Chiesa di martiri e di santi
Una generazione narra all’altra le tue opere
e annunzia le tue meraviglie (Salmo 145,4)
Narratori della vocazione, recita il bel titolo del nostro Convegno. La narrazione, il racconto mantiene in tutte le culture almeno due ruoli: necessario ad ogni iniziazione, necessario ad ogni conoscenza di sé.
Ti conosci quando ti racconti, perché sei obbligato a dare unità ai lembi aperti della vita, a rielaborarne il senso, a intuire il filo d’oro che lega insieme e illumina le cose.
Non si raccontano idee, ma fatti, accadimenti, esperienze, pezzi di vita, significati. Si racconta sempre di sé e, in sé, di una incarnazione: di come un’idea sia penetrata facendo lievitare la vita, di come una esperienza abbia sedotto il cuore, un seme covato abbia germogliato importanza, spessore, peso, cioè preso carne nella tua vita.
Il racconto attiene sempre alla categoria teologica dell’incarnazione. Per questo è così biblico. Non trasmette teorie religiose, ma comunica storia ed emozione. È la risposta a chi ripete il lamento di Pascal: io sono stanco di dire Dio, io voglio sentirlo. Voglio un Dio sensibile al cuore. Mi ha sempre colpito il fatto che alle origini del monachesimo, nei cenobi fondati da Pacomio, fosse regola codificata passare ogni settimana lunghe sere, nella casa, a raccontarsi l’un l’altro la storia della grazia nel proprio passato.
I. CHIESA DI SANTI
1. Santi perché amati
Anche noi, Chiesa di martiri e di santi abbiamo da raccontare l’incarnarsi di Dio in noi. Non ci sono i santi, come una categoria a parte. C’è la santità: la maturazione della scintilla del divino che è posta in noi. Questo è promessa, destino, impegno per tutti.
Infatti Paolo si rivolge alla Chiesa di Roma, come a una Chiesa di santi con queste parole: «Paolo, servo e apostolo… a tutti quelli che sono in Roma, amati da Dio e santi per chiamata» (1Rm 1-3).
Questo, che è uno degli scritti più densi e importanti non solo del suo epistolario, ma anche delle origini cristiane, anzi della storia del pensiero occidentale, contiene la bella definizione dei cristiani: amati e santi. Santi perché amati.
C’è una santità pre-etica, pre-morale, anteriore ai miei comportamenti. Noi siamo santi non perché ci siamo arrampicati sulle vette dell’eroismo perseverando nonostante tutto e tutti, ma perché abbiamo accolto la vita di Dio in noi. Ed è questa vita, che è amore, che ti rende simile a Dio, cioè santo. Noi siamo santi non perché osserviamo i Comandamenti, ma perché accogliamo questa vita che si riversa dentro di noi, è quello che Paolo professerà sempre: «Non è la Legge che vi fa santi, è la Grazia». Voi siete santi perché amati. Tutti siamo amati, perciò tutti santi. Santi d’amore. Non di etica. I cristiani non sono i più buoni, ma i più ricchi.
Grandezza dell’amore passivo. A noi pare poca cosa questo aggettivo, vogliamo essere protagonisti; lasciarci amare ci sembra riduttivo e invece la potenza rivelativa, la forza, l’energia che genera l’essere amati la mostra Giovanni, il discepolo amato: infatti è lui che ha le più grandi rivelazioni su Dio: Dio è amore. Non ci si può esporre a lungo alla luce del sole senza esserne irradiati, e chi è stato irradiato dalla luce di Dio poi la rilascia goccia a goccia, anche senza accorgersene, anche senza parole. Santità è attingere a questo flusso che mi raggiunge sempre, a questa sorgente che non viene meno. Attaccare la bocca a questa fontana che è la freschezza della vita. E allora io spero che non sia detto di me o di te quella parola durissima di Gesù: «Tu non hai in te l’amore di Dio” (Gv 5,42). Per distrazione, per incoscienza, per disinteresse. Non hai in te l’amore, Dio non è con te. È come una anti-annunciazione, l’esatto opposto di ciò che Gabriele annuncia a Maria: tu sei riempita d’amore, il Signore è con te.
