N.06
Novembre/Dicembre 2010

Spiritualità e compiti educativi del direttore CDV

 

  1. Il direttore del CDV per una pastorale vocazionale “co­rale”

«E lo condusse da Gesù» (Gv 1,42)

Queste parole, riferite all’azione di Andrea di Betsaida nei con­fronti del fratello Simone, mostrano in un certo senso il cuore di tutta la pastorale vocazionale (cf Pastores dabo vobis, n. 34).

Andrea, mosso dalla gioia irresistibile e contagiosa della sua sco­perta del Messia, conduce il fratello a quell’incontro con Gesù che apre Simone non solo alla fede nel Messia finalmente trovato, ma anche al mistero della sua vocazione nella comunità dei credenti: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni. Sarai chiamato Cefa, che si­gnifica Pietro».

 

1.2 Abbiamo trovato!

“Abbiamo trovato”: la pastorale vocazionale – come ogni auten­tica comunicazione della fede – richiede persone che hanno speri­mentato l’incontro con Cristo come la buona notizia della propria vita e hanno cominciato a mettere in gioco se stessi per Lui e con Lui, l’Agnello di Dio che porta su di sé e toglie il peccato del mondo (cf Gv 1,29.36).

“Abbiamo trovato” è un plurale, perché erano due i discepoli e perché è sempre così: la trasmissione della fede è sempre un avve­nimento corale e quindi anche ogni azione vocazionale deve essere comunionale ed espressiva della Chiesa tutta intera nella multifor­mità dei suoi volti vocazionali.

 

1.3 L’irrinunciabile dimensione vocazionale della pastorale

La pagina di Gv 1,35-42 ci offre altre considerazioni vocazionali. Innanzitutto ci troviamo di fronte a un Vangelo di chiamata alla fede e insieme a un Vangelo di vocazione. Questo è illuminante, perché ci fa capire che la pastorale vocazionale non è soltanto l’auspicato punto di arrivo dell’azione pastorale. La dimensione vocazionale, cioè l’intuizione che nell’incontro col Signore la vita si svela come un dono che non si può più tenere per sé e si trova afferrata da un amore che coinvolge dentro un’impresa che riguarda la salvezza di tutti, è già dentro la scoperta di Cristo. Possiamo quindi dire che una comunicazione della fede, anche nel suo volto più elementare (la catechesi, l’iniziazione cristiana, i gruppi, le attività che si fanno ai vari livelli…) ha senso nella misura in cui è continuamente ani­mata, unificata, attirata dentro questa prospettiva.

Certo, è vero anche il contrario, che cioè nessuna risposta vo­cazionale è possibile senza l’assimilazione seria e continuamente rinnovata dell’incontro con Cristo che trasforma la vita.

Troviamo qui il fondamento della convinzione della pastorale vocazionale come prospettiva unitaria della pastorale tout court.

 

1.4 “Tu sei…”: la questione dell’identità

Sempre la pagina giovannea ci permette di cogliere, nel dialogo tra Simone e Gesù, qualcosa di prezioso per la pastorale vocaziona­le. Simone ha accolto l’invito ed è andato a vedere, ma non riesce neanche ad aprire bocca, perché Gesù gli dice: «Tu sei…». È la que­stione dell’identità. Operare nella pastorale vocazionale è lavorare per l’identità di ciascuno.

Il processo di identificazione, mai scontato, incontra oggi diverse difficoltà a tanti livelli. Sintomatico è il fatto che molti dei nostri ragazzi rischiano di pensare la propria identità come un nickname, cioè come un identificativo di facile appeal, ma che altrettanto fa­cilmente possa essere cambiato. Se guardiamo con attenzione ci ac­corgiamo che dietro a queste identità virtuali – o semplicemente dietro ai look ricercati di tanti ragazzi – si nasconde la paura di non valere abbastanza per essere accettati. La questione fondamentale dell’identità oggi è insidiata anche da una percezione frantumata dell’esistenza. Sintomo evidente è la fatica a fare unità tra razionalità e relazionalità, tra identi­tà professionale e identità affettiva. Questi due mondi vanno per conto loro senza congiungersi mai, perché la razionalità è conce­pita soltanto come strumentale, utile cioè a risolvere i problemi tecnici della vita, ma senza alcuna apertura al Mistero, come se la ragione umana fosse incapace di dire alcunché di valido sul senso dell’esistenza. A sua volta, il mondo degli affetti e delle relazioni significative è ridotto a sensazioni ed emozioni, tanto forti quanto volubili, e così le persone faticano a maturare sentimenti e legami affettivi profondi.

