorre rivestirsi dell’arma­tura di Dio; corriamo come atleti per una corona incorruttibile… ). Le lettere, in particolare, sono un saggio eloquente di una pedagogia che entra nelle situazioni, le ama e le trasforma. Se così faceva e scriveva San Paolo, possiamo ben immaginare come potevano essere i suoi dia­loghi con le persone. Proviamo ad elencare qualche aggettivo: caldi, centrati, rispettosi, accoglienti, autentici, decisivi, coinvolgenti, fina­lizzati, arricchenti e liberanti, capaci di sognare e di far sognare…

Dunque, una capacità di ascolto e dialogo con gli altri che nasce dalla personale esperienza di:

* relazione (con Dio nella preghiera);

* appello (chiamata a farsi suoi collaboratori);

* testimonianza (relazione con gli altri).

 

Uomo della gratuità

La “passione educativa” è il primo requisito di una guida spiri­tuale. Essa non deriva certo da un semplice incarico, ma, piuttosto, da un’attitudine, da un sentire interiore, da una compassione molto simile a quella di Gesù per le folle (cf Mc 6,34). Si tratta del desiderio profondo di contribuire al bene integrale degli altri. La passio­ne educativa nasce lì dove c’è un cuore che ama e che ama come Cristo. Così era San Paolo: talmente sorpreso e felice dell’amore del Cristo per lui da prodigarsi con tutte le forze perché esso fosse conosciuto e accolto in tutte le modalità.

Una delle caratteristiche della passione educativa è la gratuità, ossia il vivere per il bene, per diffondere il bene in modo del tutto di­sinteressato verso gli altri. Che tipo di passione è quella di chi è così preoccupato del proprio ruolo di animatore vocazionale da forzare la decisione o da accogliere indistintamente giovani nelle proprie istituzioni senza un reale tempo di discernimento e preghiera?

La passione genuina dovrebbe liberarci dalle preoccupazioni del numero, della nostra riuscita e della bella figura; la passione è ge­nuina se guardiamo agli altri con libertà, cercando il loro vero bene. Ma questo chiede un superamento di sé, un vero e proprio “spossessamento di sé” al fine di aiutare a cogliere ciò che Dio vuole dalle persone piuttosto che le nostre attese ed esigenze personali. E que­sto implica talvolta anche un po’ morire a se stessi: morire all’idea che ci eravamo fatta su alcuni giovani nei quali abbiamo percepito una certa sintonia con la nostra vocazione-missione, morire al ve­dere che gli stessi scelgono altre strade… Ma morire, si sa, è una sfumatura delicata dell’amore e questo è dimostrato anche nella vita di San Paolo, il quale era legato affettivamente a tante perso­ne (gli elenchi di saluti lo dimostrano ampiamente), a qualcuna in modo più profondo, ma ognuno è rispettato nella sua singolarità, mai forzato o obbligato (cf Fm 1,12-14). La vera passione è interesse, amore e fiducia per il bene dell’altro,perché trovi il progetto di Dio e viva nella sua volontà.

Certe dinamiche negative scattano in noi per quella forte preoc­cupazione di sé che prende il sopravvento rispetto alle nobili finalità che ci proponiamo davanti a Dio. La libertà da sé e dai propri desideri e progetti ha a che fare con la conoscenza e l’attenzione a noi stessi.

 

Conoscenza di sé 

La guida cresce con l’accompagnato attraverso la costante rilet­tura di sé e delle proprie dinamiche, al fine di non pregiudicare la libertà dell’altro. L’esperienza di San Paolo su questo punto è molto interessante.

 

Fare verità su di sé

 In diversi passaggi delle lettere, l’Apostolo dimostra di lavorare su se stesso con costanza e profondità e, quindi, di conoscersi e di leggere le proprie dinamiche interiori. Mi riferisco a tre esempi in particolare:

– non riesce a compiere il bene pur volendolo (Rm 7,19-21);

– vorrebbe liberarsi della spina nella carne (2Cor 12,7-10);

– annota che il tesoro del Vangelo abita in vasi di creta (2Cor 4,7-11).

