N.03
Maggio/ Giugno 2011
Studi /

Dio educa il suo popolo

Dio educatore? Bisogna riconoscere che fra tutti i modi per parlare dell’azione di Dio verso il suo popolo e verso la creazione, quello di educatore trova tutti un po’ impreparati. Non si sente quasi mai riferirsi all’azione educativa di Dio; si può azzardare che il ruolo di educatore o di pedagogo era nell’antichità molto importante, ma tipico del servitore che educava i figli del padrone.

Anche in tempi non molto lontani la figura dell’istitutore faceva riferimento a un ruolo servile. Bisogna poi mettere in conto il fatto che il ruolo dell’educatore è provvisorio, esterno, tanto che Paolo, per descrivere la sua relazione profonda con i Corinzi, scrive: «Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri: sono io che vi ho generato in Cristo Gesù mediante il Vangelo» (1Cor 4,15). Nelle parole dell’apostolo si fa riferimento a persone incaricate di trasmettere qualche elemento di sapienza cristiana, niente a che fare con il coinvolgimento profondo dell’apostolo.

Ci sono poi altre accezioni del termine educare che fanno problema ad alcuni, come l’etimologia che rimanda all’azione di tirar fuori da una persona quello che già ha dentro. Effettivamente l’azione di Dio si pone come creativa e San Paolo, quando parla dei cristiani, parla di creature nuove e non di persone meglio educate. Si deve dare peso a tutte le considerazioni, però alcune di queste obiezioni appaiono un po’ speciose, abbastanza accademiche; educare è, infatti, molto di più di quello che l’etimologia delle parole dice: è mettersi in relazione con un altro, desiderare che l’altro riesca nella vita, volere il suo bene. Oltre tutto, ogni termine che si usa per parlare di Dio è analogico e, di conseguenza, insufficiente. Senza queste avvertenze non si potrebbe dire nulla di Dio, dei suoi sentimenti e dei suoi pensieri.

In ogni caso tutte queste considerazioni e riserve, forse, scoraggiano l’uso di riferirsi a Dio come ad un pedagogo, ad un educatore. La Bibbia però parla di Dio che educa il suo popolo. Nel libro dei Proverbi, ad esempio, fra chi educa c’è Dio, che spiega al contadino il suo lavoro (Is 8,26), insegna al profeta il modo per non lasciarsi mettere fuori strada dall’evidenza delle cose (Is 8,11). Nel Salmo 94 Dio è descritto come chi istruisce popoli e individui. L’insegnamento di Dio è efficace, afferma il Salmo 16,7: «Benedico il Signore che mi ha dato consiglio; anche di notte il mio animo m’istruisce»1.

Il termine che si traduce in italiano con le parole “spiegare” o “istruire”, nella Bibbia LXX, nei casi citati, è paideuein. La paideia di Dio è sperimentata dal popolo in momenti diversi, il più rilevante dei quali è il Sinai, dove accade un evento straordinario per cui, da non popolo, un gruppo di persone diventa popolo. Si apprezza, nel passaggio da una condizione all’altra, un aspetto particolare dell’educazione di Dio, che non consiste in una serie di raccomandazioni che possono essere inutili, ma in un’azione che produce un effetto importante e, nel caso del popolo nel deserto, inatteso, quasi una nuova creazione.

Il libro del Deuteronomio descrive la Legge come un’istruzione ricevuta dal cielo, il momento in cui il dono della Legge crea questa nuova situazione.

Nel libro dei Proverbi, dove si riflette molto sul dovere dell’insegnamento, si mette in guardia dall’educazione fatta di parole, perché difficilmente produrrà un effetto importante nella vita della persona cui è rivolto. Si conferma che la vera educazione, di cui Dio è protagonista, è capace di creare una condizione nuova, oltre le attese.

Nel brano del Deuteronomio 4,36-40 in cui si fa riferimento all’educazione di Dio, si leggono espressioni che sono utili per comprendere ancora meglio la natura di questa educazione:

 

«Dal cielo ti ha fatto udire la sua voce per educarti; sulla terra ti ha mostrato il suo grande fuoco e tu hai udito le sue parole che venivano dal fuoco. Poiché ha amato i tuoi padri, ha scelto la loro discendenza dopo di loro e ti ha fatto uscire dall’Egitto con la sua presenza e con la sua grande potenza, scacciando dinanzi a te nazioni più grandi e più potenti di te, facendoti entrare nella loro terra e dandotene il possesso, com’è oggi. Sappi dunque oggi e medita bene nel tuo cuore che il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra: non ve n’è altro. Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandi che oggi ti do, perché sia felice tu e i tuoi figli dopo di te e perché tu resti a lungo nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà per sempre».