Senza mettere in comunicazione la razionalità con la dinamica profonda degli affetti e gli affetti con una razionalità aperta alla tra­scendenza e al Mistero, l’identità personale rimane debole e frantu­mata e non può nascere alcuna significativa progettualità.

Dunque noi abbiamo a che fare con il “Tu sei…” e oggi più che mai siamo chiamati ad avvicinarci a ogni persona rendendoci conto delle fatiche che la ricerca della propria identità comporta, delle paure e della rassegnazione che si nascondono dietro atteggiamenti non di rado spavaldi o provocatori. Anche se spesso inconsapevole, nel cuore delle persone c’è l’attesa di una luce capace di indicare, alla domanda sul “chi sono io?”, un cammino reale per fare ar­monia delle dimensioni della propria vita e svelarne il senso e la bellezza.

 

1.5 «Fissando lo sguardo su di lui, gli disse: Tu sei Simone, il figlio di Giovanni…»

Ma da dove può nascere questa luce sulla propria identità? Dallo sguardo del Signore su di noi, sguardo che vede oltre quello che noi stessi vediamo e che cambia e trasforma la percezione profonda della nostra vita. Infatti, tornando ancora all’incontro tra Gesù e Simone, il dialogo si apre con lo sguardo di Gesù accompagnato da queste parole: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni e sarai chiamato Cefa che significa Pietro».

Seguendo l’evangelista, preoccupato di tradurre le parole ebrai­che “Messia” e “Cefa”, possiamo tradurre anche le altre espressioni ebraiche. “Tu sei Simone”, cioè “colui che presta ascolto, che si mette in ascolto”. E di che cosa sei chiamato a metterti in ascolto? “Tu sei figlio di Giovanni”, cioè sei figlio di “Dio che fa grazia”. La tua identità profonda è essere dentro questo mistero di grazia che fonda e avvolge la tua vita dandole futuro. Questo deve essere lo sguardo di un accompagnatore vocazionale, sguardo che infonde luce, che non ha nulla della retorica sentimentale, preoccupata di accattivarsi il consenso delle persone, perché nasce dalla forza pro­fonda di un amore che precede, di una grazia che fonda la vita e che il cristiano porta dentro di sé. Uno sguardo che ciascuno di noi può avere con gli altri perché lo legge sulla propria vita, lo sperimenta sempre di nuovo nel perdono dei propri peccati e nella preghiera, e lo spinge a portare davanti al Signore i volti e i nomi delle persone incontrate.

 

1.6 «Ti chiamerai Cefa…»

Dentro questo sguardo c’è già l’intuizione che la vita non sarà soltanto a misura di quello che noi pensiamo di noi stessi. «Ti chia­merai Cefa, che significa Pietro…». I quattro Vangeli sono concor­di nel mostrarci che Simone è tutt’altro che forte come una roc­cia. Certo, ha un cuore generoso, capace di appassionarsi, sincero nell’amicizia, ma non “roccioso”. Gesù ha pregato perché potesse “confermare i fratelli”, ma dopo essersi ravveduto.

Lo sguardo di Gesù apre quindi a un futuro che non è più sem­plicemente a misura dell’inventario delle possibilità umane. C’è un di più che il Signore chiama a scoprire, un di più che la grazia di Dio rende possibile, senza bypassare quello che uno è, perché cer­tamente questo è il primo luogo in cui Dio parla, il primo libro in cui Dio dà voce al nostro mistero. Ma, appunto, c’è un oltre a cui si è chiamati ad aprirci.