Paolo è ben consapevole, quindi, della necessità di guardarsi dentro non solo per scoprire l’opera di Dio, ma anche per gestire quella parte di sé che sfugge inevitabilmente al proprio controllo. Tralasciare certe aree, come quella affettiva ad es., accanirsi su altre, restare in superficie o spiritualizzare le situazioni e le dinamiche sono solo alcuni degli errori più frequenti che compiamo nell’ac­compagnamento. L’attenzione di Paolo al proprio mondo interio­re fino ad usare precise categorie (spina nella carne, vaso di creta, libertà dalla carne…) ci sprona a fare i conti con noi stessi tutti i giorni, in una rilettura del nostro vissuto che ci libera da dinamiche e pretese troppo personali e deformanti il cammino di accompagna­mento.

D’altra parte noi non possiamo evitare di essere noi stessi. È vero, ma possiamo certo entrare in uno stile che non interferisca con le dinamiche della persona che si affida a noi. Un doveroso lavoro di ricerca e analisi veritativa su di noi si rende necessario e indispensabile quale preparazione al servizio di guida. Ormai da più parti ci si sta convincendo che la preparazione più preziosa è quella di un buon cammino personale previo all’assunzione di tale servizio. Nella mi­sura in cui si conosce se stessi e si chiamano per nome i propri limiti e debolezze, si riuscirà a restare fuori da quella sorta di alleanza, dipendenza, compromissione che snatura la direzione spirituale e l’accompagnamento vocazionale.

 

Sapere gestirsi e farsi aiutare

Sappiamo per principio che la nostra crescita, umana e spirituale, non si conclude mai e che ogni giorno è un’opportunità per avan­zare sulla strada del nostro progetto di santificazione sulle orme del Signore Gesù. Orbene, l’esperienza ci insegna che dalla conoscenza e lettura della nostra vita quotidiana possiamo ricavare stimoli e in­dicazioni per condurre gli altri. Questo avviene in forza del fatto che la natura umana delle persone è sempre la stessa: i meccanismi di crescita o di regressione valgono per noi come per chi accompagnia­mo. Tutti scegliamo in base ai valori, ma anche tutti dobbiamo fare i conti con i bisogni. Tutti vorremmo cercare il bene e farlo, ma tutti troviamo poi difese e resistenze, come dice opportunamente Paolo al capitolo 7 della Lettera ai Romani. La comune natura umana e la conoscenza di noi stessi sono strumenti assai utili e preziosi per aiutare e accompagnare.

Quanto noi sperimentiamo su noi stessi ci aiuta a far crescere gli altri a condizione che ci sappiamo leggere in profondità e gestire nelle nostre tendenze e inconsistenze inconsce.

Una buona gestione di sé è possibile attraverso il ricorso periodi­co ad un proprio direttore spirituale, e cioè ad una figura di fratello/ sorella maggiore competente, che ci apra gli occhi e ci smascheri i diversificati sotterfugi dell’inconscio. La libertà da noi stessi diventa strumento basilare per non pregiudicare la crescita dell’altro. Tale libertà va costruita di giorno in giorno, non da soli o con qualche corso, ma attraverso il dialogo con chi gode della nostra fiducia e ci può condurre a riconoscere e superare le nostre difese e resistenze.

In particolare è per lo più a livello affettivo che possono scattare le trappole inconsce. Ad es. possiamo:

– creare delle dipendenze se noi abbiamo bisogno di dominare;

– restare in superficie avvallando progetti personali se siamo in­sicuri;

– evitare la relazione se troppo ansiosi;

– favorire tante e superficiali relazioni per paura della solitudine e per sentirci onnipotenti;

– sostituirci alla persona particolarmente compiacente nelle deci­sioni…

– Oltre alla direzione spirituale esistono altri mezzi utili per verificare noi stessi in ordine alla libertà:

– l’esame di coscienza davanti a Dio che renda trasparente anche il nostro sentire emotivo (il cosiddetto controtransfert);

– il redigere note dopo ogni colloquio;

– il confronto con qualcuno competente circa qualche caso parti­colarmente difficile;

– un’attenzione ai tempi di dialogo per non abbreviare o allungare in base al gusto del momento o della situazione relazionale;

– la confessione sacramentale sulla responsabilità e servizio che ci è affidato;

– la preghiera costante per coloro che il Signore ci dona, preghiera che è grazia della realtà, luogo di rivelazione, relazione, affidamento. Attraverso questi strumenti la guida cresce per se stessa, contri­buendo così sempre meglio a capire l’altro e a indirizzarlo al volere divino. Si tratta di educare educandosi.