Un dialogo del fondatore dei Chassidim è illuminante: «Un giorno il rabbì chiese ai discepoli: “Dove sta Dio?”. I discepoli risposero: “Ma come maestro, ci hai insegnato tu che Dio è in cielo, in terra e in ogni luogo”. E il rabbì rispose: “No, mi sbagliavo, Dio non è in ogni luogo, è là dove lo si lascia entrare!”. Come nella lettera alla chiesa di Laodicea: “Ecco, io sto alla porta e busso e attendo che mi si apra. Allora entrerò”».
2. I santi raccontano…
Io ho la certezza che il paradiso non è pieno di santi, ma di peccatori perdonati, di gente come me, che non sono un eroe, ma sono amato.
Destino ordinario dell’essere umano è incontrare un amore umano, destino straordinario è incontrare, meglio ancora essere incontrati da seduttori non umani, un amore straniero alla terra, un amore alieno, vita da altrove.
1) I santi raccontano Dio nell’uomo: incremento d’umano, accrescimento, intensificazione della vita; che il santo è l’uomo moltiplicato; ha lasciato tutto, ma per trovare tutto. Vi darò cento fratelli, ha detto Gesù. Vi darò un supplemento di umanità e di cuore: vivrete di relazioni e non di cose, di persone e non di possessi, uomini finalmente promossi a uomini (P. Mazzolari).
2) Santo è l’uomo meravigliato. In principio alla santità c’è la meraviglia, quella stessa di Dio nella Genesi, che guarda e grida ad ognuna delle sue creature: che bello! (Gen 1,31). E la meraviglia, riserva di gioia, resta viva se abbiamo con Dio e con la vita un incontro disarmato, come quello dei bambini. Disarmato e innamorato, per reincantare la vita, oggi stritolata tra nichilismo e fondamentalismo. Salvare lo stupore, come Maria, maestra di stupore.
3) Santo è l’uomo dal cuore plurale. Ama Dio, ama il prossimo e ama se stesso come orma e frammento del sogno di Dio. È l’uomo che vive la polifonia del cuore, con le mani impigliate nel folto della vita, capace di amare con la stessa intensità il cielo e la terra, di fissare gli abissi del cielo e gli occhi delle creature.
4) Santo è l’uomo che conosce tutte le sue forze positive, tutto il buon grano sepolto in lui e lo porta a maturazione, senza più ansia per la zizzania. Racconta una passione convertita, non spenta. Se la spegni diventi non santo, ma l’opposto di te stesso, solo un eunuco. Poca cosa il diventare padroni di sé. L’equilibrio è gelido. Placare le passioni può non rendere felici per niente.
5) Santo non è il contrario di peccatore. L’alternativa non vale: siamo tutti al contempo santi e peccatori, lo è la stessa Chiesa, casta meretrix. Il giusto pecca sette volte al giorno, ma settanta volte sette compie opere di vita. La tua santità non si misura sull’assenza o sul numero dei peccati, ma sul bene seminato nei lunghi solchi dei giorni.
6) Santo è l’uomo invincibile. Invincibile non è chi vince sempre, ma chi mai si fa sbaragliare dalle sconfitte, chi mai rinuncia a battersi di nuovo.
7) Il santo ama la vita, ma è innamorato dell’impossibile. È custode dei giorni e l’attende l’eterno.
8) Santo è allora l’uomo dalla vita bella. Perché bellezza secondo gli antichi è mescolare in giuste proporzioni finito e infinito. Scrive Florenskij: «Ciò che è proprio del santo è la bellezza più ancora che la bontà; anche un uomo carnale può essere buono, ma solo l’uomo spirituale è davvero bello e luminoso».
3. Una vita buona, bella e beata
Il priore di Bose, Enzo Bianchi, ha una espressione illuminante: la vita cristiana è la vita bella, buona e beata, perché così era la vita di Gesù: buona, bella e beata. Questa vita ha conquistato i discepoli. Era talmente bella, che i discepoli dissero: «Un uomo così non può essere che Dio». Conquistati, i cristiani corrono per conquistarla.
