La testimonianza suscita vocazioni
«Costituirò sopra di esse pastori che le faranno pascolare, così che non dovranno più temere né sgomentarsi!» (Ger 23,4)
L’esperienza cristiana dice che i due termini – testimonianza e vocazione – si richiamano reciprocamente: la testimonianza credente ha in sé una forza irradiante che provoca attenzione, si fa appello e, d’altra parte, ogni vocazione è finalizzata a generare testimonianza, rendendo anzitutto il chiamato stesso ad essere presso gli altri testimone di ciò in cui crede. In una circolarità permanente.
Questo binomio interattivo di testimonianza e vocazione non è però fine a se stesso. Come dice bene il versetto di Geremia scelto quale motto del Convegno, i pastori sono chiamati da Dio per la cura del suo popolo. Si propone quindi un trinomio internamente connesso: il servizio pastorale dei fratelli nella fede e di ogni uomo come obiettivo, la testimonianza come condizione per raggiungerlo, la vocazione come fondamento sorgivo. È quanto vorremmo approfondire.
- Dio chiama e costituisce pastori nel suo popolo
Dico subito che il compito di testimoniare il fascino di Cristo è proprio di tutti i battezzati, sia laici che sacerdoti e consacrati; e che le vocazioni germogliano per la testimonianza sia degli uni che degli altri.
I laici sono chiamati a testimoniare la bellezza della vita cristiana e l’amore alla Chiesa, ma anche – in modo esplicito – la stima e l’affetto per i Pastori, senza i quali non vi è Eucaristia, perdono dei peccati, garanzia della fede, guida della comunità. Essi sono veramente il segno trasparente e sacramentale, e quindi efficace, del Dio-con e per-noi. Una comunità cristiana che offre senza timidezze questa testimonianza è come il buon terreno dal quale il seme vocazionale viene accolto, favorito e sostenuto. Con ciò non si vogliono fissare le regole a Dio! Egli chiama in qualunque contesto e può far fiorire il deserto.
Coloro che vivono il ministero ordinato devono offrire a tutti la testimonianza della gioia, la gioia e la grazia della propria vocazione. Vedere un uomo felice perché è sacerdote, felice per quello che deve fare nell’obbedienza cordiale alla Chiesa, felice pur in mezzo alle difficoltà e alle prove della vita personale e dell’apostolato, felice anche quando l’anima sanguina, felice di essere “per tutti” nella sovrana libertà di appartenere solo a Gesù e alla Chiesa… anche questo è come il buon terreno del Vangelo o come i pochi pani e pesci per il miracolo. Al contrario, lo spettacolo di una vita trascinata senza entusiasmo, una recriminazione lamentosa, e spesso presuntuosa, che nega nei fatti la fede e la fiducia in Cristo e nella Chiesa, un darsi da fare pur generoso, ma che non nasce dalla contemplazione di Cristo che ci ha chiamati a “stare con lui” perché la missione nasca dall’obbedienza come per Pietro, che ritorna al largo dopo una notte insonne e infruttuosa – “in nomine tuo laxabo retem” –, tutto questo, ci chiediamo: lega o aiuta le mani di Dio? Perché si è chiamati e perché ci si chiede di essere testimoni? La risposta è nota: per collaborare con il progetto di salvezza che Dio in Cristo vuole per l’umanità, e questo nella forma particolare del sacerdozio. È a questa missione e a questo destino che Dio ci ha chiamati. Senza questo preciso riferimento teologale si rischia che la nostra testimonianza diventi – o almeno si appanni – in auto-testimonianza, certificazione di se stessi, e la vocazione si volga verso una auto-realizzazione piuttosto che in una generosa e totale sequela di Gesù Cristo nel servizio al Vangelo per le anime. Mantenendo invece tale dedizione pastorale si assicura il vero profilo di entrambi gli elementi che ci interessano: la vocazione e la testimonianza.
Ci aiuta in questo il testo di Geremia 23,4. È un versetto preso dal discorso sui pastori. Qui i pastori sono i re, visti da Dio quali suoi rappresentanti nella cura del popolo. Purtroppo, al tempo di Geremia, la condotta di essi era giunta al massimo dell’infedeltà all’Alleanza, a causa dei peccati di idolatria, del culto inquinato, dell’ ingiustizia e di altri mali sociali, sicché – rotta l’alleanza – si profilava il male oscuro dell’anti-esodo, che sarebbe stato l’esilio di Babilonia. Ma Dio non abbandona il suo popolo. Si impegna in prima persona a radunare Israele sbandato e disperso come pecore erranti, suscitando pastori nuovi che egli stesso costituisce. Quindi chiama e manda per tale servizio, perché nessuna pecora vada perduta. Nei versetti successivi, Dio precisa che il futuro di questo servizio pastorale sarà affidato ad un “germoglio giusto” della dinastia davidica, il ceppo originario dei re-pastori, «che regnerà da vero re e sarà saggio ed eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra», per cui lo stesso popolo di Dio sarà chiamato «Signore-nostra-giustizia» (Ger 23,5-6). In prospettiva si intravede nettamente la figura di Cristo buon pastore, come egli stesso dirà nel c. 10 del quarto Vangelo.