 

Competenza specifica

Non sembra che San Paolo sia andato a scuola di annuncio del Vangelo, poiché egli protesta più volte che quel contenuto lo ha ricevuto direttamente dal Cristo per rivelazione (cf Gal 1,1-11). Neppure quando racconta la sua trasformazione interiore dice di essersi fatto aiutare da qualcuno (cf Gal 1,16-17). Ciò significa che San Paolo fu un… autodidatta – anche se l’esperienza di affidamento era avvenuta nell’esperienza della cecità sulla via di Damasco! -che andò acquisendo capacità oratoria man mano che affrontava le comunità e le situazioni, fidandosi soprattutto dello Spirito che lo ispirava. Nel primo viaggio era accompagnato da Barnaba che – al dire degli Atti degli Apostoli – garantiva per lui e quindi è probabile che qualche indicazione l’abbia ricevuta da costui…

Oggi come oggi non si può però prescindere da una formazione specifica al servizio di guida spirituale, una formazione che abilita all’arte dell’accoglienza e ad una corretta impostazione del collo­quio secondo finalità ben precise. Le scienze umane hanno fatto passi da gigante e, pertanto, anche la guida spirituale può prepararsi mediante corsi e contenuti che avviano ad una competenza specifi­ca nell’arte del dialogo e del discernimento. In questi ultimi anni si sono davvero moltiplicate le scuole che abilitano alla capacità peda­gogica di ascoltare e accompagnare.

 

La difficile arte di ascoltare

La capacità di ascolto, prima che una tecnica, è uno stile: un modo di essere-in-relazione che coinvolge l’insieme della persona e richiede la capacità di gestire un colloquio e di sapersi orientare dentro una relazione interpersonale. Quindi la preparazione, più che verso l’esterno o l’altro, verte sulla propria personalità.

Un primo aspetto dell’ascolto riguarda l’imparare a decentrarsi, che significa fare posto agli altri riconoscendoli come doni senza pregiudizi, dimenticando se stessi e la propria voglia di protago­nismo, il proprio egocentrismo e narcisismo. C’è una morte a se stessi, dicevamo, che è necessaria per una degna accoglienza; c’è un espropriarsi di sé per lasciare che l’altro si senta capito, amato, a casa propria e così possa percepire concretamente di essere amato da Dio. Occorre imparare a mettersi in rapporto con gli altri indi­pendentemente dal bisogno che si ha di loro, così da lasciare che essi siano se stessi, diversi da noi fino al punto da scuoterci e ren­derci vulnerabili.

A tale riguardo sono interessanti i passaggi che il filosofo E. Mou­nier ci fa compiere a riguardo della nostra capacità relazionale:

– uscire da sé: come capacità di staccarsi da sé, di spossessarsi, di decentrarsi per divenire disponibile agli altri, farsi povero;

– comprendere: mettersi dal punto di vista dell’altro senza cessa­re di essere se stesso;

– farsi carico: assumere il destino dell’altro nelle gioie e nei do­lori;

– dare: è conseguenza dell’apertura che si trasforma in gratuità;

– essere fedele: a ciò per cui siamo chiamati, in una continuità che non è routine, ma spazio in cui ogni giorno posso testimoniare la grandezza del dono ricevuto, che diventa donato in una fe­deltà creativa che non accetta le mezze misure[3].