 

La prima osservazione che il lettore è aiutato a fare è che tutte le cose sono dette per amore: Dio fa udire la sua voce al popolo perché lo ama e il popolo può fidarsi dei comandamenti del Signore perché ha già fatto esperienza della sua azione positiva nei suoi confronti.

L’altro aspetto che è messo in gioco è la gioia, tutte le leggi e i comandamenti sono affidati al popolo perché sia felice. Volendo descrivere l’azione educativa di Dio, essa si presenta come un atto capace di produrre un duplice passaggio, uno sociologico, da non popolo a popolo, uno psicologico, o meglio, spirituale, da popolo a popolo felice. In un altro passo il Deuteronomio conferma la lettura dell’azione di Dio per il popolo come educativa. Si legge, infatti, in Dt 32,10.12: «Egli lo trovò in una terra deserta, in una landa di ululati solitari. Lo circondò, lo allevò, lo custodì come la pupilla del suo occhio. Come un’aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali. Il Signore, lui solo lo ha guidato, non c’era con lui alcun dio straniero».

 

Un brano molto bello anche dal punto di vista letterario, in cui la bellezza dell’immagine contribuisce all’interpretazione: si descrive infatti l’educazione nel suo realizzarsi, il lettore vede concretamente Dio che trova il suo popolo in una condizione molto misera e se ne prende cura. Dio è un educatore che non si scoraggia di fronte alla condizione dell’altro, per quanto possa essere problematica. È come se non si trovassero parole sufficienti per dire l’amore che Dio mette in campo per prendersi cura del suo popolo e quasi si esagera.

I primi due verbi, circondare e allevare, esprimono rispettivamente due tipi di attenzione: il primo verbo, infatti, fa pensare all’affetto che si realizza nell’abbraccio, segno di amore e di protezione, di consolazione e di coraggio; il secondo verbo si riferisce al nutrimento, alla cura che si deve avere perché un bambino cresca, stia bene, viva. L’immagine successiva serve a dire ancora meglio come ci sia un coinvolgimento competo, il popolo è per Dio come la pupilla dell’occhio. Non c’è bisogno di spiegare questa espressione che è entrata in tutte le lingue. Come se non bastasse, si ricorre all’immagine dell’aquila che veglia sulla sua nidiata, che vola e che, soprattutto, insegna a volare. È proprio questa sovrabbondanza di verbi e di immagini che rende questo brano pieno di poesia e capace di destare nel lettore la sensazione di essere protetto da Dio e che questa protezione gli consente di vivere sicuro.

Commentando queste parole nella Lettera pastorale Dio educa il suo popolo, rivolta alla diocesi di Milano, il Cardinal Martini afferma che questo passo non è isolato, ma esprime una persuasione costante della Scrittura. È Dio il grande educatore del suo popolo. Il castigo più terribile che potrebbe colpire gli uomini della Bibbia non sarebbe quello di punizioni particolari, ma di sentirsi abbandonati da questa guida amorevole, sapiente, instancabile2.

Il libro di Ezechiele al capitolo 16 descrive con parole anche più dure la condizione di partenza di Gerusalemme prima dell’incontro con il Signore: «Occhio pietoso non si volse verso di te per farti una sola di queste cose e non ebbe compassione nei tuoi confronti, ma come oggetto ripugnante, il giorno della tua nascita, fosti gettata via in piena campagna. Passai vicino a te, ti vidi mentre ti dibattevi nel sangue».

Le parole del profeta Ezechiele, riferendosi a Gerusalemme come ad una bambina di cui prendersi cura, sono quelle che meglio possono essere riferite all’azione educativa di Dio, che si realizza non in una cura momentanea e distratta, ma in un’attenzione seria e profonda, descritta dal testo biblico con una serie di verbi e immagini, che hanno l’intenzione evidente di trasmettere al lettore non solo il pensiero dell’educare, ma anche la passione e la gioia di farlo.