Buona era quella vita, che passò nel mondo facendo del bene, accogliendo sempre, capace di dare tutto: neanche il suo corpo ha tenuto per sé, neanche il suo sangue ha conservato.
Bella perché piena di amici, perché luminosa, perché pulsante di libertà, perché nuova, intensa e senza paure. Forse tutti, chi più chi meno, soffriamo di imprigionamenti. E il fascino di Gesù uomo libero accende trasalimenti in ognuno di noi. Non ci sono stereotipi che tengano: se tu ti fai lettore attento del Vangelo non puoi sfuggire all’incantamento per la libertà di Gesù. Libertà a caro prezzo.
Leggi il Vangelo: respiri a pieni polmoni la libertà. Non la fissità dei codici, ma il vento che scompiglia le pagine. La libertà ha un segreto: il segreto è quel pezzo di Dio che è in te, che i veri maestri dello spirito ti invitano a scoprire e ad adorare. Se sei fedele a questo pezzo di Dio, sei santo, sei libero dalla schiavitù degli altri e delle cose, dalle convenzioni abusate, dai codici senz’anima, dalle aspettative degli altri, dalle immagini che gli altri hanno di te. Per te contano gli occhi del tuo Signore, conta un piccolo pezzo di lui in te.
E beata, cioè felice era la sua vita: era un rabbi che aveva la gioia di vivere, che amava i banchetti e i fiori del campo, che sapeva godere delle belle pietre del tempio e del profumo versato su di lui, dell’abbraccio dei bambini e della carezza dei capelli dell’amica ebbri di nardo.
Acquisire fede che cos’è? È acquisire bellezza del vivere: scoprire che è bello vivere, è bello amare, creare, generare, mettere la vita nelle mani di chi mette la sua vita nelle tue mani. È bello per me essere frate, o prete, o suora, perché tutto ha un senso positivo, tutto va verso la vita e non verso la morte, verso un esito luminoso qui e nell’eterno.
Acquisire vocazione è acquisire bellezza del vivere e reincantare la vita. I credenti sono chiamati a dare incanto nuovo all’esistenza. Raccontare questo! Io sono frate non per un dovere morale, ma perché in nessun’altra forma di vita avrei altrettanta pienezza, altrettanta intensità. È ora di chiudere con l’idea della vocazione come sacrificio, rinuncia, limitazione, è ora di parlare del piacere della vocazione. La vocazione non nasce da una sottrazione, ma da una addizione. Da un di più di vita buona, bella e beata, come quella di Gesù Unica è la vocazione di tutti gli esseri umani, avere la vita in pienezza: «Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10).
4. Polifonia dell’esistenza
Guardate il mandorlo. È il primo albero che fiorisce, l’ultimo che fa i frutti. E ci insegna una cosa: se voglio vedere dei frutti nella mia vita devo prima fiorire. Una delle forme più importanti della fioritura dell’essere la chiamo polifonia dell’esistenza. Dio non copre tutte le gamme d’onda del nostro cuore. L’amore di Dio non risponde a tutte le dimensioni del cuore dell’uomo, neppure del cuore del monaco. Dio non pretende di essere unico, geloso sbocco degli affetti.
Nell’Eden Adamo vede Dio, gli parla faccia a faccia, eppure non è felice. Dio non gli basta. Non è sufficiente Dio per stare bene. E non si tratta di una esperienza di peccato, ma di Eden. Infatti Dio vede e dice: «Non è bene che l’uomo sia solo…», solo con Dio. Gesù stesso offre almeno tre oggetti all’amore: ama Dio, ama il tuo prossimo, come ami te stesso. La polifonia dell’amore.
Polifonia non è figlia di sottrazioni, ma di addizioni. «Amerai il Signore con tutto il cuore» (Dt 6,5) non significa: «Ama Dio solamente, riservando tutto il cuore a lui», ma: «Amalo con totalità, senza mezze misure». Così devi, allo stesso modo, amare il tuo amico: “con tutto il cuore”, senza riserve. Ma non solo il tuo amico, il genitore, il figlio, lo sposo. La totalità del cuore non significa esclusività. «Non avrai altri dèi di fronte a me» (Es 20,3), chiede il Signore, ma non già: «Non avrai altro amore all’infuori di me».