 

Un secondo aspetto dell’ascolto riguarda la paura del coinvolgi­mento. Davanti ad un altro che ci chiede aiuto e ci rivela la sua interiorità ci si sente spiazzati perché il suo rivelarsi mette auto­maticamente alla prova la nostra capacità di intimità e di positi­va considerazione di noi, il nostro stare più o meno bene con noi stessi. La domanda dell’altro, qualsiasi essa sia, ci espone e ci mette alla prova. Sentiamo subito che si mettono in moto alcuni nostri meccanismi psichici a partire dal dubbio: sarò capace di sostenere il colloquio, di consigliarlo, di accompagnarlo? Può succederci di non essere in condizione favorevole perché più preoccupati di noi, della nostra immagine davanti a noi stessi e all’altro, piuttosto che della sua reale richiesta e così non ascoltiamo, ma navighiamo con i nostri pensieri e formuliamo già la risposta prima ancora di aver percepito la domanda e, ancor meno, la vera domanda sotto­stante la richiesta di aiuto. Nascono qui gli errori più frequenti del consigliare, manipolare, consolare, aggredire, interpretare ed altri ancora, dettati più dal nostro bisogno di proteggerci che dalle reali esigenze dell’altro.

 

Quando un ascolto è davvero empatico? Quando la guida non si stupisce di provare delle resistenze, ma si conosce e fa in modo che esse non entrino in campo, gestendole ed accantonandole, per lasciar spazio ad una benevolenza a tutto campo verso l’altro. La guida segue con lo sguardo non solo degli occhi, ma del cuore, uno sguardo caldo, capace di infondere fiducia all’altro, una fiducia che dice: «Tu mi interessi in questo momento più di ogni altra cosa; tu sei qui adesso e sei la cosa più importante per me». Questo espro­priarsi di sé è il segreto di una comunicazione profonda, che favori­sce nell’altro la percezione di un reale interesse e amore per lui. Da tale dinamica dipende, in buona parte, la riuscita del cammino di accompagnamento. Fare silenzio sul proprio mondo interiore non è passività, ma attività impegnativa di concentrazione, che tutti rifiu­tiamo in quanto non accresce la nostra stima, ma ci pone soltanto a servizio umile, gratuito e discreto degli altri. Fare il vuoto per rendermi attento è la prova che il mio ascoltare non è in funzione di me stesso (prendere per me, soddisfare la mia curiosità, ricevere conferme…), ma per il bene esclusivo dell’altro: sono io che decido di amare l’al­tro, di offrirmi a lui dimenticando me stesso, perché lui si senta rinascere in me e da questo mio modo di accogliere possa percepire quanto egli sta a cuore a Dio.

 

Metodologia d’intervento

Gli strumenti utili e importanti per il servizio di accompagna­mento sono molteplici e possono certo essere valorizzati appieno: esiste ad es. una griglia di interventi che consente un buon cammi­no fino al raggiungimento degli scopi. Essa tocca:

– l’accoglienza iniziale;

– l’alleanza e confidenza da creare in colloquio;

– l’arte del fare domande e di gestire il dialogo;

– la conoscenza della psicodinamica dell’accompagnato, con le sue resistenze e difese;

– un progetto con gli obiettivi da realizzare nel cammino…

Per questi elementi rimandiamo al recente testo di Stefano Guarinelli, ricco di esempi concreti e di un’ottima metodologia d’in­tervento[4]. Dopo aver esplicitato che le persone vanno aiutate sulla base di una adeguata conoscenza dei loro meccanismi di difesa e delle loro psicodinamiche, l’autore sottolinea tre concrete indica­zioni per chi porta avanti relazioni pastorali:

1. innanzitutto restare dentro la relazione, ossia imitare la pedagogia di Gesù nell’incontro con la samaritana la cui efficacia «risiede proprio nella sua capacità di rimanere dentro la sfida del rapporto interpersonale»[5], anche se si possono creare false aspettative nell’altro e, inconsciamente, anche in noi stessi.

2. La seconda indicazione riguarda l’empatia, dal momento che si tratta di «riuscire a sintonizzarsi con lo stato emotivo della persona – giungere ad una alleanza con lei – senza però arrivare a confermare le eventuali percezioni distorte della realtà»[6].

