Una formazione adeguata
- Responsabilità della formazione nell’accompagnamento di giovani provenienti da famiglie in difficoltà. Quale ambiente, quali percorsi e quali attenzioni per una formazione veramente personalizzata?
L’esperienza familiare costituisce un evento fondante nella vita di ogni individuo e nella strutturazione della sua personalità. La crisi profonda che l’istituzione famiglia sta attraversando nella nostra epoca si riflette inevitabilmente nello sviluppo e nella formazione dell’individuo e influenza in diversi modi lo sviluppo della sua identità umana e cristiana.
Giovani uomini e donne che aderiscono alla chiamata di Dio nel cammino di consacrazione, nelle sue diverse forme, sono figli della loro cultura con le ricchezze e le povertà che la caratterizzano. Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre, ma come formatori vocazionali siamo interpellati dai cambiamenti sociali e culturali affinché possiamo meglio rispondere al nostro compito di accompagnare altri nel cammino di ricerca, incontro e adesione a Dio. Come cristiani siamo sostenuti dalla certezza e dalla fiducia nell’opera fedele di Dio: è lui, nel suo amore materno e paterno, che fa crescere; ma siamo anche consapevoli, come educatori, della necessità di una mediazione [1] ecclesiale e formativa capace di accompagnare e favorire questo processo di crescita e maturazione. Nell’avvicinare un giovane, un buon educatore deve saper mantenere lo sguardo su due polarità: la realtà concreta del giovane, con le sue risorse e le sue fatiche, il suo presente e la sua storia da una parte; il suo orizzonte futuro, i suoi desideri, gli ideali, cioè chi è chiamato a diventare dall’altra. Dio infatti raggiunge sempre il suo popolo, lì dove esso concretamente e storicamente si trova, per condurlo alla Terra promessa. Accompagnare un giovane significa porsi accanto a lui o lei, in qualità di fratello e sorella maggiori nella fede, affinché possa emergere e poi trovare forma una (o “la”) domanda cruciale che, nelle parole di San Francesco, suona così: «Chi sei tu, dolcissimo Iddio, e chi sono io?».
Queste brevi considerazioni iniziali permettono di focalizzare l’attenzione sull’obiettivo della presente riflessione, cioè sulla responsabilità della formazione nell’accompagnamento di giovani provenienti da famiglie in difficoltà[2] e sull’importanza di sviluppare dei percorsi adeguati e personalizzati.
- “Ce l’ha con me”: lo stile relazionale di sr. Federica
Sr. Federica ha 32 anni, da poco ha fatto la professione perpetua ed è inserita in una comunità di suore impegnate nell’attività della diocesi. Tra la responsabile della comunità e sr. Federica si è sviluppato un rapporto faticoso e conflittuale, che si riflette sul contesto comunitario e che sembra non trovare soluzione nonostante i tentativi della superiora di rendere il clima più sereno. Ella è persona piuttosto mite e sensibile alle esigenze di chi vive con lei, ma da sr. Federica le ritorna continuamente il messaggio di non avere attenzioni per lei.
Sr. Federica è una persona molto generosa e animata da buoni desideri, ma ha avuto delle difficoltà relazionali in ogni comunità dove ha vissuto. Certamente, imparare a vivere relazioni libere e mature, significative e orientate al dono di sé, è la sfida che ogni persona è chiamata a vivere e centro di ogni cammino cristiano.
Tuttavia, nel percorso di Federica si evidenziano delle costanti nel modo di vivere le relazioni: la giovane suora si affeziona ad una persona della comunità, in modo particolare ad una figura di autorità, sembra nascere una buona relazione, ma poco alla volta l’affetto diventa gelosia, controllo, ricerca ossessiva di attenzioni, per sfociare successivamente nel sospetto e nella convinzione che questa sorella non ha riguardo per lei e che non nutre per lei nessuna attenzione, anzi, la tratta con sgarbo.