L’espressione “polifonia dell’esistenza” è stata coniata da Dietrich Bonhoeffer in una lettera a un amico: «Il rischio implicito in ogni grande amore è quello di smarrire la polifonia dell’esistenza. Voglio dire che Dio e la sua eternità pretendono di essere amati dal profondo del cuore, senza però che l’amore terreno ne venga danneggiato o indebolito; qualcosa come un cantus firmus, in rapporto al quale le altre voci della vita formino il contrappunto”.
Solo quando ci troviamo in questa polifonia la vita è totale, fiorisce. Un rischio implicito in ogni grande amore, terreno o celeste, di appartamento o di monastero, è quello di smarrire, in nome di un unico amore totalizzante, la polifonia dell’esistenza, la totalità della vita.
La perdita della polifonia è stata una delle conseguenze più negative di un malinteso amore sacro, che si è tradotto – in troppi ambienti religiosi – in diffidenza verso l’amicizia, freddezza di rapporti, brinate sui sentimenti, distorsioni affettive. E soprattutto ha portato la malattia più temuta da Gesù: la sclerocardìa, la durezza del cuore. È stato come immiserire la vita, perché all’infuori delle relazioni non esiste manifestazione dell’infinito quaggiù. La cosa più importante dell’esistenza restano i rapporti umani.
Perso il cuore plurale, la vita spirituale vegeta come frutto di sottrazioni, si disidrata nell’illusione di amare Dio perché non ama nessuno sulla terra! D’altra parte, si potrà perdere la polifonia dell’esistenza anche coltivando soltanto rapporti umani, senza la luce dei grandi pensieri e di un oltre.
I santi non sono coloro che restituiscono a Dio l’osservanza di tutti i precetti, ma sono quelli che hanno realizzato l’impresa di diventare umani, che hanno trovato il sentiero della pienezza, degli appassionati per la trasparenza del cuore e delle parole. I santi non sono gli uomini e le donne dalla vita irreprensibile – basti pensare a Paolo, ad Agostino –, ma quelli capaci di custodire e mostrare un tesoro dentro vasi di argilla, portare una luce dentro questo nido d’argilla, passione per la pace e per la pietà e un disarmato amore per tutti. Dio porta un’addizione di vita, un supplemento di cuore. Non siamo figli di una diminuzione, ma di un accrescimento. La vita spirituale è un’opera armoniosa di dilatazione. Più Dio in me equivale a più io.
Ecco cosa raccontare con la vita. C’è una terribile parola di un politico francese del secolo scorso, Proudhon, che dice: «Ho smesso di credere in Dio il giorno in cui ho incontrato un uomo migliore di lui».
Forse vale anche per il prete, il religioso: perché devo ascoltare uno che è meno uomo di me e di tanti? Smettono di credere in noi quando incontrano uomini migliori di noi!
Non più colti o intelligenti. No, migliori nel cuore.
5. Credo all’amore
Padre Vannucci e don Zeno, due grandi uomini di Dio, un mistico e un diacono di fuoco, stanno chiacchierando a una finestra del Marianum a Roma. Guardano fuori, su Viale XXI Aprile, osservano due ragazzi salire adagio tra i grandi alberi del viale, salgono e si abbracciano, camminano e si baciano. Allora p. Vannucci interrompe ciò che stava dicendo e dice a don Zeno: «Quando tu sarai capace di ringraziare il Signore perché due creature sulla terra si amano, di ringraziare e di godere perché nel mondo c’è amore, in quel preciso momento sarai molto avanti nel cammino spirituale».
Noi che cosa avremmo detto? Un po’ di pudore, un po’ di discrezione… Sono sempre più convinto che avvicinare i giovani oggi, quelli che vivono situazioni irregolari, per esempio nel campo del matrimonio, della sessualità, accostarli con il linguaggio del divieto, del giudizio, della regola è assurdo e forse perfino criminale, significa allontanarli per un lungo tempo dalla Chiesa.