3. Infine «per giungere ad un vero contatto emotivo, che non sia soltanto di “mestiere” occorre un reale affetto»[7]verso la persona accompagnata.

 

Responsabilità amorevole

Un bell’esempio di coinvolgimento affettivo a riguardo dell’apo­stolo Paolo lo troviamo nella Lettera ai Filippesi. Tutto lascia in­tendere che verso tali cristiani Paolo sentisse un legame del tutto privilegiato. Pur nutrendo con tutte le comunità da lui fondate un legame affettivo, solo ai Filippesi confessa di portarli nel cuore e solo a loro consente di fargli un dono per il suo mantenimento. Lo stesso dicasi della relazione con i cristiani di Tessalonica, che Paolo vorrebbe rivedere, ma è impedito dalle persecuzioni e allora ricorda il tipo di legame affettivo e si paragona prima ad una madre e poi ad un padre (cf 1Ts 2,7-8.11-12).

 

Paternità e maternità

Paolo si coinvolge così tanto nella relazione da essere disposto a dare la vita e quindi sentirsi madre e padre dei cristiani di Tessalonica. L’atteggiamento di Paolo è un mettersi in gioco totalmente, senza badare a sé e alla propria vita, ma, anzi, “desiderando arden­temente” la vicinanza e l’affetto di quei cristiani.

Paolo, forte della sua chiara identità, può amare in maniera libe­ra e liberante, tenendo insieme le due dimensioni presenti nella vita di ogni persona: “animus ed anima”, come la chiamerebbe Jung, cioè gli aspetti maschili e femminili integrati insieme. A riguardo della dimensione materna l’Apostolo esorta a:

– essere affabili: guardare l’altro con tenerezza, attenzione, fiducia;

– prendersi cura: preoccuparsi dell’altro, sentire empatia, avere la pazienza di attendere i tempi di crescita;

– dare la propria vita: spendersi totalmente senza riserve nella gra­tuità, senza creare dipendenza, senza cercare gratificazione, facen­dosi dono…

A questi atteggiamenti Paolo ne fa seguire altri che esprimono l’aspetto più paterno:

– esortare: comunicare i valori, le regole per vivere in maniera sana le relazioni interpersonali (qui è necessaria la testimonianza perso­nale: i destinatari dell’azione educativa non “interiorizzano” i valori solo perché proclamati, ma hanno bisogno di vederli “incarnati” da chi li annuncia);

– incoraggiare: dare fiducia, andare oltre gli errori dell’altro, rile­vandoli ma continuando ad amare la persona per quello che è, in­fondere speranza, aiutare a guardare oltre le difficoltà, sollecitando il positivo e le potenzialità dell’altro senza eliminare la fatica della crescita. A tale riguardo un proverbio orientale afferma che i figli possono guardare lontano perché hanno le spalle dei padri su cui salire. Ecco, incoraggiare significa aiutare a sognare, a realizzare questi so­gni lasciando che essi si incontrino con il sogno di Dio, prestando il proprio tempo, la propria voce, il proprio silenzio perché l’altro possa affrontare la sfida.

– scongiurare: è l’insistenza dettata dall’amore che non molla, è co­stante, va fino in fondo, non si arresta di fronte alla fatica o alla crisi, portando nel suo cuore, però, anche la fatica di accettare che l’altro liberamente possa scegliere!

La maturità della relazione educativa di Paolo sta nel non aver legato a sé le persone, ma stimolato alla libertà e all’assunzione di responsabilità. Egli non è stato un padre autoritario, così da bloc­care lo sviluppo affettivo ed emotivo dei figli, ma un padre auto­revole che per primo ha vissuto quanto annunciato. E il suo cuore materno non è stato quello di una madre possessiva che soffoca i figli creando dipendenza, ma di una madre che ama così tanto da assumere, nella libertà, anche la sofferenza del necessario distacco. Educare, dunque, è dare la vita perché l’altro risponda in pienezza e libertà alla Vita[8].

