N.04
Luglio/Agosto 2011
Studi /

La voce dei genitori nel discernimento vocazionale dei figli

Intervento di Gilberto GILLINI

Vorrei dare per scontata un’affermazione che a me parrebbe ovvia: dal punto di vista psicologico, la fatica dello svincolo dalla propria famiglia d’origine da parte del giovane che coltiva una vocazione non è molto diversa da quella del giovane che decide di sposarsi.

Questo dice anche già con quale parallelismo tra i seminaristi e i fidanzati vorrei affrontare, in questa introduzione, il commento di tre affermazioni che ritengo fondamentali.

1) Prima affermazione: quando i figli arrivano ad un discernimento vocazionale come ipotesi prossima di lavoro, i genitori, di qualunque vocazioni si tratti, non solo hanno già fatto la loro parte, ma possono anche dirsi di averla svolta con sapienza e quindi devono congratularsi reciprocamente.

Parlo di ipotesi prossima di lavoro intendendo distinguere le “morosette” dalla donna che il giovane sposa (anche se magari mami aveva nel suo cuore festeggiato il suo fidanzamento con una di loro per uno dei tanti motivi spuri che colpiscono la mente e il cuore di noi genitori, quando ci mettiamo a sognare la vita di nostro figlio… al posto suo). Ma intendo anche distinguere la scelta vocazionale matura da una delle tante “infatuazioni mistiche” che può passare il giovane.

A volte, non dimentichiamolo, questi innamoramenti/infatuazioni (dell’uno e dell’altro tipo) possono essere molto più “dipendenti” dalla famiglia di origine di quanto lo stesso giovane sospetti:

-sto pensando a giovani che, davanti al disastro della loro famiglia d’origine, non hanno più nessuna voglia di farsene una propria e che al massimo “convivono” nella timida speranza di fare meno danni;

-sto pensando a giovani che, per una malintesa fedeltà al dolore che hanno sentito nel matrimonio del papà e della mamma, si incamminano in una strada di consacrazione nella speranza di tenersi lontano dal baratro e non avendo chiaro quanto poco questa strada sia segnata dalla fedeltà a Dio;

-sto pensando a giovani che si sono messi accanitamente a voler “riformare” il vecchio sistema familiare, in maniera tale da non aver più tempo per sognare il proprio futuro sistema;

– o, ancora, sto pensando a giovani che si mettono a disegnare un proprio futuro sistema in funzione rigidamente oppositiva allo stile delle loro famiglie d’origine, dichiarando (in modo pericoloso, secondo quanto afferma V. Cigoli) di non avere nessuna eredità buona da portare con sé.

Un figlio non rientra in uno di questi casi? Bene, allora i genitori devono cominciare ad esserne contenti e a congratularsi reciprocamente perché, nonostante gli errori, hanno contribuito positivamente alla crescita del figlio. Sono evidentemente all’interno di una famiglia che ha riconosciuto e svolto il proprio compito vocazionale, come dirà mia moglie (cf intervento successivo, ndr). Seguendo l’immagine dello psicologo canadese Ausubel2, potremmo anche dire che il figlio sta concludendo la fase della desatellizzazione: cioè è passato dal bambino, che è immaginato come un satellite attorno ai genitori, all’adolescente che per prove ed errori ha cercato di svincolarsi dalla famiglia d’origine e ora sta, a sua volta, al centro di un nuovo sistema solare; significa che il figlio, ormai adulto, ha ricapitolato in sé sia il suo essere simile ai genitori, sia quella fiducia in se stesso che lo fa pensare di poter divenire a sua volta genitore – nella carne o nella fede – pur non essendolo ancora.

Non ci sfugga che questo compito di crescita inizialmente viene svolto per contrasto: fa parte del bagaglio del “normale” figlio adolescente sognare la sua vita da adulto in modo, almeno in parte, innovativo rispetto alla sua famiglia d’origine.