Dobbiamo far sentire l’eternità che si annuncia già nella dolcezza del vivere con amore. Il peccato vero è l’oblio del miracolo del vivere.
Nella sua prima Lettera, Giovanni definisce i cristiani con questa espressione: «Noi abbiamo creduto all’amore» (1Gv 4,16). Non so se ci abbiamo mai pensato, ma se ci chiedono: «Tu, cristiano, a cosa credi?» viene spontaneo rispondere: «A Dio, a Gesù Cristo, alla vita eterna, la Chiesa». Ma Giovanni risponde: «Noi cristiani crediamo all’amore». Non si crede ad altro, non all’onnipotenza, all’onniscienza o all’eternità di Dio, queste cose non ci prendono il cuore. Si crede all’amore, perché Dio è amore. E questo è capitale, perché credere all’amore lo può anche il non credente, lo può anche colui che è ateo. L’esperienza dell’amore è una esperienza universale che l’uomo è capace di fare in tutte le culture, in tutte le vie religiose o anche senza l’ipotesi religiosa. Esperienza del cuore ardente dell’essere: una scheggia di Dio, infuocata, è l’amore.
Ciò che noi dovremmo cercare di far capire anche ai non credenti, alle nuove generazioni: ciò che è importante è credere all’amore! Credi, vale a dire fidati dell’amore. Abbi fiducia nell’amore in tutte le sue forme, come forma della terra, come forma del vivere, come forma di Dio. Non fidarti di altre forze, non dell’intelligenza, non del denaro, non del numero o della forza della giovinezza. Dare e ricevere amore è ciò su cui si pesa la beatitudine della vita.
Quando vedete dei ragazzi innamorati non fate i sospettosi, l’innamoramento è una esperienza mistica, l’unica per la maggioranza delle persone. È una esperienza mistica, allo stato selvatico. Lì annunciare che c’è il paradiso. Come possiamo oggi parlare di paradiso e inferno? Mi diceva Olivier Clèment, negli anni di Parigi: «A partire dall’esperienza dell’amore umano». L’innamorato sa bene che cosa sono il paradiso e l’inferno. Il paradiso è quando raggiungi il tuo amato; l’inferno è quando sei tradito o abbandonato da chi ami.
L’amore, luogo primario di evangelizzazione! Non di moralizzazione. Raccontare che crediamo all’amore.
II. CHIESA DI MARTIRI
Qualche parola più veloce su questo secondo aspetto.
Come modelli di martiri e testimoni prendo i due Giovanni. In Avvento si staglia la figura di Giovanni il Battista, dopo Natale l’altro Giovanni, l’evangelista. Giovanni del Giordano e Giovanni del lago; il Giovanni delle acque lustrali e il Giovanni dell’inchiostro. Il Giovanni dalla testa tagliata nel piatto di Erodiade e quello della testa posata sul petto di Gesù.
Il profeta sferzante che grida di fuoco e di scure e il discepolo che parla d’amore come nessuno. Penso alla sua testa posata sul petto di Gesù nell’ultima cena. A sentir battere il suo cuore. Un gesto dolce, commovente: gli parla sul cuore. Forse l’estrema vicinanza alla umanità di Gesù.
Giovanni dell’aquila, il suo simbolo è il volo, il volo più alto.
6. Martire di luce
Di Giovanni il Battista è detto che è venuto (ina martirese peri tu fotos) (Gv 1,8), perché rendesse testimonianza circa la luce. Martire è nella Bibbia un termine attivo, non passivo, non di chi subisce, ma di chi agisce. Fare il martirio della luce. Forse nessuno tra noi qui presenti sarà protagonista di esodi o di liberazioni, di invenzioni o grandi opere storiche, ma la nostra vocazione sarà completa, la vita sarà piena se avremo portato un seme di luce attorno a noi. E questo vuol dire, in concreto: diventare testimoni di bontà e di bellezza, non del peccato e dei difetti; testimoni del positivo, non del fango o del degrado di questo mondo; non esperti d’ombra, ma gente che osa parlare del sole; neppure esperti di etica, ma gente che sa rendere conto delle proprie speranze e non salmodiare le proprie paure.