«La persona che viene in discernimento a quale dei due poli (maschile e femminile) si rivolge? Al padre o alla madre?» si chie­de padre Louf [9]. La guida dovrà essere attenta per non rischiare di riprodurre dei modelli o immagini familiari che fanno regredire an­ziché crescere. Inoltre, farà in modo che sorga una certa distanza tra lei e l’altro. Una distanza che è chiamata a diventare per il giovane un luogo di libertà in cui operare le scelte in totale autonomia. È questo il segreto di ogni amore vero all’interno di un corretto servi­zio di accompagnamento vocazionale.

 

La sofferenza del generare in Cristo

Paolo è ben cosciente che la pedagogia della fede e dell’esperienza spirituale mobilita sia il padre che la madre in lui. Altri testi paolini preciseranno le due immagini. Quella della madre trova un comple­tamento in Gal 4,19. I cristiani della Galazia hanno girato le spalle a Paolo lasciandosi trascinare ad un Vangelo diverso dal suo. Paolo soffre talmente nel suo cuore da paragonare le proprie sofferenze a quelle di un nuovo parto: «Figli miei, per i quali soffro di nuovo le doglie del parto, fino a che Cristo non sia formato in voi».

Nella Prima Lettera ai Corinti Paolo precisa invece in che cosa consisteva la paternità esercitata nei loro confronti. In una contro­versia con quei cristiani, avvenuta nel tentativo di pacificare le ri­valità dopo la sua partenza, l’Apostolo diventa severo e per giustifi­carsi si appella alla propria qualità di padre. Gli altri missionari sono stati dei semplici pedagoghi per i Corinti: solo lui, Paolo, è il loro vero padre in Cristo (cf 1Cor 4,14-16).

Dunque per Paolo essere pedagogo non significa necessariamente essere padre, ma il vero pedagogo è colui che genera nella paternità e maternità! Paolo esorta e riprende sfogando i suoi sentimenti pater­ni. Egli incita i Corinti ad imitarlo quali figli che provano il bisogno di identificarsi con il loro padre e di fare come lui. Il seme della sua paternità sta nella Parola di Dio, nel Vangelo che egli solo ha deposto nel loro cuore. È grazie alla parola del Vangelo che Paolo può dire, in tutta verità, di avere generato i Corinti alla vita in Gesù Cristo.

Due gli aspetti che possiamo sottolineare in riferimento al ser­vizio della guida: da una parte la finalità dell’impegno di accompagna­mento, che è il generare in Cristo e dall’altra il contributo di sofferenza che viene richiesto. Disimpegnare il servizio di guida spirituale comporta una propria adesione profonda al Vangelo, un’adesione tale per cui si diventa responsabili della vita altrui fino a farla incontrare real­mente con il Signore Gesù.

Paolo ci aiuta a riconoscere che la prima e più importante finalità del nostro servizio è quella di condurre i giovani al Cristo, anzi, a far sì che – usando le parole di Paolo in Gal 2,20 – il Cristo stesso viva in loro. Sarà poi in un dialogo diretto con Gesù attraverso il sup­porto della Parola di Dio che ognuno percepirà il proprio progetto di vita.

Un terzo aspetto che ricaviamo dall’esperienza di Paolo è il suo coraggio fatto di franchezza e autenticità. Egli non teme di sottolineare le cose nella loro verità mettendosi sempre in gioco con tutto se stesso. Si comprende bene che il suo proporsi a modello per i Co­rinti non deriva da presunzione od orgoglio, ma dalla certezza inte­riore di essere intermediario dell’amore di Dio in Cristo Gesù. Paolo è così libero perché afferrato al Cristo da assurgere a guida come un padre che conduce i propri figli alla realizzazione più autentica. Tutto questo è possibile a San Paolo in forza della sua attenzione alla vita interiore.

 

Crescita spirituale

In una meditazione del 1933 il beato Giacomo Alberione soste­neva che tutto il segreto della grandezza di San Paolo sta nella sua vita interiore. E sottolineava che «prima di chiedere le grazie che ci rendono apostoli in mezzo al mondo occorre chiedere al Signore le grazie che ci rendono cari a Dio».

Con la crescita umana nella conoscenza di sé e nella competenza specifica va di pari passo la crescita interiore, spirituale, della guida stessa.