 

 

Tutti responsabili del “Vangelo” della vocazione?

La pastorale vocazionale rappresenta l’attualizzazione di quanto abbiamo visto in Gv 1,35-42 e la continuazione di quella catena del­le chiamate testimoniata dal Quarto Vangelo. Siamo consapevoli, infatti, che è Dio che chiama, ma che Egli si compiace davvero di vederci suoi collaboratori (vedi miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci).

Questa consapevolezza di un servizio umile e ben piccolo rispet­to all’opera di Dio, che ci precede e va oltre noi, e che però Dio considera necessario nel suo disegno, deve avere il tratto incon­fondibile dell’“abbiamo trovato”, deve cioè essere azione di Chiesa, espressione di una Chiesa che non dimentica la sua identità profon­da, di essere un mistero di vocazione.

Oggi viviamo come a metà del guado, fra un cristianesimo sem­plicemente di tradizione (tesoro da non disperdere) e un cristiane­simo di elezione, cioè vissuto come incontro con una grazia inattesa e sorprendente riconosciuta nella persona di Gesù Cristo e accolta nella fede. La pastorale vocazionale può imprimere alla pastorale ordinaria lo slancio necessario per il superamento di un cristiane­simo di pura tradizione, poiché invita a riconoscere in Gesù Cristo “la” vocazione in senso pieno: Egli è insieme la chiamata e la ri­sposta, la parola ultima con cui Dio interpella l’umanità intera e la risposta nella quale siamo chiamati a entrare attraverso la fede, il battesimo e la sequela.

Entrando in questa prospettiva comprendiamo come la Chiesa sia “con-vocazione”, cioè comunione di coloro che hanno ricono­sciuto in Gesù la parola definitiva di Dio e condividono il suo Sì al Padre, uniti a lui come membra del suo corpo.

La pastorale vocazionale è chiamata a muoversi dentro questa prospettiva e a tenerla continuamente viva all’interno di ogni Chie­sa particolare.

Così si comprende perché la pastorale vocazionale competa a tutta la comunità cristiana. Ogni cristiano sente – se è arrivato a sperimentare la fortuna di esserlo – che la bellezza della sua vita sta proprio nell’essere coinvolto a servizio di quest’opera di con-vocazione salvifica in atto nella storia. E tutto questo nel vissuto di ogni giorno, nel tessuto più ordinario e quotidiano dell’esistenza, secondo i doni e la missione ricevuti.

Resta la necessità che questa prospettiva vocazionale, sostan­zialmente affidata a tutti i battezzati, sia assunta da qualcuno in maniera specifica, per animarla, promuoverla, coordinarla, come espressione della sollecitudine del Vescovo per la crescita di tutta una Chiesa e come risposta e collaborazione con l’opera di Dio che continua a chiamare.

Un’azione da vivere senza lasciarsi condizionare dai numeri e sapendo che si semina per il futuro.

 

  1. Con la pazienza e la generosità del seminatore e la sol­lecitudine dell’agricoltore

2.1 Il seminatore uscì a seminare

Un direttore del CDV deve avere nel cuore la certezza di semi­nare qualcosa di straordinario per la vita delle persone e il bene dell’umanità, proprio promuovendo, animando, coordinando la pastorale vocazionale. La sapienza delle parabole del lievito, del buon seminatore e del granello di senapa devono costantemente accompagnare il suo servizio. Consideriamo un attimo quella del granello di senapa: non si tratta di reclutare delle persone, di assicurare del personale per l’ap­parato ecclesiastico, ma di seminare un seme buono, che ha in sé la forza di generare una vita. Un seme che può apparire di poco conto, viste le sue minuscole dimensioni, ma destinato a conoscere una tale sproporzione fra la sua grandezza e l’arbusto a cui dà vita, da far sì che in quell’arbusto gli uccelli possono fare il nido.