In altri termini, i genitori hanno aiutato non solo il bambino con le loro cure e hanno aiutato l’adolescente e il giovane sopportando le sue ricerche disordinate, ma possiamo dire che l’hanno aiutato anche per contrasto e perfino con i propri errori: sappiamo tutti quanta fede e impegno vocazionale cristiano possano indurre genitori atei! Sappiamo tutti quante volte la sorda opposizione ad un matrimonio produca un rafforzamento dell’amore tra Giulietta e Romeo! E lo stesso capita nel versante vocazionale in senso stretto; se pensiamo alle figure di don Primo Mazzolari o don Lorenzo Milani o don Tonino Bello, capiamo subito che anche una madre chiesa assonnata può – appunto per contrasto – far maturare nel suo seno vocazioni di enorme portata!

Vogliamo cioè sottolineare che anche il contrasto adolescenziale è un atteggiamento estremamente funzionale alla crescita del ragazzo (e non semplicemente doloroso!), soprattutto se la società vuol progredire e sottrarsi all’eterno ritorno, se vuole ospitare qualche sogno divergente. Ma è anche funzionale a perfezionare l’alleanza coniugale davanti al ciclone adolescenza e… grazie ad esso.

2) Seconda affermazione: i genitori sono “naturalmente” spinti a continuare la loro opera educativa per tutta la vita del figlio, ma questa opera che spesso farebbero tanto volentieri, da quando il figlio diventa adulto in senso proprio e pieno, si chiama “intrusione nella vita” del figlio; ed è esattamente ciò che non debbono fare.

Prendiamo atto di una controtendenza della famiglia a viverel’adolescenza del figlio: sociologicamente alla massa delle famiglie italiane essa si è manifestata solo alla fine del secolo, quando molti genitori si sono attrezzati a darsi la patente di “bravi” genitori, evitando ad ogni costo i traumi dello svincolo e il transito all’adultità  (oppure, molto peggio, quando ciascun genitore ha provato a darsi la patente di “genitore di serie A” a scapito dell’altro che è stato marginalizzato).

A tali genitori corrispondono dei figli che assomigliano più a bambini emancipati che ad adulti in erba. I figli raggiungono molto presto la convinzione di aver già raggiunto l’adultità quando invece non ne vivono che il mimo e i genitori credono di essere già arrivati ad essere su un piano di uguaglianza con i figli quando la scelta vocazionale di questi ultimi deve ancora cominciare (al massimo ci sono, dicevamo sopra, ipotesi vocazionali che non costiuiscono però necessariamente un preludio alla decisione vocazionale).

La collusione genitori/figli in questi casi è tale per cui entrambi cercano di dimenticare quanto sia vitale la dipendenza economica e affettiva che li lega: il ragazzo si crede grande perché può guidare la macchina grossa di papà, ma… non guadagna nemmeno i soldi per la benzina; oppure crede di essere uscito di casa perché dorme da solo in un appartamento… di proprietà del papà e pulito dalla mamma. Quando per caso questa dipendenza affiora, le due parti la mistificano: i genitori si dichiarano volentieri amici del proprio figlio e si pensano fortunati perché «senza essere quasi passati per le difficoltà dell’adolescenza» hanno un figlio «già così maturo!»; il figlio, da parte sua, si narra la sua dipendenza come un atto di riconoscenza dovuta ai propri genitori che, a differenza del genitore della tradizione, «sono tanto comprensivi!».

Gli esempi di fin dove si spinga questa collusione rasentano l’assurdo della commedia degli equivoci. Sul versante della vocazione matrimoniale l’adolescente “classico” si collocava all’interno di una lotta per uno svincolo dalla famiglia d’origine che gli permettesse di farsi una nuova famiglia (lotta quindi per un’autonomia che voleva per sé, per la propria moglie e per i propri figli e in cui, quindi, l’aspetto sessual-affettivo e genitoriale erano indiscutibilmente uniti).