Nella Seconda Lettera ai Corinti Paolo arriva a vantarsi dei suoi limiti e delle sue debolezze. Conosciamo bene il brano in cui Paolo racconta in terza persona la visione/rivelazione del Signore: «Perché non insuperbissi per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un emissario di Satana incaricato di schiaf­feggiarmi, perché non insuperbisca. Tre volte ho pregato il Signore che lo allontanasse da me. Mi ha risposto: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza si esprime nella debolezza”. (…) Perché quando sono debole, allora sono forte» (12,7-10).

Ci domandiamo come sia possibile che Paolo arrivi a vantarsi volentieri delle sue debolezze quando noi tendiamo ad eliminarle, a nasconderle e a non volerle attraverso una serie ben consolidata di difese e resistenze… Ci chiediamo come egli sia passato dal pri­mo desiderio di voler allontanare la spina nella carne all’accoglierla compiacendosi addirittura delle sue infermità. Lui che era integer­rimo, irreprensibile, fanatico, legato assai fieramente alla perfezione della legge…

Indubbiamente la “debolezza forte” di Paolo è il punto di arrivo di un percorso di crescita nella vita interiore che Dio fa compiere a tutti i suoi collaboratori e inviati. Certamente è la grazia di Dio che lavora su una natura umana predisposta, docile e affidata. Ricono­sciamo però un grande cambio di prospettiva nell’Apostolo per ope­ra della luce interiore dello Spirito: è Dio che opera nei cuori delle persone, è Dio che le cambia e le fa aderire alla fede nel Vangelo di Cristo, è Dio il protagonista primo ed indiscusso di ogni formazione e orientamento vocazionale.

A Paolo, e quindi a noi, guide spirituali di oggi, spetta l’impegno di creare le condizioni perché avvenga l’incontro tra il Creatore e la creatura, tra Dio e l’uomo. Ma rendere possibile tale incontro ci chiede tanta contemplazione e preghiera, ci chiede di entrare nella prospettiva di Dio, di saper leggere i suoi interventi a cominciare proprio dalla nostra esperienza di fede. A tale riguardo gioca un ruolo fondamentale nella vita della guida e del giovane il senso e significato della memoria, come capacità di riconoscere non solo gli interventi di Dio al presente, ma la presenza di Dio nella storia di cia­scuno, che è storia personale di salvezza.

Paolo è così tanto avvinghiato, afferrato, legato al Cristo e alla croce del Cristo, che ne fa continuamente memoria, sposandone veramente la logica come chiave interpretativa della realtà e della propria vita personale: non è la sapienza umana che conta e che salva l’uomo, ma la grazia e la potenza che viene da Dio[10].

Per questo Paolo si presenta come una persona libera, nella quale an­che i limiti e le debolezze possono trovare posto. L’integrazione del limite/debolezza avviene attraverso almeno quattro tappe[11]:

– il riconoscimento: dare un nome al disturbo (Paolo la chiama “spina nella carne”);

– la lotta: Paolo non la vuole e prega che sia allontanata;

– l’accettazione: Dio lo aiuta («Ti basta la mia grazia; la mia po­tenza si esprime nella debolezza») e quindi ne capisce la mo­tivazione (per non insuperbire);

– la trasformazione: «Mi compiaccio nelle infermità… quando sono debole, allora sono forte».

Paolo scopre che, proprio in quanto debole, può davvero lascia­re a Dio il primo posto nell’opera di evangelizzazione e collocarsi al suo vero posto, quello di collaboratore. Paolo diventa trasparenza dell’amore e della tenerezza di Dio quale diamante purissimo e lumi­nosissimo.

Lo stesso si può dire per la guida spirituale di oggi: impegna tut­to se stesso al meglio per incontrare i giovani, lasciando che essi incontrino e diano un nome ai loro desideri, lasciando che sia Dio ad operare nei loro cuori. Nella graduale crescita personale davanti a Dio la guida scopre la logica divina della fede e la può insegnare e testimoniare agli altri. Senza testimonianza e impegno persona le nella crescita cristiana da parte della guida, l’accompagnamento vocazionale consisterà nell’applicazione di una tecnica sterile e solo formale.