Ho voluto soffermarmi un istante su questo piano di salvezza che Dio ha verso il suo popolo per richiamare alcune convinzioni che devono animare, orientare, sostenere, ed eventualmente correggere, ogni vocazione e testimonianza nella Chiesa di Dio. Eccole schematicamente:
-anzitutto va riconosciuto che è Gesù Cristo colui che realizza la missione divina di buon pastore: è lui che ha salvato l’umanità e immesso nella storia la forza redentrice della grazia;
-la nostra vocazione è dunque partecipazione alla sua vocazione di buon pastore secondo il suo cuore e il suo stile;
-lo scopo non è “conquistare” le anime, ma il loro incontro con il Signore, la vita vera degli uomini: «Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (cf Gv 10,10), e questa è la “gloria di Dio” (cf Concilio Vaticano II, PO 2);
-il nostro servizio di testimonianza è specchio e prolungamento della testimonianza di Gesù davanti a Dio e al mondo. Poiché testimoniare l’amore di Dio che si rivela e offre in Cristo – ripeto – è compito di ogni battezzato, si deve aggiungere una specificazione per noi: siamo inviati a testimoniare l’amore di Cristo in quanto siamo pastori.
- La testimonianza per la vocazione
Il testimone è colui che ha visto e udito e pertanto può garantire un fatto. Ma ciò non basta per qualificare la testimonianza cristiana, perché il “fatto” non è qualcosa, ma Qualcuno, è Cristo ed egli è luce che risplende nelle tenebre. Gli apostoli sono testimoni non solo perché lo hanno visto e hanno ascoltato le sue parole, ma perché si sono lasciati illuminare da lui, ne hanno sperimentato la verità. Noi, discepoli di oggi, testimoniamo Qualcuno che vediamo e ascoltiamo non solo grazie agli occhi dei primi testimoni, ma attraverso gli occhi dell’esperienza della nostra vita unita al Signore. Il testimone non è un “postino” che recapita una notizia in modo diligente e puntuale, ma esterno: Benedetto XVI ricordava alla diocesi di Roma che «il testimone di Cristo non trasmette semplicemente informazioni, ma è coinvolto personalmente con la verità e, attraverso la coerenza della propria vita, diventa attendibile punto di riferimento. Egli non rimanda però a se stesso, ma a Qualcuno infinitamente più grande di lui, di cui si è fidato e ha sperimentato l’affidabile bontà» (13 giugno 2007). È colui che si lascia illuminare dalla Luce che ormai è apparsa, e vive oggi della sua Parola e dei suoi Sacramenti, ne fa l’esperienza nel mistero della Chiesa, corpo di Cristo. Per questo, come Gesù e con lui, il testimone fa le opere del Padre: «Le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato ed anche il Padre che mi ha mandato ha dato testimonianza di me» (Gv 5,36-37). E nell’ultima cena Gesù continua: «Chi ha visto me ha visto il Padre… le parole che vi dico non le dico da me stesso, ma il Padre che rimane in me compie le sue opere» (Gv 14,9-10).
Queste opere, nella loro luminosità e bontà, garantiscono che Dio è luce e bene e che seguirlo rende lumiinosi e buoni. E ciò è gioia!Le opere che nascono da Dio e sono compiute dal testimone, infatti, non sono sufficienti per dire Dio: è essenziale che si vedano la gioia e la pace che queste opere provocano nel cuore del testimone, il senso di pienezza riconciliata che esse causano perché nascono dal Dio-Amore: «Gesù di Nazareth passò beneficando e risanando tutti coloro che erano sotto il potere del diavolo perché Dio era con lui. E di ciò noi siamo testimoni» (At 10,38-39). Il testimone è colui che, proprio in nome di questa gioia che gli riempie l’anima e fa buona la sua vita, dice con la stessa passione di Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (Gv 6,67). I discepoli di Emmaus «partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme… dagli undici» (Lc 24,27) perché non potevano trattenere la gioia rinata e la luce ritrovata – Cristo –, tanto che la notte non faceva più paura e tutto ormai era diventato luminoso.