Questa modalità crea malumore e un clima faticoso nella comunità, anche perché Federica si sente molto in ansia per quanto vive e cerca un’altra sorella o una persona esterna alla comunità alla quale comunicare il suo vissuto e le sue convinzioni su quanto sta avvenendo.
Tale modalità relazionale si era presentata fin dalla prima esperienza comunitaria, al tempo della verifica vocazionale; la suora che l’accompagnava sentiva la fatica di questa relazione, ma era anche convinta che, con il passare del tempo e con le nuove esperienze, Federica avrebbe avuto modo di crescere e maturare; anche nel postulato e noviziato emersero difficoltà simili, la giovane aveva talvolta delle reazioni impulsive verbali, anche drammatiche. L’argomento fu spesso affrontato con franchezza dalla formatrice e regolarmente, dopo qualche capriccio e resistenza, la giovane sembrava riconoscere le sue difficoltà e prometteva sinceramente di impegnarsi a sviluppare delle modalità diverse. Con il passare del tempo la giovane mostrava una certa capacità di gestione relazionale, nel senso che sapeva controllare reazioni forti di gelosia o di aggressività. Così sr. Federica emette i voti perpetui e ben presto le vecchie difficoltà si ripresentano.
Ampliando lo sguardo per comprendere la situazione di Federica, possiamo vedere come lo stile relazionale, caratterizzato dalla sospettosità e dalla difficoltà a fidarsi, fosse un tratto caratteristico della sua personalità, manifestato fin dall’adolescenza. Attualmente sembra che nella vita comunitaria religiosa Federica non riesca a gestire in modo adatto né il sospetto né la gelosia: da qui il bisogno di controllare gli altri e, a seguire, le reazioni aggressive. I tratti di personalità di un soggetto chiaramente non nascono dal nulla, ma sono il frutto dell’interazione tra le caratteristiche naturali proprie di ogni persona e il contesto educativo e culturale, prima tra tutti quello familiare.
Federica, terzogenita, ha vissuto all’età di cinque anni il trauma del divorzio dei genitori, decisione a cui la mamma e il papà giungono in seguito ad una relazione da sempre difficile; lui persona molto rigida, uomo geloso e attento al riconoscimento sociale; lei donna molto emotiva, più giovane del marito, piuttosto ansiosa e succube di lui. Dopo la nascita di Federica il clima familiare si era inasprito ed era caratterizzato dalle continue accuse di gelosia e sospetto tra i coniugi; inoltre la bimba passava lunghi periodi dalla nonna perché la mamma soffriva di crisi d’ansia. Federica viveva ciò come un rifiuto, anche perché le sorelle maggiori stavano in casa. Poi arriva il divorzio e le figlie vanno a vivere con la mamma che, dopo un certo tempo, si coinvolge in una nuova relazione affettiva.
Lontano dall’avere una visione deterministica della vita e lontano da un approccio riduttivo che pretenda di spiegare le complesse e misteriose vicende della vita attraverso le categorie causa-effetto, è chiaro che il vissuto infantile e familiare di Federica ha un forte impatto nello sviluppo della sua personalità e della sua modalità relazionale.
Quale considerazioni per il nostro discorso? Già Freud (il cui riferimento non significa adesione acritica alla sua teoria e, ancor meno, alla sottostante antropologia) affermava che la maturità di un individuo si manifesta nella capacità di amare e lavorare. In altri termini: la maturità umana consiste nella capacità di vivere sufficientemente in pace con se stessi e con gli altri, e nell’assumersi la responsabilità delle proprie scelte lavorative ed esistenziali. Si tratta di condizioni umane[3] necessarie per assumersi l’impegno di una risposta vocazionale, come indicato nei documenti magisteriali[4].