Per comprendere la consapevolezza che il popolo ha di questa presenza, basterà attingere ai Salmi, dove, come si sa, la coscienza della propria condizione diventa preghiera, ed è lì che si leggonoparole con le quali la persona che prega esprime la consapevolezza della presenza attenta di Dio: «Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerò alcun male» (Sal 23); «Tu mi scruti e mi conosci. Nemmeno le tenebre per te sono tenebre, la notte è luminosa come il giorno; per te le tenebre sono come luce» (Sal 138).

Una relazione così intensa che, scorrendo le pagine della Scrittura, è descritta con immagini di grande impatto come quelle che fanno riferimento all’amore fra due sposi, richiede una corrispondenza.

Si può affermare che l’amore di Dio per il suo popolo non è un amore cieco: se lo fosse, non potrebbe essere indicativo di una relazione educativa.

Educare è anche correggere: nel libro del Deuteronomio, al capitolo 21, si parla del compito della correzione che i genitori devono esercitare nei confronti dei figli, anche se questo dovesse risultare molto doloroso per chi corregge. La correzione è la cura che continua anche nel fallimento, ricordando che la vera tragedia sarebbe l’abbandono. Nella vocazione di Geremia si parla proprio di questo quando il profeta manifesta il suo timore di fronte alla chiamata ricevuta: «Non aver paura di fronte a loro, perché io sono con te per proteggerti. Oracolo del Signore» (Ger 1,8); e ancora: «Tu, dunque, stringi la veste ai fianchi, alzati e di’ loro tutto ciò che ti ordinerò; non spaventarti di fronte a loro, altrimenti sarò io a farti paura davanti a loro» (Ger 1,17).

Il Signore chiede a Geremia di non aver paura per non essere abbandonato alla sua paura: se la colpa di Geremia sarà di non fidarsi della presenza di Dio nella sua missione, la correzione sarà fargli sperimentare le conseguenze della sfiducia e della mancanza di coraggio.

Spesso, anche se non sempre, proprio come nella storia di Geremia, che culmina nella distruzione di Gerusalemme e nell’esilio, la correzione è più minaccia che realtà, sempre però essa ha una funzione positiva nella relazione fra Dio e il suo popolo; è proposta per ristabilire una condizione positiva e non si riduce mai in devastazione. Tutto questo risulta essere un tema dominante nella letteratura dell’alleanza. Un esempio per tutti può essere il famoso brano del profeta Osea, che al capitolo secondo descrive il popolo come una moglie che ha tradito suo marito. In questo capitolo c’è un vero processo educativo che vede il passaggio dalla minaccia della punizione e dell’abbandono alla decisione di non lasciarsi dominare dalla delusione e di riportare il popolo, simboleggiato dalla moglie infedele, al momento del deserto, quello dell’amore vero, delle motivazioni forti, così da insegnare, di nuovo, ad amare.

La correzione è sempre mitigata dal giudizio di Dio e dalla sua volontà di bene. Il popolo sperimenta nelle vicende della sua esistenza la correzione di Dio, imparando a leggere profondamente gli avvenimenti storici come conseguenze delle scelte di fedeltà o infedeltà. Soprattutto l’esilio, ma prima ancora la rilettura del lungo tempo passato nel deserto, sono avvenimenti letti alla luce della relazione con Dio e della scelta di far pesare o no la sua presenza nelle decisioni che devono essere prese. Dio è un educatore saggio per il suo popolo perché non fa mancare la sua parola: in questo senso tutta l’azione dei profeti si può leggere come educativa, ma non limita la libertà di scegliere e di vivere le conseguenze delle proprie scelte. Così si può leggere la storia di Israele come una continua tensione fra il desiderio di obbedire a Dio, oppure lasciarsi guidare da altre considerazioni politiche e militari che sembrano migliori. Le scelte dettate dall’autosufficienza e dal desiderio di affrancarsi da Dio sono segno della libertà del popolo e le conseguenze spesso dolorose diventano un’occasione per riflettere e per desiderare di ricominciare. Soprattutto nel periodo dell’esilio appare che Dio non è contento delle conseguenze negative delle scelte poco sagge dei governanti del suo popolo, ma non si ritira deluso, anzi, è presente con la parola dei profeti per incoraggiare e far nascere il desiderio del ritorno alla terra. In questo senso uno dei modi che Dio ha di educare è quello di prospettare un futuro spesso inimmaginabile per chi si trova in condizione di grande difficoltà. Si pensi alla visione del profeta Ezechiele, che vede le ossa rivivere, o alle meravigliose visioni di Isaia, che descrive Gerusalemme come una madre desolata per l’esilio dei figli, che, finalmente, li vede tornare e risalire dalla valle e si meraviglia non solo perché ritornano, ma perché sono più di quelli che sono partiti e provengono da tutto il mondo e da tutti i popoli.