L’agire di Gesù è ispirato dal Padre che è padre per ogni uomo. Manifesta in Gesù un cuore compassionevole: cuore che non trascura, ma avverte i bisogni altrui, un cuore che si interessa di ciascuno a partire da coloro che sono abitualmente ignorati; un cuore che ascolta, comprende, libera, apre orizzonti inediti come per il giovane ricco. Quali sono le opere di Gesù che hanno testimoniato Dio? «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato chi non trova in me motivo di scandalo» (Mt 11,4-5). E noi che cosa possiamo fare? Noi non facciamo i miracoli, eppure dobbiamo compiere un’opera che sa di miracolo: l’unità che nasce dalla comunione. In un mondo segnato da dissidi e divisioni la testimonianza della comunione dei cuori e della vita è un autentico miracolo di Dio. Inoltre, dobbiamo ricordare che la testimonianza delle opere è essenziale, ma chiede un completamento: la parola del testimone. Qualunque opera di testimonianza, infatti, potrebbe essere ammirata, ma rimanere inspiegabile senza la luce della parola che annuncia l’origine e il fine dell’opera stessa: l’amore di Gesù. Allo stesso modo la testimonianza della parola, senza la concretezza della vita, può suonare suadente, ma non convincente.
Tra i due termini – testimonianza e vocazione – vi è pertanto un rapporto di interna reciprocità: Gesù chiama e manda a testimoniare e, d’altra parte, Gesù si propone come testimone che garantisce l’autenticità della vocazione, dando a questa la forma specifica ed efficace. Egli, infatti, il Pastore veramente buono annunciato dai profeti, unisce l’inizio e la fine della sua missione con due interventi: fin dall’inizio «chiamò a sé quelli che egli volle… perché stessero con lui e per mandarli a predicare» (Mc 3,13-14). Alla fine, a questi Dodici che aveva chiamato e formato, ingiunse solennemente come un testamento: «Riceverete la forza dello Spirito Santo, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e Samaria e fino ai confini della terra» (At 1,8). Successivamente, per Paolo, è proprio dalla testimonianza ardente e totale dei martiri discepoli di Cristo che andava imprigionando in Damasco, che sgorga la sua vocazione. Vocazione che lo stesso Gesù orienta subito a uno scopo preciso: «Io ti sono apparso – dice a Paolo – per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai visto di me e di quelle cose per cui ti apparirò» (At 26,16).
Il divino Maestro chiama tutti alla fede, ma chiama anche alcuni – quelli che vuole – ad una speciale sequela, più radicale ed esclusiva, entro cui possiamo ben inquadrare la vocazione sacerdotale e alla vita consacrata. Non che Gesù parli formalmente di queste vocazioni, ma certamente, laddove egli si impegna a dare testimonianza ai suoi collaboratori più stretti, il gruppo dei Dodici anzitutto, lì troviamo un riferimento che possiamo applicare in modo prioritario alle vocazioni ministeriali e di consacrazione. Emblematico in questo è l’inizio del quarto Vangelo, quando Giovanni stesso narra la sua vocazione e quella di Andrea. Alla loro domanda a Gesù: «Dove abiti?», il Maestro non risponde facendo una disquisizione sulla vocazione, ma indica con sempplicità e radicalità: «Venite e vedrete». «Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio» (Gv 1,35-39). Riscontriamo qui l’offerta di una forma di testimonianza tra le più incisive in un cammino vocazionale in senso stretto: stare insieme con Gesù, fare comunione di vita con lui, passare del tempo vedendo da vicino la condotta di lui che chiama, parlando con lui, chiedendo e dando spiegazioni, condividendone le ansie, le gioie, i progetti, insomma il cuore.
Fin dall’inizio, sono sempre l’incontro e il contatto di persona a persona che determinano nel discepolo la scelta di seguire il Maestro: così per Benedetto, Francesco, Chiara, Domenico, Teresa, don Bosco, Madre Teresa… Altre spiegazioni di ordine più ragionato vengono successivamente, e mai senza un contatto per testimonianza che ultimamente ricade su Gesù, per cui in sintesi il chiamato può dire alla sua guida spirituale: «Accolgo da te ciò che tu hai provato, e l’hai provato perché tu l’hai accolto da Gesù Cristo». Certamente, nel procedere dei tempi, lo Spirito Santo ha aiutato la Chiesa a creare diversi profili vocazionali specifici sulla base dell’unico sacerdote e profeta che è il Signore Gesù. E così la piattaforma cristocentrica-trinitaria di ogni vocazione, in forza di diversi bisogni della Chiesa in missione nel tempo, si è articolata in differenti forme vocazionali, ma sempre alla scuola di come Gesù ha detto e ha fatto, ripreso e rifratto e adattato dai Pastori.