Paolo dimostra che il legame con Cristo è centrale nella propria esistenza e che tutto vi ruota attorno. Non vi può essere accompa­gnamento riuscito senza questa centralità del Cristo nella vita del giovane. È come se la guida passasse al giovane la propria esperien­za, la propria visione della vita, il proprio metodo nell’affrontare le situazioni…

 

Sintesi e conclusione 

L’accompagnamento è sentire o capire? Parlare o ascoltare? L’al­tro sa o devo insegnargli? È più facile controllare, porre domande, cercare di sapere che non offrire fiducia. Colludere con le dinami­che di chi ci sta di fronte, volerlo consigliare o consolare è nocivo per l’altro perché lo rimette nella fusione che gli ha impedito di rinascere e di crescere.

Alla guida è chiesto di riconoscere nel giovane una possibilità di crescita ed assecondarla. Deve saper fare da specchio per entrare in contatto con il messaggio che chi gli parla non sa di dire, renderlo palese riformulandolo e, dopo aver messo i confini tra l’angoscia, l’emotività dell’altro e ciò che risvegliano in lui, fare da contenitore.

È necessario che l’accompagnatore conosca se stesso – le sue di­namiche, le paure, le insicurezze che fanno da filtro nella relazione – che abbia attraversato tutto questo e abbia trovato nel suo profon­do la brezza di Dio[12].

Il servizio di guida spirituale implica l’aver raggiunto una reale libertà interiore attraverso un cammino di purificazione affinché la forza creatrice dell’amore di Dio possa esprimersi attraverso la nostra umanità senza ostacoli. Per accompagnare occorre diventare umili in quanto consapevoli del proprio nulla e della propria inadeguatezza, così che Dio resti davvero il protagonista indiscusso della relazione interpersonale di crescita.

 

 

 

Note

[1] Cf Gal 1; Fil 3; 2Cor 4 e l2.

[2] Mi riferisco ad una descrizione che il beato Giacomo Alberione, fondatore della Famiglia Paolina, ha composto sull’identità dell’apostolo: «Apostolo è colui che porta Dio nella sua anima e lo irradia attorno a sé. Apostolo è un santo che accumulò tesori e ne comunica l’eccedenza agli uomini. L’Apostolo ha un cuore acceso di amore a Dio e agli uomini e non può comprimere e soffocare quanto sente e pensa. L’Apostolo è un vaso di elezione che riversa e le anime accorrono a dissetarsi. L’Apostolo è un tempio della SS. Trinità che in lui è sommamente operante. Egli, al dire di uno scrittore, trasuda Dio da tutti i pori: con le parole, le opere, le preghiere, i gesti, gli atteggiamenti; in pubblico ed in privato; da tutto il suo essere» (G. Alberione, Ut perfectus sit homo Dei. Mese di Esercizi 1960, San Paolo, Roma 1998, p. 519).

[3] Cf E. Mounier, II personalismo. Ave, Roma 1982, pp. 48-53.

[4] Guarinelli, Psicologia della relazione pastorale, EDB, Bologna 2008.

[5] Ibid, p. 229

[6] Ibid, p. 230.

[7]Ibid, p. 231.

[8] Cf Ferrante: «Educare con cuore di padre e cuore di madre», Paulus, Centro Bibbia e Comunicazione delle Edizioni San Paolo, Roma, n. 4/ottobre 2008, p. 67.

[9] Cf Louf, Generati dallo Spirito. L’accompagnamento spirituale oggi, Edizioni Qiqajon, Magna­no 1990, pp. 155, 162.

[10] Cf 1Cor 1,26-29; 2,1-5.

[11] Cf A. Cencini, L’albero della vita. Verso un modello di formazione iniziale e permanente, San Paolo, Cinisello Balsamo, Milano 2005, pp. 237-253; 306-328.

[12] Cf E. Marie, «L’accompagnamento spirituale», in AA.W., L’attitudine al discernimento, Ancora, Milano 1998, 114-115.

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