Comprendiamo come la capacità umana di stabilire relazioni di fiducia significative di reciprocità colora inevitabilmente la vita di fede che, nella sua essenza, è relazione personale ed affettiva con la Persona di Gesù. L’accompagnamento vocazionale non può evitare un confronto responsabile e adeguato con questi aspetti della storia personale e familiare del/la giovane in discernimento vocazionale o in formazione.
Talvolta ci illudiamo che il tempo basti: non è raro sentire discorsi del tipo “con il tempo crescerà, imparerà…”, ma si impara dalla vita e dall’esperienza se si è capaci di imparare. Nel rispetto dei criteri stabiliti dalla Chiesa e secondo le indicazioni di ogni istituzione religiosa, si rende necessario non solo valutare la presenza di certi presupposti umani, la cui maturazione è resa più faticosa dalla fragile situazione della famiglia oggi, ma anche individuare dei percorsi adeguati lungo i quali i/le giovani possano rielaborare, nei limiti del possibile, situazioni complesse della loro storia e sviluppare capacità più adatte a fronteggiare le difficoltà.
La necessità di una basilare capacità relazionale, che si esprime nel poter vedere l’altro con realismo e nella sua fondamentale interezza[5] è collegata ad una percezione sufficientemente stabile e integrata di se stessi, cioè alla capacità di tollerare in se stessi aspetti ambivalenti, ombre e luci, risorse e limiti. Quando manca un’immagine sufficientemente realistica di se stessi, il soggetto fa molta fatica (o non riesce) a sviluppare una percezione realistica dell’altro, ma anche a maturare un ideale stabile, coerente che lo impegni per il futuro e, di conseguenza, anche una scelta vocazionale. La stessa immagine e percezione di Dio quindi, rischia di essere frantumata, non integrata, fluttuando alternativamente dalla percezione di un “Dio-solo-buono” a quella di un “Dio-solo-cattivo”: se per ogni cristiano è impegnativo vivere ed accogliere gli estremi della fede, cioè la Morte e la Risurrezione, possiamo comprendere come possa essere difficile conciliare tali opposti per la persona che non ha maturato una stabile immagine di sé e dell’altro.
- Una scelta vocazionale libera
Alessio è un seminarista di 30 anni prossimo al diaconato. Si presenta come una persona generalmente mite, sa stare nel gruppo, ma tende ad evitare relazioni coinvolgenti o vicine. La decisione vocazionale è maturata in seguito ad una forte esperienza di fede e conversione vissuta cinque anni prima. Sta vivendo attualmente un momento di fatica e di crisi perché sperimenta una forte attrazione verso una giovane donna e sa di aver gradualmente posto le condizioni affinché questa attrazione fosse ricambiata.
Alessio si rende conto di vivere in una situazione ambigua, da una parte questa esperienza lo mette di fronte ad una possibile e diversa scelta di vita nella quale si sente maggiormente realizzato come uomo. D’altra parte sente di aver preso un impegno serio con il Signore e non vuole abbandonare; nel confronto con il direttore spirituale emerge anche la consapevolezza che lasciare il seminario significherebbe far vedere agli altri, in particolare al padre, la sua incapacità di essere costante o fedele in un cammino intrapreso.
Anche nel caso di Alessio il contesto della storia familiare può offrire una pista d’interpretazione significativa. Il giovane è figlio unico di una coppia che ha portato avanti la propria relazione in una alternanza di tradimenti e infedeltà reciproci e rapporti estemporanei. Solo negli ultimi anni, quando Alessio già stava in seminario, la relazione tra i genitori si è ricomposta in una unione più serena.
Alessio è cresciuto in questo clima familiare, ha sofferto la modalità dei genitori senza prendere posizioni nei confronti dell’uno o dell’altro. Il padre, che aveva fama di “dongiovanni”, esprimeva spesso al figlio il suo dubbio e la sua perplessità nei suoi confronti in quanto non lo vedeva lanciarsi in avventure con le ragazze e non raccontava prodezze sessuali; così il padre gli diceva spesso: «Non è che forse tu non sei un vero uomo?».