Grazie a tale adattamento, in cui intervengono anche le scienze umane, il motivo della testimonianza e del suo esprimersi in vista della vocazione, si arricchisce di elementi nuovi in precedenza inediti, che non tolgono certamente, ma meglio articolano e introducono alla insondabile ricchezza della testimonianza feconda di Gesù.
Infine, non possiamo dimenticare un ultimo, immediato e personale segno dello Spirito Santo, e cioè la testimonianza che ciascuno di noi, presbiteri e religiosi, ha incontrato e che ha marcato la sua vocazione. Penso ai genitori, al catechista, al parroco, allo zio prete e alla zia suora, al direttore spirituale… Nessuno di noi sarebbe prete o religioso senza una testimonianza, una o molteplice, che come un abbraccio ha circondato la propria vita prolungando la testimonianza di Gesù. Ritroviamolo di nuovo e ricordiamolo bene, perché – come tra poco accenneremo – la vocazione nata per testimonianza mira a dare testimonianza.
Ancora un’osservazione. Non si pensi che la testimonianza che suscita vocazioni sia un momento singolo, per quanto intenso. Alla scuola di Gesù con i discepoli, la sua testimonianza di vita e di idee, è un fatto continuo che li riguarda e coinvolge per tutta la vita. Del resto ce lo dice l’esperienza e noi anziani non ne siamo esonerati: abbiamo sempre bisogno di testimoni cristiani, sia di vocazione laicale sia di quella presbiterale e religiosa, per continuare ad essere, loro e noi, presbiteri e religiosi. Viviamo nella stessa barca della Chiesa all’interno della stessa umanità. Verrebbe da dire che – come Tommaso con Gesù – abbiamo sempre bisogno di “toccare con mano” la verità della nostra vocazione in quanti, come Gesù, la stanno vivendo seriamente e gioiosamente.
Per concludere questo paragrafo, vorrei, in modo schematico, mettere in luce – quasi in fila – alcune condizioni della pastorale vocazionale, coscienti che la vocazione la suscita Dio e che essa richiede un animo ben disposto. Naturalmente, ci vuole, da parte nostra, molta preghiera e sacrificio per chiedere al “Padrone della messe di mandare operai alla sua messe”.
- Innanzitutto, una cosa elemeentare, ma credo opportuna da sottolineare: con i ragazzi e i giovani bisogna starci! Non bastano di solito incontri e iniziative generali, pur necessarie; è indispensabile stare il più possibile in mezzo a loro per stabilire con pazienza dei rapporti personali. E non credo sia vero quanto a volte si dice, che per stare con i giovani bisogna essere giovani: don Bosco è stato con loro fino alla fine della vita! Se è vero che con l’avanzare degli anni le forze fisiche diminuiscono e non è più possibile seguire fisicamente certe attività giovanili, è anche vero che i ragazzi cercano soprattutto l’attenzione e il cuore di un padre: è questo l’educatore. Vogliono sentire uno sguardo di affetto, trovare nel proprio sacerdote la disponibilità ad essere ascoltati, compresi e ripresi, ma sempre incoraggiati. E per questo non c’è età.
- Inoltre è auspicabile giungere ad un cammino di direzione spirituale. Il rapporto deve essere, per quanto possibile, personalizzato per poter entrare con discrezione nel mondo interiore del giovane, per aiutarlo a conoscere se stesso nella luce di Gesù, il grande Amico, a spalancare gli orizzonti dell’anima.
- È necessario iniziare il ragazzo alla vita spirituale attraverso quei sentieri che i Santi ci hanno consegnato e che – sul piano religioso e ascetico – conducono a costruire la personalità dentro al rapporto con Cristo e nell’amore crescente alla Chiesa: scoprire che la vita è dono e vocazione, aiutarli a stare-con-Gesù sperimentandone la bellezza.
- La confessione è un altro punto fermo per la vita spirituale e per il discernimento vocazionale. Deve essere frequente e regolare.
- La devozione alla Madonna. Scoprire il filiale rapporto con la Madre del Signore è una scuola quanto mai efficace per conoscere Gesù ed imparare ad amarlo nella sua sequela.