Quello che accade è più di quello che si potrebbe attendere. Educare è proprio fare qualcosa di più che restaurare condizioni esistenti, è piuttosto mostrare altri orizzonti. Educare è permettere che qualcosa di nuovo nasca nelle persone. È il desiderio grande di Dio che si esprime nelle parole: egli, prendendo atto delle difficoltà del cammino del popolo, si impegna a contrastare la desolazione e la delusione promettendo un cuore nuovo e uno spirito nuovo (Ez 11,19). È soprattutto con Gesù che Dio porta il suo popolo oltre le prospettive e le attese.

La constatazione che si sente fare di fronte all’insegnamento di Gesù è che esso è nuovo e offerto con autorità. Lo stupore che coglie quelli che lo ascoltano e lo vedono agire è già consapevolezza che qualcosa di straordinario avviene nella relazione fra Dio e il suo popolo: «Erano stupiti del suo insegnamento perché la sua parola aveva autorità. Tutti furono presi da timore e si dicevano l’un l’altro: Che parola è mai questa, che comanda con autorità e potenza agli spiriti impuri ed essi se ne vanno?» (Lc 4,32.36; Mc 1,22; Mc 1,27). Non è certamente la novità di parole dette con maggiore carisma, ma quella che nasce dalla consapevolezza della potenza di quelle parole che Gesù pronuncia e che sono capaci di creare situazioni nuove e di guarire chi le ascolta. La capacità di produrre passaggi di vita è tipica dell’azione di un educatore efficace.

I Vangeli offrono una numerosa serie di esempi nei quali si mostra come chi accosta Gesù porta la sua vita, spesso paralizzata, cieca, abbandonata in un angolo di strada e lontana da Dio e dal prossimo, e Gesù la rimette in moto non solo rimuovendo il problema, ma anche aprendo prospettive completamente nuove a chi si affida a lui. E così il cieco di Gerico è chiamato a diventare discepolo, il peccatore a non peccare più, la prostituta è lodata per la sua fede, e così via, fino al ladrone sulla croce che è educato a chiedere la cosa giusta al maestro crocifisso, di stare con lui, nel suo regno. Sono orizzonti completamente altri da quelli che ci si potrebbe aspettare e non solo per alcune categorie di persone, ma per tutti.

I discepoli sono continuamente educati da Gesù a diventare tali e si insiste molto nei Vangeli sul tempo che Gesù passa con loro per spiegare, correggere, aiutare a interpretare anche i loro fallimenti.

Esemplare è il momento in cui tornano sconsolati da una missione nella quale non sono riusciti a scacciare alcuni demoni e Gesù li fa riflettere sul fatto che nella loro azione mancava qualcosa (Mc 9,19): la preghiera. Un dialogo che conosce anche lo scontro, il rimprovero, il fallimento. I discepoli e, tramite loro, il popolo di Dio, sono chiamati alla novità, ricevono nomi nuovi, si chiede loro di giudicare le cose in modo diverso da come erano abituati a fare. I momenti nei quali sono invitati a superare lo spazio del loro giudizio sono molti, devono imparare a pensare che il più grande è il più piccolo e che il vero potere è il servizio; devono imparare a superare le rivalità fra loro, ma anche con quelli che, a loro parere, non c’entrano niente con Gesù: l’esorcista infiltrato o anche i bambini che fanno confusione e impediscono un insegnamento ordinato e silenzioso. È soprattutto importante la fatica di Gesù perché comprendano la vera natura del regno di Dio, le condizioni per farne parte, la sua presenza nel mondo.

Se si dovesse indicare il genere letterario dell’educare, si dovrebbe senz’altro segnalare quello delle parabole, proprio perché in esse si stabilisce un dialogo nel quale l’ascoltatore entra come protagonista, è chiamato a dare un giudizio sul suo modo di pensare, a metterlo in discussione e a cambiarlo. Se si legge la parabola del buon samaritano, ad esempio, tutto il sistema di valori sociali, religiosi e culturali è messo in discussione e chi la legge è chiamato a partecipare di questa rivoluzione e a cambiare i propri punti di riferimento.

La parabola è educativa perché mette in gioco la capacità di giudizio, i valori di una persona e punta sulla possibilità che uno possa cambiare.