Alcuni aspetti importanti emergono nel cammino di Alessio che meglio aiutano a comprendere l’ambiguità che sente dentro di sé: da una parte il giovane uomo vuole prendere posizione di fronte al padre, mostrando di non esser come lui, cioè incapace di fedeltà; d’altra parte sente forte la dipendenza da lui e il bisogno di dimostrargli che è uomo, cioè maschio, secondo i criteri del padre, ossia affascinare e attrarre le donne in relazioni più o meno strumentali. Risucchiato da queste dinamiche, Alessio rimane chiuso in una lotta psichica (cioè tra aspetti conflittuali del suo io) che fa fatica a trasformarsi in lotta spirituale, cioè tra la persona e il suo Dio[6]. Il rischio, quindi, è di perdere di vista l’obiettivo, cioè la ricerca della volontà di Dio. Rielaborando questi vissuti in un percorso di adeguato accompagnamento e interpretandoli in verità, alla luce della fede, Alessio potrebbe maturare una decisione vocazionale più consapevole e rispondere a Dio con maggior libertà impegnandosi in un dono sincero di se stesso.
Non poche famiglie oggi sono segnate da legami instabili, relazioni fragili e non durature. Non è raro che i figli crescano con un solo genitore, in seguito a divorzio o separazione, oppure che i fratelli abbiano la stessa mamma (generalmente) e padri diversi. Spesso il tessuto familiare non è in grado di trasmettere modelli esistenziali di fedeltà e la relazione affettiva coniugale sembra sostenuta più dal “va bene finché dura il sentimento” che dall’impegno responsabile e dal finalismo dell’amore.
Queste fragilità familiari, tipiche del mondo moderno, si accostano a situazioni faticose (purtroppo) non nuove, come presenza di alcoolismo o forme varie di violenza domestica. Inoltre è importante sottolineare come spesso oggi, a differenza di quanto accadeva nel passato, la maturazione della vocazione non avviene nel grembo della famiglia che, attraverso il suo vissuto e la sua testimonianza, trasmetteva il senso della fede e una visione cristiana della vita.
Nella vita di tanti giovani è spesso assente anche l’esperienza della vita e dell’impegno ecclesiali, nelle sue dimensioni di preghiera, comunione e servizio, che favoriscono uno sviluppo graduale della vocazione battesimale e che fanno emergere una domanda vocazionale specifica. Aumenta il numero di uomini e donne che entrano in vocazione in seguito ad una forte esperienza di fede e conversione che ha segnato la loro vita.
Tutti questi aspetti ci interpellano a elaborare percorsi formativi adeguati capaci di incontrare le reali esigenze di quanti accolgono il dono della chiamata divina e di favorire un contesto di effettiva libertà decisionale.
- Alcune possibili sfide
La nostra umanità è il terreno che accoglie il seme della chiamata divina, la vocazione è sempre un dono della grazia divina e mai un diritto o una conquista dell’uomo. Nel rispetto dell’inafferrabilità dell’agire di Dio e del mistero che avvolge ogni singola vocazione, come educatori e formatori non possiamo esimerci dalla responsabilità di cercare (e di favorirne lo sviluppo)[7] nella persona che si pone alla sequela di Gesù quei presupposti umani che costituiscono il terreno, più o meno capace, di accogliere il seme della chiamata.
Sullo sfondo delle storie prima brevemente riportate vorrei evidenziare alcune attenzioni formative da sviluppare nell’accompagnamento di giovani provenienti da famiglie in difficoltà. Si tratta di criteri e attenzioni importanti in ogni accompagnamento vocazionale, ma essi diventano cruciali in quelle situazioni in cui le fragilità familiari possono aver interferito oppure ostacolato lo sviluppo di alcune attitudini umane fondamentali.