La semina vocazionale porta in sé, fin dall’inizio, la prospettiva di una crescita che rende il chiamato ospitale verso la vita degli al­tri, ospitalità che ogni vocazione nella Chiesa attualizza in maniera specifica.

Questa prospettiva vocazionale, sempre seguendo la sapienza delle parabole, deve essere coltivata con la pazienza del seminatore: c’è un tempo per seminare e un tempo per raccogliere, e spesso noi seminiamo e altri raccolgono.

 

2.2 Come un buon agricoltore: la cura dell’itinerario di crescita e di risposta

Come un buon agricoltore, un direttore CDV è chiamato a pren­dersi cura dell’itinerario di crescita del seme della vocazione.

Riprendiamo qui i verbi che esprimono lo stile di Gesù verso i di­scepoli di Emmaus, rinviando a Nuove Vocazioni per una nuova Europa per una spiegazione più esaustiva.

2.2.1 Accompagnare: la forza contagiosa e liberante della testimonianza

Accompagnare, cioè mettersi accanto alle persone e non tanto per spingere l’altro a fare qualcosa, ma per rispondere, insieme a lui, al Signore che chiama. La vocazione, infatti, non è una realtà statica da ricevere e conservare una volta per tutte senza perderla, ma è esattamente la dimensione stessa della mia libertà presa sul serio da Dio, interpellata da Cristo e che con la grazia dello Spirito Santo posso mettere in gioco.

Quindi un direttore CDV, come ogni accompagnatore vocazio­nale, può agire in maniera efficace e fruttuosa solo a condizione che rimanga disponibile a crescere accanto all’accompagnato. “Crescia­mo insieme” non è una formula retorica, né il tentativo di coprire o giustificare un approccio educativo timido e rinunciatario: solo se siamo disposti a ricomprendere e accogliere più profondamente la nostra identità personale dentro al mistero della grazia che avvolge l’esistenza, potremo essere accompagnatori vocazionali autentica­mente efficaci.

Solo se mi metto accanto così – come dentro a un’esperienza che non mi lascia come prima – posso veramente accompagnare, perché la dimensione vocazionale è una realtà viva, in cui è protagonista e attore decisivo il Signore risorto con il suo Santo Spirito.

Chi accompagna, genitore o formatore, sa bene che sono tante le forze che entrano in gioco. Come Gesù può arrivare a dire: «Ti ren­do lode, Padre, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11,25), viceversa in certi momenti ne condivide il dolore, la preghiera, le lacrime: «Se avessi compreso anche tu quello che porta alla pace…» (Lc 19,41ss).

È la vita stessa dell’accompagnatore che deve risuonare non come un tentativo di spingere ad assumere determinati ruoli, ma come un invito che testimonia che vale la pena mettersi in gioco per Gesù, perché il suo amore non delude (cf Rm 5,5).

Perché tale semina vocazionale sia autentica occorre che que­sto invito – iscritto nella testimonianza dell’accompagnatore prima che nelle sue parole – sia posto dentro un clima di assoluta libertà. Qualora questo clima mancasse, per es. sotto la pressione di sottili ricatti affettivi, si potranno ottenere risultati consistenti in termini di risposta vocazionale positiva, ma andranno tutti verificati alla di­stanza. Forzature, in questa fase del cammino, prima o poi presen­teranno il conto e con gli interessi, perché dove non c’è sufficiente libertà interiore, anche in presenza di segni vocazionali significativi, rimarrà una fragilità a livello delle fondamenta.

Occorre fare in modo che ogni chiamato sperimenti quello spa­zio di libertà che gli permette di capire che sta dicendo lui il suo sì a Cristo, perché è bello, ne vale la pena. Che di fronte a tutti i segni di una vocazione particolare non deve sentirsi come uno che è messo con le spalle al muro, ma che quei segni sono un appello alla libera generosità del suo cuore.