Gli stessi Farisei, che sono dipinti in modo non favorevole nei Vangeli, sono oggetto della cura di Gesù, che per loro pone dei segni, come mangiare e bere con i peccatori, perdonare i peccati, agire in giorno di sabato, mettere in discussione le loro decisioni. Non sono delle provocazioni perché Gesù vuole che loro comprendano, spiega i suoi comportamenti, li mostra coerenti con la fede. Gesù parla molto con questi suoi avversari e se lo fa è per aiutarli a cambiare il loro modo di pensare e di giudicare. Non sempre quest’azione è fallimentare, appaiono qua e là degli accenni che l’opera di Gesù fa breccia.

È soprattutto Nicodemo (Gv 3), che rappresenta quelli che sono più sinceramente aperti all’azione di Dio, a rendere evidente, in un dialogo attento, sincero, condito anche da ironia, da entrambi le parti, a mostrare come Dio vuole che il suo popolo cresca. Nicodemo, nella notte raccontata da Giovanni, è spinto a desiderare e a credere alla novità. È sollecitato a uscire dal suo mondo religioso rigido e senza prospettiva e ad aprirsi all’azione dello Spirito. Anche i lontani dalla fede di Israele sono oggetto dell’azione educativa di Gesù e così la samaritana è aiutata a vedere diversamente il rapporto con Dio, a non ridurlo a una questione storica e geografica, ma a farlo vivere dentro di sé. I lontani dalla fede, come potrebbero essere i Romani, trovano in Gesù uno che si interessa di loro, delle loro necessità, ma soprattutto della loro fede, che è cercata e apprezzata: è il caso del centurione romano che vede guarire il suo servo, ma, forse, anche dello stesso Pilato, con cui Gesù parla e a cui offre la possibilità di essere una persona nuova, meno condizionata da calcoli politici e interessi. Il soldato, che confessa che Gesù è il Figlio di Dio vedendolo morire in quella maniera, non è un elemento inatteso, ma il primo frutto di Cristo che educa dalla croce.

La croce è quanto di più difficile i discepoli di Gesù devono accettare e fanno molta difficoltà a capirla. Il maestro è impegnato con loro perché la comprendano e la accolgano. Tutti i Vangeli, in modo particolare quello di Marco, nella seconda parte, si possono leggere come una catechesi sulla croce. Dopo la risurrezione, tutte le apparizioni del Risorto lo vedono occupato a far comprendere gli eventi. La più famosa di tutte è l’apparizione ai discepoli di Emmaus, situazione che fa pensare a una vera scuola. Uno scrittore, in un suo romanzo che ha come titolo Emmaus3, descrive questa scena bellissima, indicandone il fascino nella condizione di Gesù che non solo cammina con questi discepoli, ma ne condivide lo smarrimento e sembra, attraverso la lettura delle Scritture, che lui stesso cerchi con loro il filo degli avvenimenti e il senso delle cose. L’episodio dell’apparizione a Tommaso è un altro esempio dell’azione educativa di Gesù, che non si rifiuta di spiegare, di provare, di prendere sul serio il dubbio di Tommaso per indicare che cosa è veramente credere.

Quando si discute se Gesù sia stato un educatore, bisognerebbe ricordarsi dell’evangelista Matteo, che costruisce il suo Vangelo su cinque discorsi che hanno lo scopo di spiegare che cosa sia il regno di Dio, la sua presenza spesso impercettibile, la sua realizzazione nella comunità, le sue prospettive. Gesù è il maestro che guida i suoi discepoli a interpretare quello che vivono, a vedere oltre le apparenze, ad aprirsi al futuro e, soprattutto, a superare il limite della loro educazione giudaica, che non permetteva di immaginare un tale sviluppo nella storia della salvezza. Il Vangelo di Luca da molti è definito il Vangelo del discepolo, perché in esso si può vedere una guida a diventare discepoli. Il lettore, fin dal prologo, viene educato alla fiducia, alla ricerca attenta, coinvolto in un cammino che lo mette alla sequela di Cristo.