A. Una percezione sufficientemente stabile ed integrata di sé[8]
È compito di ogni persona recuperare e credere alla positività di se stessi imparando a guardarsi dalla prospettiva di Dio: persone fatte a sua immagine e somiglianza e contemporaneamente deboli e segnate dalla fragilità e dal limite. Credere alla positività di se stessi non è un’idea, si tratta piuttosto di un impegno, un percorso, un cammino spesso faticoso, perché ci chiede di mettere le mani nelle inevitabili ferite che ognuno di noi porta nel proprio cuore e nella propria storia personale e familiare, siano esse subite o il risultato dei nostri errori. Ognuno di noi ha imparato a rapportarsi con se stesso dentro il tessuto delle relazioni che ha vissuto fin dall’inizio della propria vita e lungo questa storia ha sviluppato un senso più o meno positivo della propria identità. Talvolta abbiamo imparato che gli altri ci amano “a condizione che” e tutto questo costituisce un’eredità che non abbiamo cercato, ma semplicemente ricevuto… Recuperare la propria amabilità è un compito che interpella nel proprio presente rinnovando ogni giorno la fiducia in se stessi e l’apprezzamento per l’amore ricevuto. Significa diventare consapevoli ed emotivamente convinti che in ognuno di noi non tutto è forte e non tutto è debole, che possiamo accogliere le nostre personali ombre senza negarle e senza temere che esse offuschino le luci e gli aspetti positivi, e tutto questo nella consapevolezza che la stima di sé rimane un’area un po’ vulnerabile per tutta la vita. Dalla consapevolezza sentita di essere stati amati gratuitamente (senza il dovere di conquistare l’affetto) scaturisce la gratuità dell’amore: «Cristo dà alla persona due fondamentali certezze: di essere stata infinitamente amata e di poter amare senza limiti. Nulla come la croce di Cristo può dare in modo pieno e definitivo queste certezze e la libertà che ne deriva»[9]. Credere alla propria positività è un fatto concreto che si manifesta nella capacità esistenziale di accettare quello che siamo, di stare sufficientemente a proprio agio con se stessi pur tra gli alti e bassi della vita e nella tensione di un possibile miglioramento e della crescita nella nostra identità di figli di Dio.
Amare il prossimo come se stessi è un cammino che segue un percorso obbligato: il riconoscimento e l’accettazione di sé come esseri fragili e peccatori, ma redenti e raggiunti dall’amore personale e gratuito di Dio. Esso può pertanto risultare arduo a coloro che non abbiano raggiunto un sufficiente livello di integrazione psichica che consenta di tenere insieme i pezzi e di contenere gli opposti.
B. Una fondamentale capacità di relazione e di fiducia
Si tratta di un compito che ci impegna fin dai primissimi tempi della nostra esistenza[10] e che rimane aperto per tutto l’arco della nostra vita. Pedagogicamente questo è molto importante perché significa che, nei limiti del possibile, alcune antiche vulnerabilità nell’ambito della capacità di fidarsi e di consegnarsi possono essere lenite nel corso della vita. Diventa cruciale a questo riguardo il modo in cui l’educatore sa porsi accanto al giovane ferito nella capacità di fiducia: è compito dell’educatore imparare a cogliere il vero bisogno dell’altro e rispondervi offrendo una relazione che, di volta in volta, sa proporsi come sostegno, consolazione, presenza oppure come provocazione, sfida, assenza[11]. Nel vivere le relazioni spesso facciamo l’esperienza della delusione: l’altra persona non è come l’ho conosciuta fino a questo momento e rivela aspetti di sé che non avevo visto o che non mi piacciono. Oppure, come avviene più frequentemente, ella è solo diversa da come me l’aspettavo e la desideravo. Talvolta idealizziamo l’amico/a, il coniuge, la consorella, il confratello… e sull’altra persona proiettiamo le nostre attese e aspettative. In questo modo nell’altro vediamo ciò che ci piace o che vorremmo vedere e assolutizziamo alcuni suoi aspetti gradevoli, mentre altri nemmeno li notiamo. Allo stesso modo ognuno di noi disattende o delude aspettative e attese che gli altri nutrono nei nostri confronti. In alcuni casi l’idealizzazione dell’altro è così forte che rischiamo di non avere di lei/lui una percezione realistica. Sappiamo che non è facile accogliere e vivere la delusione; si tratta tuttavia di un passaggio importante che apre la strada ad una visione più oggettiva della realtà altrui e ad un rapporto più realistico.