L’accompagnatore vocazionale è chiamato a offrire la testimo­nianza di una libertà giocata fino in fondo per Cristo e che ama senza possessività, lasciando liberi, credendo alla forza d’attrazione di una vita vissuta con una dedizione appassionata.

Così può emergere tutta la fragranza della novità evangelica, soprattutto nel nostro tempo in cui tutto sembra dominato dall’uti­le e dal gratificante, e quindi anche i legami più forti e le amicizie apparentemente più gratuite rischiano di essere vissute in termini puramente funzionali. Spesso anche i genitori, così narcisistica­mente proiettati sui propri figli, faticano a testimoniare questa li­bertà interiore, che invece è indispensabile come l’aria per crescere davvero.

2.2.2 Educare: creare “campo”

Abbiamo l’impressione che i giovani non abbiano “campo”, cioè siano in una condizione che impedisce loro di captare i messag­gi di Dio. L’accompagnatore vocazionale deve lavorare per creare campo. E per farlo deve innanzitutto essere connesso lui, vivere in un atteggiamento di costante ascolto e disponibilità nei confronti di Dio e nei confronti dei giovani da accompagnare. Così – rimanen­do nell’ambito delle comunicazioni e dei cellulari – può mettere in atto la funzione bluetooth, cioè condividere dati e input con chi non li possiede e contribuire a far sviluppare in loro le antenne che permettono di creare campo e cominciare a sintonizzarsi con Dio. Per fare questo è importante la testimonianza di una vita connessa fulltime e uno stile di condivisione.

L’azione educativa risulterà tanto più efficace quanto più sa­prà suscitare interrogativi, facendo proposte coraggiose di silenzio e di ascolto, di cambiamento e di servizio, in una logica di sfida positiva e non come cose moralistiche e scontate. Una vera azio­ne educativa aiuta a scavare dentro, ad aprire sguardi inediti, ad andare oltre la crosta della realtà, a saper intravedere il Mistero che ci cerca e ci interpella, a scoprire l’insospettata bellezza della propria vita.

Interventi e proposte educative che mettono in moto questa ri­cerca non nascono a tavolino, ma sono frutto dello Spirito e per questo richiedono – e qui riprendiamo quanto detto sopra – educa­tori spiritualmente e costantemente connessi con il Signore, in un costante sguardo di fede alimentato dalla preghiera, ma educato­ri liberanti, perché testimoni di una grande libertà interiore, liberi cioè dalla preoccupazione di misurare sul loro successo la conferma del proprio valore; educatori che mettono nel conto anche la delu­sione o il rifiuto, senza per questo venir meno nella testimonianza gioiosa della propria vocazione.

2.2.3 Formare: educare a uno stile di vita “eucaristico”

Formare uno stile di vita “eucaristico” vuol dire formare a vivere sotto il segno della “grazia” e del “grazie”, a scoprire e sperimentare quella gratuità sulla vita che apre alla gratitudine e che a sua volta spinge a vivere nella stessa logica di gratuità.

Troviamo qui la sostanza stessa della Messa: l’incontro con Dio dentro le nostre giornate, che restituisce loro un orizzonte, immet­tendo dentro la vita, con le sue gioie e le sue fatiche, il memoriale della gratuità con cui Dio nel suo Figlio ci ha amato e ci ha salvato, lasciandosi afferrare e risanare da questa stessa gratuità che apre nella gratitudine alla gratuità nel dono.

San Paolo, nella Lettera ai Romani (12,1-2), all’inizio della parte esortativa della lettera stessa, scrive: «Vi esorto dunque fratelli per la misericordia di Dio a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo, gradito a Dio. È questo il vostro culto spirituale. Non con­formatevi alla mentalità di questo mondo, ma lasciatevi trasforma­re, rinnovando la vostra mente, per potere discernere la volontà di Dio». Per l’Apostolo il segno della maturità cristiana è l’offerta della propria vita e se uno entra in questa logica può cominciare a discer­nere. Ma questa offerta è risposta alla grazia e all’amore di Dio che ci precedono. Questa sorprendente scoperta fonda la nostra stessa vita come possibilità di dono. «Tu sei Simone, figlio di Giona». Solo se arrivo a capire che sono figlio di questo mistero di Dio che fa gra­zia, riesco a leggere la sua presenza e le sue chiamate dentro la mia vita, anche in quei passaggi che sono tentato di pensare unicamente negativi.