Martire della luce è chi fissa il suo occhio non sulla zizzania del campo, come fanno i servi, ma si concentra sul buon grano, chi conquista gli occhi luminosi del creatore. Per lui una spiga di buon grano vale più di tutta la zizzania del campo. Chi fissa il suo occhio non sulla notte, ma sulla linea mattinale della luce che sembra minoritaria, ma è vincente. Vale più accendere una lampada che maledire mille volte le tenebre.
Un amico mi ha scritto su un biglietto d’auguri: «…passare splendendo per un istante anche se nessuno guarderà il tuo lucente sguardo». Il fiore fiorisce nel folto del bosco anche se nessuno lo vedrà mai. Il pensiero pensato dentro la grotta più profonda non resta senza effetto.
Martire della luce è chi vede il bene dei giorni, la luce delle creature, della nostra epoca splendida, piena di possibilità come nessun’altra prima. Dio ha un cuore di luce e il tuo cuore ti dirà che tu sei fatto per la luce.
7. Martire di vita
L’altro Giovanni, all’inizio della sua prima Lettera scrive: «Martirumen ymin ten zoen» (1Gv 1,2). Vi testimoniamo la vita. Tutta la Bibbia ha come tema centrale la vita.
Mi piace moltissimo questo avvio, Giovanni era grande negli avvii, un volo d’aquila a dire tutto subito, pensate all’inizio strepitoso del suo Vangelo, che ha illuminato il giorno di Natale, ribadito poi nella seconda domenica: in principio era il Verbo… questo sfondamento del calendario e delle mappe verso l’inizio e il per sempre.
Senza fumosità, senza tergiversare: io ho veduto, io ho udito, io ho toccato, che cosa? Il Verbo della vita.
Dice Giovanni: «Non vi annuncio ciò che ho studiato, o pensato, o imparato. Ma ciò che con tutti i miei sensi ho sentito: il Verbo della vita! Ed ho sentito questo: che Gesù non ci trasmette una teoria religiosa, non porta un nuovo sistema di pensiero, ma comunica vita e un anelito a più grande vita».
E testimonio la vita se mostro che Gesù è vita del cuore perché lui lo allarga, ne dilata le pareti strette, non lo lascia indurire, come teme Isaia, anzi, ne fa un cuore plurale, capace di molti amori e ne scioglie le durezze e lo purifica.
Gesù vita della mente, perché la mente vive di verità e Gesù è la verità e la sua vita è la vita vera. La mente vive di libertà, altrimenti ripete e si spegne: ed ecco Gesù libero come nessuno e al suo avvicinarsi, ancora adesso, io sento aria di libertà. Come la bellissima espressione della Lettera agli Ebrei: «La sua casa siamo noi, se conserviamo libertà e speranza» (Eb 3,6). Dio abita la libertà e la speranza.
Respira libertà. Ecco cosa testimoniare: libertà e speranza.
Vita dello Spirito è Gesù, che è il soffio di Dio nelle mie vele, il suo respiro intrecciato con il mio, il suo amore che mi fa santo. E vita anche del corpo perché cambia i miei comportamenti, muove le mie mani verso il povero, fa scendere da cavallo il buon Samaritano, sostiene la corsa delle donne al mattino di Pasqua.
I santi sono quelli che hanno realizzato l’impresa di diventare umani, che hanno trovato il sentiero della pienezza. Che cos’è la salvezza in questa ottica? È pienezza di vita. E poi, come Cristo, essere nella vita datori di vita. Dare motivi per vivere, ragioni per gioire.