In generale, sembra talvolta essere scontato che quanti chiedono di entrare in seminario o in noviziato siano giunti a sufficiente maturità cristiana. Non dimentichiamo il dato evangelico: esso ricorda che la testimonianza cui chiama Gesù è diventare cristiani, sempre più cristiani. Dunque, nel diventare preti e religiosi, è necessario avere presente la formazione umana e cristiana per poter formare dei pastori che aiutino gli uomini ad essere intimamente e profondamente di Cristo e della Chiesa.
- La vocazione per la testimonianza
Dedichiamo un breve pensiero a questo ultimo punto. Se resta vero che è la testimonianza diretta di Gesù fin dalla sorgente trinitaria, e poi resa visibile nel tempo, che suscita il discepolo e ne costituisce la struttura portante, resta anche vero che la testimonianza rimane lo scopo di quanti seguono il Signore. Chiamati per testimoniare: è un processo di traditio (testimonianza ricevuta) e di redditio (testimonianza donata) di cui diventare convinti e competenti. Soltanto in questo modo, l’impegno testimoniale di Gesù continua. Ciò compare ancora alla scuola del Vangelo, dove le idee si fanno chiare e vere. All’inizio abbiamo citato il filo che per Gesù unisce ed è il fine della missione del discepolo: vocazione (venite dietro a me) e missione (sarete miei testimoni). Nel brano giovanneo sopracitato, Andrea prolunga in sé la testimonianza del venite e vedrete del Maestro. Lo fa con il fratello Simone (Pietro) traducendo assai bene il senso da vocazione nell’espressione: «Abbiamo trovato il Messia. E lo condussero a Gesù» (Gv 1,40-42), non descrivendo dunque un’idea, ma facendo incontrare una persona. Una vocazione è dunque temprata per una missione che è anzitutto di testimonianza. Questo comporta educare i chiamati a comprendere la loro vocazione come derivante dalla testimonianza di Cristo e dei cristiani (lo abbiamo detto sopra) e a formarsi capaci di donarla, anzi, appassionati per donarla. I passaggi alla luce del NT, segnatamente nel Vangelo e in Paolo, sono ben marcati: li abbiamo visti sopra. Traducendoli pedagogicamente viene da scandire un binomio: vivere in continuo contatto con testimoni e allenarsi a dare testimonianza.
Non è soltanto auspicabile, infatti, ma si propone come obiettivo obbligatorio, che i chiamati siano sempre a contatto con testimoni, lungo tutto il ciclo formativo, fino all’ordinazione sacerdotale e alla professione perpetua, e poi nella fase di periodico aggiornamento.
-Ciò richiede il culto (che è studio e preghiera) della testimonianza nella vita di Gesù, di Paolo e, più ampiamente, nella Sacra Scrittura. Vuol dire integrare la conoscenza dottrinale di Gesù con la capacità di cogliere in lui lo stile del Padre.
-Inoltre, è necessario fare tirocinio di testimonianza nei contatti pastorali e semplicemente umani che un seminarista o un religioso viene ad avere. Ciò comporta:
1- ritornare frequentemente alla sorgente, Cristo, e a coloro che in modo esemplare hanno incarnato la vocazione ricevuta: i profeti, Paolo e gli altri Apostoli, tante figure narrate nel libro degli Atti, l’ampia galleria di Pastori lungo la storia. Sono figure obbligate di riferimento e di incoraggiamento;
2- non restare prigionieri del rispetto umano, memori in ciò anche delle severe parole di Gesù per chi si vergogna di lui (cf Mc 8,38), ed insieme imparare il saggio equilibrio che fa parlare e fa tacere evitando eccessi controproducenti, ma anche silenzi colpevoli;
3- sapere e voler rendere ragione della propria speranza (cf 1Pt 3,15) alle persone che ci avvicinano o cui ci avviciniamo.
Conclusione
L’attenzione ai profeti da cui siamo partiti nominando Geremia, è sempre fonte di verità genuina e dissetante. Essi, rispondendo generosamente alla chiamata di Dio, mettono non solo la voce, ma tutta intera la loro esistenza per la missione che ricevono da lui, sicché la loro vita diventa segno continuo che attesta con certezza la volontà di Dio.
Ciò si manifesta compiutamente nel Signore Gesù, sorgente e modello della missione di testimoniare lui e la causa del Regno fino ai confini della terra. È quanto opera Paolo a partire da Damasco, facendo della testimonianza di Cristo l’asse portante della sua esistenza. La parola conclusiva è al testimone ultimo del NT, che ha parlato della testimonianza a Gesù con accenti appassionati che nascono dal cuore e dalla vita:
«Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta» (1Gv 1,14).