La dinamica del dono è all’opposto quindi di quella dell’eroe. Il volontarismo generoso del “si può fare di più… si può dare di più…” lascia il posto alla scoperta di poter fondare la propria vita su Gesù Cristo, su Colui che è la vocazione e che in ogni celebrazione eucaristica ci prende dentro la logica stessa della sua esistenza.

2.2.4 Aiutare a discernere e a prendere decisioni

La Pastorale vocazionale affidata al CDV si fa carico dei primi passi del cammino vocazionale delle persone, prima dell’avvio de­gli itinerari specifici di discernimento e formazione. Aiuta quindi a porre in atto un primo discernimento e a prendere decisioni, cioè a comprendere in quale direzione mi orientano i segni di vocazione presenti nella mia vita e, prima ancora, che è possibile mettersi in gioco davvero, perché innanzitutto si è messo in gioco Dio in Cristo con l’umanità e dentro la mia storia personale.

 

2.3 Piste di azione a cerchi concentrici

a. Iniziative per creare una cultura vocazionale e una prassi o “traditio” pastorale che plasmi il volto ordinario del­le comunità cristiane

L’azione del CDV si configura a cerchi concentrici. Innanzitutto è chiamato a lavorare per creare una cultura vocazionale, emergen­za educativa prioritaria dentro una cultura dominante che sembra escludere la possibilità stessa che la vita si possa pensare come vo­cazione.

Il CDV coltiva anche l’ambizione di contribuire seriamente, in un tempo in cui le prassi pastorali sono così frequentemente “usa e getta”, in balia del protagonista di turno, a rispondere a un’altra emergenza pastorale, quella di contribuire a costruire, attraverso la valorizzazione della dimensione vocazionale, una prassi pastorale sapientemente finalizzata e che divenga una traditio dentro la co­munità cristiana.

Penso alla Giornata annuale per il Seminario diocesano, in cui aiutare tutti i fedeli a riconoscere la preziosità del ministero presbi­terale e a prendersi a cuore i seminaristi e il loro cammino.

Penso alla giornata mondiale di preghiera per le vocazioni. Fis­sata alla quarta domenica di Pasqua, a cui dovremmo lavorare per darle tutto il profilo pasquale che merita.

Penso al contributi che il CDV può dare a una valorizzazione di­namica e vocazionale della pedagogia dell’anno liturgico, ma anche del libro della santità delle nostre Chiese particolari, con una rilettura creativa dei testimoni e dei luoghi che ne conservano la memoria.

b. La preghiera: iniziativa vocazionale prioritaria

Il secondo cerchio concentrico è quello dell’animazione della preghiera vocazionale. Attraverso di essa può maturare la consa­pevolezza che ogni vocazione è grazia, è dono. Ogni seme vocazio­nale va custodito al caldo della fede e dell’amore di una preghiera ecclesiale, che deve vedere protagonisti i genitori, le persone più assidue all’Eucaristia quotidiana, i malati, ma soprattutto i ragazzi e i giovani. Essi sono i primi da coinvolgere nella preghiera vocazio­nale, perché la preghiera è esattamente il luogo in cui io comincio a creare “campo”, a connettermi con il Signore, a mettermi in gioco, senza aver paura di mettergli davanti le mie paure e resistenze.

c. Il coraggio della proposta vocazionale personale e gli itinerari di accompagnamento

Il CDV deve cercare di fare crescere nelle nostre Chiese partico­lari iniziative capaci di segnare tutte le tappe del cammino cristiano  – la Cresima, la Prima Comunione, la Professione di fede, i diciot­tenni, l’ingresso nel tempo delle scelte di vita – mettendone in luce la connotazione vocazionale specifica. Forse si può trovare qui uno degli apporti più decisivi per promuovere una cultura vocazionale.