Salvezza vuol dire prendere uno e tirarlo su, tirarlo fuori dalle acque dove stava per essere travolto; redenzione è di più. Redimere vuol dire trasformare una maledizione in benedizione. Gesù ci ha portato non solo la salvezza ma qualcosa di più che è questa redenzione, questa possibilità per noi di trasformare la maledizione in benedizione. Il mio punto debole, che diventa punto forte. Prendi le tue debolezze e costruiscici sopra. «Non nascondere la debolezza ma costruiscici sopra». Penso alle ferite di tanta gente, per debolezza, per dolore, per disgrazia. Nelle ferite c’è l’oro. Le ferite sono sacre, c’è Dio nelle ferite, come una goccia d’oro. È Gesù risorto che non porta altro che le ferite del crocifisso, da cui non sgorga più sangue, ma luce, metti qua il dito nel foro, porta l’oro delle sue ferite. Tu puoi essere un benefico ferito, che dalla tua ferita ricavi farmaci per altri.
Raccontare che la vita è più vita, se la vivi come ha vissuto lui. Troppo nella Chiesa hanno parlato quelli che non hanno incontrato. Solo chi ha incontrato ha possibilità di parlare al cuore degli altri. Perché è col cuore che si crede, scrive Paolo (Rm 10,9-10). Allora capite un poeta come Padre Turoldo che scrive: «E i sensi sono divine tastiere». Una tastiera di pianoforte che suona le note di Dio, accordi di una sinfonia che parla di pienezza di vita.
8. Martire di gioia
Poi Giovanni indica il perché, la motivazione della sua testimonianza: «Questo vi scriviamo perché la nostra gioia sia piena (ina karà emon pepleromene)» (1Gv 1,4). Non è un dovere testimoniare, è una necessità per stare bene, per avere pienezza di gioia. Gioia, parola decisiva, insieme alla parola vita.
Se analizziamo i motivi della scelta dei giovani, il deterrente per non scegliere la vocazione religiosa o sacerdotale, sta in fondo in questa percezione: sentono o pensano o vedono che la nostra non è una vita felice. Valida, impegnata, nobile, generosa anche, ma non appagante. Non piena, diminuita.
E ogni uomo segue quella strada dove il suo cuore gli dice che troverà la felicità.
È Sant’Agostino che lo afferma con la sua teoria della delectatio victrix: vincente nelle scelte umane è la delectatio, determinate è la gioia, l’appagamento, la contentezza. La vita spirituale comincia sempre con questa domanda: sei contento di vivere? Ti piace vivere?
E ricomincia, riparte ancora da questa domanda: che cosa mi dà gioia? Su questo si costruisce la scelta. Lo mostra Sant’Ignazio nei suoi Esercizi spirituali. Dio seduce ancora perché parla il linguaggio della gioia. Dovremmo forse parlare di più del piacere della vocazione. E mostrarlo. La gioia non si dimostra, si mostra: ha a che fare con il dono, non può mai essere solitaria, è il sintomo che stai camminando bene, verso il cuore della vita. «La gioia è l’atteggiamento vitale più conforme alla realtà» (K. Rahner).
Ogni essere umano ha un solo dono proprio, unico, irriducibile, ed è lo spazio della sua gioia.
9. Testimoni di fatica
Eppure credere stanca. Lo chiesi un giorno ad un monaco trappista dell’abbazia Orval, in Belgio: e quando ci si stanca di Dio? Temevo mi dicesse: «Ma è una stupidaggine, una eresia!». Invece mi rispose con un aneddoto: quando Gesù entra a Gerusalemme, nel giorno delle palme, c’è entusiasmo, canti, una energia bellissima attorno a Gesù, tutti sono contenti, Ma c’è un personaggio che fa fatica e si stanca. È l’asino su cui Gesù è seduto. Fa più fatica di tutti, ma è anche il più vicino di tutti al Signore. Forse quando ti stanchi delle cose di Dio, è il sintomo che sei molto vicino al Signore, molto intimo.
Don Lorenzo Milani scrive una frase straordinaria: Tutto è speranza perché tutto è fatica. Finché c’è fatica c’è speranza. Se vedi una persona che non sa affrontare fatiche, osserva bene: quello è uno senza speranza, che sta entrando nella depressione. La depressione è l’esatto contrario della speranza e ne abbiamo tutti una profonda paura. La depressione nasce da una inversione di energia. L’energia che va verso fuori è sfida, rischio, idea, è vitalità, al limite è fatica.