Il nuovo adolescente è invece all’interno di una cultura in cui la divaricazione tra l’aspetto sessual-affettivo e l’aspetto generativo dello sposarsi è diventata tale che gli è difficile tenere contemporaneamente sott’occhio entrambi gli aspetti (mi sto anche chiedendo se non ci sia convergenza tra “convivenza” e “pensiero debole”). Ma i genitori continuano ad interpretare il figlio con gli stilemi che avrebbero applicato a se stessi; ad esempio, la “lotta” per avere più tempo da passare con la ragazza/o sembra loro una lotta per fondare bene la nuova famiglia, mentre per il figlio a volte è la pretesa di tenere il più lontano possibile la formazione della nuova famiglia!

In questo quadro i genitori del giovane saranno spinti dal sistema familiare in corso a continuare ad occuparsi del figlio e a continuare la probabile lunga storia del: «Raccontaci tutto caro!». A cui il giovane si sottrarrà solo in extremis. Voi riuscireste ad immaginare che un giovane si confronti con i genitori sullo stile della relazione sessuale con la sua futura moglie? Allo stesso modo io non penso sia possibile un confronto vocazionale che si spinga molto avanti nel racconto ai genitori perché innamoramento e vocazione sono vissuti e custoditi dal giovane sano come personali e, solo molto tempo dopo, potrà condividerne qualche aspetto “pubblico”. E ciò vale sia per il ministero ordinato sia per il sacramento del matrimonio3 .

3) terza affermazione: se il sistema famiglia d’origine accetta i primi due punti può disporsi ad un terzo passo, in quanto al suo interno matura una sinergia tra il consapevole “lasciar andare” dei genitori e la sperimentazione filiale di uno svincolo dalla famiglia d’origine in vista della propria avventura nella vita. In questo nuovo spazio i genitori possono aiutare il figlio nel suo cammino vocazionale facendogli da specchio.

Se i genitori lasciano da parte il compito impossibile di trattenere o anche di “guidare” il figlio, allora hanno maturato la fiducia in lui e nella sua autonomia e possono ad esempio segnalargli (o addirittura esigere) alcuni comportamenti da parte sua. Ridiciamocelo bene: quali genitori possono fare questo? Quei genitori che non pensano di dover trattare il figlio con i guanti perché altrimenti quell’ingrato sarebbe anche capace di tagliare i ponti! Ecco allora come alcuni genitori maturi potrebbero rivolgersi al figlio:

-Caro figlio adulto, con lo stipendio che hai non puoi restare in casa senza dare il tuo contributo: in denaro e in attività casalinghe. È esattamente il contrario di: «Porta pure a casa la tua biancheria perché io sarò sempre felice di lavartela, sono la tua mamma no?! Come me non c’è nessuno, nemmeno la donna che sposerai!».

-Caro figlio, non puoi renderci spettatori ansiosi del tuo arrivare tardi e partire presto: quest’ansia ci fa male anche perché vediamo che questi comportamenti non fanno bene a te.

-Caos e disordine non sono sinonimo di creatività e intelligenza, ma spesso solo di confusione e di disorganizzazione. Queste sono le regole della casa che mamma e papà si sono costruita.

Caro figlio seminarista, è inutile che tu ti venga a lamentare con noi che resti poco a casa e che non puoi più vedere i tuoi amici di prima! Se si abita in un posto non si può contemporaneamente vivere in un altro; nessuno ci riesce e quindi nemmeno tu!

-Quando vieni a casa dal seminario, non provare nemmeno a farti coprire da noi per poter stare fuori come e quando ti pare senza darci il minimo ragguaglio.

-Caro figlio, se in seminario non ti capiscono, cerca di ascoltare e capire bene le ragioni dei tuoi superiori e cerca di fare in modo che loro capiscano le tue, e poi “decidi”.

In una parola, i genitori accettano di essere “servi inutili”!