Si tratta poi di avviare itinerari di accompagnamento, cui unire con coraggio la proposta vocazionale personale. Tale proposta, fatta al momento giusto e nel modo giusto, non costituisce una forzatu­ra, ma un invito, in cui è presa sul serio la libertà della persona. Una proposta personale che aiuta a uscire dall’astratto e dal generico nella ricerca della propria vocazione e costringe a verificare nei fatti la propria disponibilità davanti al Signore e alla sua chiamata, in modo che emergano desideri e resistenze, consolazioni e paure, su cui fare discernimento.

d. L’urgenza di formare guide spirituali

Un quarto cerchio concentrico è quello del lavoro per formare guide spirituali, a cominciare dai collaboratori del CDV. Abbiamo tutti bisogno di iniziative formative specifiche: non bastano la buo­na volontà e l’esperienza del proprio cammino personale. Si tratta di coinvolgere in queste iniziative anche gli educatori dei gruppi ado­lescenti e giovani, i catechisti delle parrocchie, che tendono spesso a rimuovere il discorso vocazionale o a trattarlo con imbarazzo e in maniera inadeguata. È chiaro che la prima scommessa è che essi stessi si pongano personalmente la domanda vocazionale e che nel loro stesso servizio educativo si colgano in gioco “vocazionalmente” nei confronti di quanti affiancano come educatori.

 

  1. Il “Vangelo della vocazione”, nella spiritualità e nei compiti educativi del direttore CDV

3.1 Premessa: Vocazione come chiave di volta dell’archi­tettura e grammatica della fede

La multiforme azione pastorale che il direttore CDV è chiamato a promuovere ha senso e trova il suo fondamento nella consapevo­lezza che la vocazione non è un problema, ma una “buona notizia”, anzi, la chiave di volta della “architettura” e della “grammatica” della fede. In fondo è solo in Cristo che ogni uomo si scopre preso sul serio, cercato, voluto, desiderato da sempre con una identità e un compito unico. In Cristo ogni uomo riceve questa rivelazione decisiva ed esaltante e sempre in Cristo gli è aperta la via per realiz­zarla pienamente.

 

3.2 La vita non è né destino né caso, ma vocazione

Innanzitutto occorre chiarire quali conseguenze comporti vivere la vita come vocazione e non come caso o destino. Se fosse “desti­no” la nostra libertà sarebbe annientata, perché la nostra vita sa­rebbe solo una piccola rotellina in un ingranaggio. Se fosse “caso”, la nostra libertà sarebbe un esercizio vuoto, perché la vita stessa sarebbe svuotata di senso. Se la vita, invece, è “vocazione”, allora significa che è dentro un disegno, immersa in un mistero di grazia che mi attende, mi interpella e di fronte al quale la mia libertà, pur limitata, è presa sul serio e posso mettermi in gioco. Questa consa­pevolezza offre all’annuncio della vocazione una prospettiva e un linguaggio che liberano da quel falso pudore e da quei complessi con cui l’argomento viene spesso trattato.

 

3.3 Il SÌ di Dio all’uomo e la rivoluzione pasquale

Al Convegno di Verona del 2006 Benedetto XVI sottolineò come la “multiforme testimonianza” della Chiesa debba far «emergere so­prattutto quel grande “sì” che in Gesù Cristo Dio ha detto all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza».

In questo orizzonte il “sì” vocazionale non nasce dal perpetuarsi dell’atteggiamento del “bravo bambino”, né da slanci di eroismo velleitario, ma dal comprendere che la speranza dell’umanità esiste in virtù di un grande sì, quello di Dio in Cristo, che può fondare il mio sì, perché insieme lo suscita e lo rende possibile.