La depressione comincia con questa introiezione, con questo ripiegamento degli orizzonti, il depresso ripiega il cielo come un lenzuolo steso al sole, guarda solo se stesso, e non si illumina più. Ha perso il cielo. Finché c’è fatica c’è speranza. La fatica di andare controcorrente, ad esempio. Lo scrittore siciliano Leonardo Sciascia scriveva: «Io mi aspetto che i cristiani qualche volta accarezzino il mondo in contropelo.Come fanno le Beatitudini».
Fatevi un bel giro sul pianeta e guardate con attenzione: là dove c’è disperazione e abbandono, là dove tutti hanno gettato la spugna, dalle Nazioni Unite alla Banca Mondiale alle più diverse ONG, troverete un missionario, una suora, un catechista che, in nome del Nazareno lotta, ama, combatte, spera contro ogni speranza. E lo fa gratuitamente. Troverete sporadicamente anche qualcuno di Organizzazioni non Governative, ma, non me ne vogliano, in Centro Africa ho visto i medici di una celebrata associazione internazionale ricevere 10.000 euro al mese di stipendio, e un’infermiera 6.000 euro, e ogni sei mesi hanno viaggio e ferie pagate a Bruxelles, nel migliore hotel. Il missionario non riceve niente. Ho visitato, nella Repubblica Centroafricana, il dispensario delle suore francescane di Gemona, a Maigarò, nell’ottobre di due anni fa. Lì ho conosciuto suor Giulia, amore a prima vista, 110 chili di energia e dolcezza. Una stanzetta di mattoni, per l’ambulatorio. I malati sono stesi su stuoie all’aperto, attorno a un immenso albero, dormono lì, come raggi di un ostensorio di carne. Ecco il suo racconto: lunedì le portano un bambino che è gravissimo, lei fa di tutto, ma il piccolo muore. Il mercoledì arriva un altro piccolino allo stremo, lei fa l’impossibile, il bambino le muore in braccio. Il giovedì arrivano al dispensario un papà e una mamma con un altro bimbo che è alla fine, lei fa tutto ciò che può, con tutto ciò che ha, ma capisce che il bimbo non ce la farà. Allora è lei che non ce la fa vederlo morire, lascia lì i genitori, con una bugia pietosa: «Io torno domani mattina a riprendere le cure, voi state qui e pregate». E se ne va in cappella e inizia una delle sue litigate con il Signore: «Basta, Signore, io non ce la faccio a veder morire un altro bambino, un altro no! Basta. Non farlo morire, non farlo morire…». La mattina, quando lei torna, il bambino sta bene, non solo meglio, ma bene. «Cosa è successo?» chiede ai genitori. «Abbiamo fatto quello che tu ci hai detto, sorella: uno vegliava il bambino, l’altro pregava in ginocchio. Poi ci davamo il cambio, tutta la notte, uno in ginocchio pregava, l’altro cullava il bambino… solo questo».
Ecco un testimone-martire, ecco la generazione che narra le meraviglie di Dio, e la meraviglia non consiste nel miracolo, ma nei mille e mille giorni passati senza miracolo, nei mille bambini curati nonostante tutto, la fatica vissuta in anni di buio senza ricompense. Miracolo è l’invincibile coraggio quotidiano. Miracolosa è la quotidianità. Non le grandi opere, ma i gesti. I poveri e le donne fanno gesti, la politica, le istituzioni, le chiese fanno opere.
Impariamo dai poveri e dalle donne. Santità per noi è meno opere e più gesti nel quotidiano, gesti che toccano, gesti di ascolto e di pazienza, di servizio e di dono, gesti di pace e di giustizia, gesti di amore come quelli di Gesù, che non vediamo mai progettare grandi opere, ma fermarsi, ascoltare, toccare occhi, labbra, orecchie, spezzare il pane, entrare nelle case, sedere a mensa e parlare delle cose d’amore come nessuno aveva saputo fare.
Un solo gesto così può fare più grande l’universo.