Durante il viaggio il discepolo è educato alla gioia, alla preghiera, alla considerazione del tempo come tempo di salvezza. Il discepolo impara ad affrontare le situazioni: la scena del capitolo 22 di Luca, in cui Gesù porta i discepoli con sé nell’orto degli ulivi, chiedendo di vegliare e pregare, è una lezione di come affrontare anche le condizioni buie della vita e le ingiustizie; immediatamente dopo la cattura, Gesù si impegna a spiegare, dopo il colpo di spada inferto al servo del sommo sacerdote, che i suoi discepoli non devono credere nella violenza. Senza esagerare si può dire che il Vangelo di Luca e gli Atti degli Apostoli possono essere letti con molta ricchezza sotto l’aspetto dell’azione educativa di Dio nei confronti del suo popolo.

La fine del Vangelo e l’inizio del libro degli Atti, nella narrazione dell’Ascensione, mostrano Gesù che organizza la comunità dei suoi, la istruisce sugli avvenimenti, spiega che cosa devono fare e, in Atti 1,8, suggerisce i confini della missione, che non saranno solo Gerusalemme e la Galilea, ma dovranno allargarsi fino ai confini della terra. Nel libro degli Atti si apprezza la fatica di comprendere e di accettare le coordinate che Gesù propone: solo dopo molti segni, molto discernimento, personale e comunitario, riusciranno a com28 prendere che la loro missione doveva essere aperta anche ai pagani

e ai non ebrei in genere.

Questi temi sono molto presenti nella letteratura paolina, dove si apprezza la sofferenza dell’apostolo nel constatare come sia difficile allontanarsi dalla religione tradizionale e aprirsi alla novità di Cristo. Paolo racconta le incomprensioni e le sofferenze, le persecuzioni; educa i suoi cristiani a non lasciarsi intimidire da ragionamenti che sembrano giusti e che li allontanano dalla verità. Paolo educa anche Pietro alla responsabilità verso i fratelli più deboli, rimproverandolo per un suo modo di comportarsi che smentisce le scelte fatte da tutti (Gal 2,1-11). Il nuovo popolo di Dio, la Chiesa che si realizza nelle comunità delle diverse città, è continuamente portato a rileggere la propria fede e a riflettere sui comportamenti che ne devono caratterizzare la novità. Dio appare, nella persona dell’apostolo e nelle sue parole, come chi svezza un bambino per portarlo all’età adulta e continua a realizzare il desiderio di Dio (Lc 13,24 e Mt 23,27): raccogliere i suoi figli, come una chioccia con i suoi pulcini, sotto le ali.

La fatica delle comunità è indice dell’azione educativa di Dio che spinge oltre confini solidi e condivisi, come la Legge per il popolo ebraico, verso prospettive di novità.

Una pagina molto bella, in questo senso, è l’inno della Lettera agli Efesini, quando Paolo invita i cristiani di Efeso a riflettere sull’opera di Gesù (Ef 1) e sulla loro identità. Al v. 9 descrive l’azione di Dio: «Ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà, secondo la benevolenza che in lui si era proposto». In queste parole, attraverso la categoria del mistero, suggerisce che quello della salvezza è un disegno che si rivela nella storia, una realtà che si comprende vivendo.

La categoria del mistero è quella che più di tutte serve a educare il popolo di Dio alla fiducia nel futuro, convinti che il disegno di Dio è buono. Dalla fiducia nasce il coraggio e questi due sentimenti sono quelli che servono per vivere. A questo disegno, e per questo si può parlare di educazione, l’uomo collabora, non è solo un destinatario, ma contribuisce con la sua intelligenza e la sua passione. Dio educa il suo popolo rassicurandolo con la sua presenza, educandolo alla fiducia e al coraggio che nasce in chi non deve temere nemmeno la morte.

È evidente che il tema che si è cercato di affrontare potrebbe essere oggetto di molte e più profonde riflessioni; c’è una suggestione, però, che potrà essere conclusiva ed è quella del fine dell’educazione. Ogni educatore vuole perseguire qualcosa, porta dentro di sé un sogno che ne determina la credibilità e la bontà.

Il sogno di Dio educatore è quello che appare nelle ultime pagine della Bibbia, nel libro dell’Apocalisse, scritto per educare la Chiesa a vivere nel tempo, senza paura e con fiducia. L’ultima immagine è quella della Chiesa sposa che interpreta la sua storia come una donna che si fa bella per il giorno del matrimonio. Le parole sulla bocca di questa sposa sono preghiera e invocazione perché si realizzi l’incontro con il Signore Gesù. Un’umanità che pian piano si libera dalle sue rughe di dolore, dal cuore vuoto, dall’orizzonte della solitudine e che sente il cuore pieno d’amore per chi l’ha pensata e voluta come una sposa bella.