Questa fase richiede la capacità di integrare aspetti positivi e negativi dell’altro e, soprattutto, i sentimenti ambivalenti di affetto/ rabbia che posso provare nei suoi confronti. Una persona è capace di integrare i diversi aspetti dell’altro nella misura in cui sa custodire nel cuore, cioè è psicologicamente capace di mantenere viva dentro di sé l’immagine positiva dell’altro, di dare continuità al sentimento della sua benevolenza anche quando lo percepisce come frustrante o minaccioso.
La capacità di fidarsi è fondamentale per la vita fraterna e apostolica, per impegnarsi in un cammino formativo di apertura e collaborazione, ma è essenziale anche per la relazione con Dio, affinché egli possa essere “creduto” come presente e amante anche quando il soggetto non lo sente o fa esperienza del suo silenzio… Non si tratta forse di quella capacità sottesa alle parole di Gesù quando ci esorta a rimanere nel suo amore (cf Gv 15)?
Bisogna inoltre imparare a vivere relazioni nella reciprocità, cioè relazioni in cui si è capaci di entrare e di uscire, di dare e di ricevere. Questo tipo di relazione, che possiamo anche definire relazione d’intimità, richiede un adeguato equilibrio tra due aspetti: l’autonomia e la dipendenza. L’autonomia, quale capacità di stare in piedi sulle proprie gambe permette di riconoscersi, nella propria individualità personale, come soggetto capace di pensare, amare, decidere e agire. La capacità di dipendere, che nasce dall’umile consapevolezza di non bastare a se stessi e di avere bisogno dell’altro, è intesa come capacità di lasciarsi coinvolgere e raggiungere dall’altro e costituisce la base per poter accogliere l’affetto degli altri; essa, inoltre, rende possibile un senso di appartenenza (alla famiglia, alla comunità religiosa, al gruppo…).
Autonomia e dipendenza chiedono un dinamico equilibrio nella persona; se l’autonomia è troppo forte diventa facilmente autosufficienza o paura dell’altro ed impedisce di entrare nella relazione, mentre, quando il bisogno di dipendere è eccessivo, allora la persona fa fatica ad uscire dalla relazione rischiando di rimanerne invischiata.
C. La capacità di decentrarsi e uscire da sé.
Un terzo aspetto, intimamente unito agli altri due, è dato dalla capacità di decentrarsi, cioè dalla capacità di uscire da sé. Antropologicamente, infatti, c’è vita quando c’è un movimento di uscita: se il bimbo non esce dal grembo materno muore, se il figlio non esce dalla sua famiglia di origine non dà vita alla propria famiglia. Si tratta di un’uscita fisica e anche simbolica o psicologica perché l’uscita dal grembo materno, accompagnata dal taglio del cordone ombelicale, è un dato fisico, ma c’è anche un necessario e successivo taglio psicologico del legame. Allo stesso modo l’uscita di casa del giovane che fa le sue scelte deve essere accompagnata da un reale distacco e da una sana autonomia su tanti fronti perché si compia un’uscita effettiva.