Questo sì di Dio all’uomo è sigillato nella Pasqua di Gesù, defini­ta da Benedetto XVI – sempre a Verona – «la più grande “mutazio­ne” mai accaduta, il “salto” decisivo verso una dimensione di vita profondamente nuova». Gesù, che è la vocazione con cui Dio ci interpella, nella sua Pasqua ci rivela quanto sia gratuito e smisurato l’amore divino, realizzando il pieno sì dell’uomo e rivelandone la direzione sicura.

Nella sua Pasqua Gesù testimonia un legame con il Padre così forte, che può consegnarsi anche alla morte, rivelando l’assolutez­za e unicità del suo legame col Padre, il suo essere Figlio di Dio. È talmente Figlio, talmente certo che la sua vita è nelle sue mani, che non indietreggia nemmeno di fronte alla morte. Siamo qui di fronte a una vera rivoluzione: la “rivoluzione pasquale”.

 

3.4 Vite rivoluzionate e trasgressive alla sequela di Gesù

Il cristiano è uno che, grazie a Cristo, non vive più sotto il ricatto della morte (vedi Eb 2,14-15) e del suo “mantra”: “salva te stesso” (vedi il racconto della passione in Lc 23,35-37). La sua vita non è più “sotto ricatto”, al punto che è una vita che ha “la morte alle spalle”. Questa è la rivoluzione pasquale.

Quando l’Apostolo scrive: «Mediante il battesimo voi siete risorti insieme con Cristo» (Col 2,12; cf Ef 2,6), non è in preda a un’esalta­zione retorica, ma dice una grande verità. Il germe della risurrezio­ne è talmente dentro di noi, che ci è reso possibile qualcosa che non è a misura delle nostre forze. Naturalmente sempre a condizione che si viva costantemente in comunione con Colui che ha vinto la morte.

Un cristiano ha la morte alle spalle, non perché si illude che gli sia biologicamente risparmiata, o perché si presume esentato dalla sofferenza e dalla sensazione del distacco, ma ha “la morte alle spal­le” in quanto annientamento, capolinea angosciante, che reclama che tutti i conti tornino in questa vita.

Ecco perché la vita di un cristiano è una vita “trasgressiva”: non perché il cristiano si abbandoni al libertinaggio più sfrenato, ma perché mette radicalmente in discussione il postulato fondamentale su cui è costruita la mentalità di questo mondo, cioè che tutto fini­sca con la morte e pertanto conti solo la vita quaggiù.

Questa consapevolezza illumina in maniera straordinaria la pe­dagogia vocazionale. Il cristiano, infatti, sa che può mettersi in gio­co fino in fondo e per sempre, senza vivere continuamente come uno che – per paura di perdere chissà quale opportunità – non de­cide mai niente. Le scelte evangeliche trasgressive – come la condi­visione dell’umiltà, povertà, castità, obbedienza di Cristo e del suo amore per i nemici – non sono le cifre di una vita volontariamente mortificata nella speranza di guadagnarsi qualche merito per l’al­dilà, ma i frutti di una vita riscattata, cioè liberata dal ricatto della morte.

 

3.5 La sinfonia ecclesiale del “Sì”

Qui il CDV ha davanti a sé una grande scommessa: essere segno di una grande coralità vocazionale. Tutti siamo convinti che non possiamo operare come responsabili del CDV o animatori vocazio­nali senza essere innamorati della nostra vocazione. Questa con­vinzione va integrata con un’altra: il riconoscimento della bellezza, necessaria e non surrogabile, della vocazione degli altri.

Chi ci incontra deve riscontare in noi entrambe queste convin­zioni, e non in maniera retorica e quindi senza effetti nella realtà. Vivo la mia vocazione come qualcosa di nuovo ogni giorno e so vedere e valorizzare, ringraziando Dio, i riflessi di Vangelo e santità che risplendono nelle diverse forme di testimonianza evangelica, sia che si tratti di altri stati di vita, che di forme carismatiche diverse della medesima vocazione autenticate dalla Chiesa.