Come persone umane siamo fatte per la comunione, cioè per uscire da noi stessi e incontrare l’altro e questa dimensione di alterità prende forme diverse nel corso dell’esistenza. L’alterità è data dall’altro come singolo soggetto umano, ma anche dalla famiglia o da legami parentali, dal gruppo o dalla società, dalla cultura e dall’ambiente, dai diversi orizzonti di valori, da Dio stesso. In altri termini, si cresce nella misura in cui si esce da se stessi, nella misura in cui si smette di fare di se stessi e delle proprie esigenze e desideri il centro del mondo: la realizzazione di sé si attua raggiungendo degli obiettivi, dedicandosi a qualcosa, o meglio, a qualcuno. In termini evangelici: la persona si realizza servendo, donando la propria vita, facendo dono sincero e totale di sé come Gesù ha fatto.
Se una persona è concentrata su se stessa, nel senso che impegna gran parte delle sue energie per mantenere psichicamente uniti aspetti del proprio io, cioè se non ha raggiunto un’adeguata coesione e una sufficiente integrazione del proprio io, – anche quando possibile – sarà molto arduo prendersi cura di altri, assumersi responsabilità per altre persone, farsi carico con un adeguato margine di libertà (affettiva ed effettiva) dell’impegno che una vocazione comporta. Non si tratta in tal caso di poca buona volontà da parte del giovane, né di quello spazio intermedio in cui, in un contesto di essenziale “normalità psicologica” giocano conflittualità subconscie che possono facilmente interferire con la scelta consapevole dei valori cristiani e vocazionali. Mi riferisco ad una libertà umana talmente ridotta che rende molto difficile al giovane saper gioire delle piccole e sane cose della vita e che potrebbe compromettere significativamente la capacità di una scelta vocazionale, sapendo che «non vi possono essere vocazioni, se non libere; se esse non sono cioè offerte spontanee di sé, coscienti, generose, totali…»[12].
Nella consapevolezza che siamo, sì, collaboratori di Dio, ma che è lui che fa crescere (1Cor 3,6.9), è importante che i percorsi di discernimento e formazione vocazionale, l’accompagnamento spirituale, le esperienze di servizio e di solidarietà, di comunione e di vita fraterna, mettano in risalto e promuovano nel/la giovane le condizioni fondamentali per entrare in un impegno vocazionale: i segni di una relazione viva con Dio, una basilare chiarezza nella proclamazione dei valori del Vangelo ed un minimo di realismo nel viverli, una sufficiente integrità psichica e il desiderio e la capacità di crescere, di lasciarsi plasmare da Dio anche attraverso le tante mediazioni che accompagnano il cammino formativo vocazionale.
Note
[1] Direttive sulla formazione negli istituti religiosi, 30, in «Vita Consacrata» 66.
[2] Come definire una famiglia in difficoltà? Non entro nel merito di questo approfondimento che è obiettivo di altri contributi in questo stesso numero della rivista.
[3] G. Vittigni, La personalità borderline secondo il modello strutturale di Otto Kernberg, in «Tredimensioni», Anno VII (1) 2010, pp. 60-73.
[4] Pastores Dabo Vobis, n. 43, in «Vita Consacrata» 65, Vita Fraterna in Comunità, pp. 35-37.
[5] Kernberg parla di relazioni oggettuali totali e parziali: nel primo caso il soggetto ha maturato una fondamentale capacità di relazionarsi realisticamente all’altro nella sua interezza, piuttosto che idealizzare o assolutizzare alcuni aspetti e negarne altri, fluttuando tra percezioni affettivamente opposte, come avviene nel secondo caso.
[6] «Vita Consacrata» 70.
[7] Pastores Dabo Vobis, n. 43.
[8] S. Rigon, Vivere la gratuità nelle relazioni, in «Consacrazione e Servizio», Anno LIX (5) 2010, pp. 49-54.
[9] Vita Fraterna in Comunità, 22.
[10] E. Erikson, I cicli della vita. Continuità e mutamenti, Armando Editore, Roma 2003, pp. 73ss.
[11] F. Imoda, Sviluppo umano, psicologia e mistero, Piemme, Casale Monferrato 1993, cap. IX.
[12] Pastores Dabo Vobis, n. 36.