Intervento di Mariateresa Zattoni

La nostra tesi

Quanto al tema assegnatoci, cioè la voce dei genitori nel discernimento vocazionale dei figli, comincio con l’enunciare la nostra tesi a proposito della vocazione: un figlio/a che segue la propria vocazione – e che quindi è in grado di “lasciare il padre e la madre” – non opera un bene per sé solo, ma per l’intero sistema familiare. Come vedremo, la vocazione di un figlio/a ricade come dono per la famiglia, sempre restando fermo che è compito del figlio spiccare il volo e cioè farsi carico dello svincolo dalla famiglia di origine, alle condizioni di cui diremo tra breve.

Ora ci pare lecito sottolineare un punto di partenza irrinunciabile che peschiamo da due fonti valoriali preziose: la Lettera alle famiglie (1994) di Giovanni Paolo II e il recente Gesù di Nazaret di Benedetto XVI.

Nella Lettera alle famiglie si dice testualmente: «I genitori, davanti ad un nuovo essere umano, hanno o dovrebbero avere piena consapevolezza del fatto che Dio “vuole” questo uomo per se stesso». Giovanni Paolo II cita a questo proposito la Gaudium et Spes, n. 24, là dove afferma che «l’uomo in terra è la sola creatura che Dio ha voluto per se stessa» (9). Ecco tagliata alla radice ogni pretesa genitoriale di “fare un figlio/a propria immagine e somiglianza”, cioè di determinare le sue scelte secondo i propri progetti e la propria visuale.

Ma perché i genitori, altissimi rappresentanti della paternità/maternità di Dio, devono aprirsi al fatto di non volere un figlio per se stessi? Perché – citando sempre la Lettera – accade al figlio/a ciò che accade/è accaduto a loro stessi nella libertà della loro vocazione: «essere un uomo è la sua fondamentale vocazione: essere uomo a misura del dono ricevuto» (9). E qui Giovanni Paolo II parla della genealogia della persona: e cioè il figlio/a «parte dall’eternità di Dio e ha la sua destinazione in Lui: Dio vuole elargire all’uomo la partecipazione alla sua stessa vita divina» (9).

Ebbene, vocazione è scoprire «la misura del dono ricevuto» che equivale a esistere «in comunione», a partire da quella comunione cui Cristo Signore chiama, assimilandoci a sé; la trama nascosta di ogni vocazione è perciò, alla sua sequela, scoprire il senso misterioso del “per”, vivere per l’altro. Lasciamocelo dire con le parole intense di Benedetto XVI, che medita sul significato delle parole dell’Ultima Cena: «La teologia recente ha sottolineato a ragione la parola “per”, comune a tutti e quattro i rapporti evangelici, una parola che può essere considerata come parola-chiave non solo dei racconti dell’Ultima Cena, ma della stessa figura di Gesù in genere. L’intera sua indole viene qualificata con la parola “proesistenza” – un esserci non per se stesso, ma per gli altri, e questo non soltanto come una dimensione qualsiasi di questa esistenza, ma come ciò che ne costituisce l’aspetto più intimo e più totalizzante. Il suo essere è come tale un “essere per”. Se riusciremo a capire questo, allora ci saremo veramente avvicinati al mistero di Gesù, allora sapremo anche che cosa significhi sequela»4.

Quanto siamo lontani da una visuale solipsistica in cui sono immersi spesso i nostri giovani (e le loro famiglie)! Solo un piccolo esempio.

Chiedo ad una giovane che torna a casa dopo sei mesi di matrimonio, mesi in cui lei si sentiva apatica, stanca: «Ma lei che cosa vuole dalla vita?». La giovane, che pure fino ad un momento prima aveva pianto calde lacrime, risponde quieta: «Vorrei ciò che mi fa  stare meglio», senza avere il minimo sospetto che proprio un simile  ideale è stato un forte handicap proprio alla vocazione che lei aveva  apparentemente scelto nel sacramento del matrimonio.

Nelle pagine che seguono viene presentato un esempio di “case  study” tra quelli utilizzati durante il Seminario. Questa metodologia  è parte integrante del Seminario sull’accompagnamento e discernimento  spirituale, viene svolto in maniera laboratoriale dai partecipanti  e serve come introduzione e completamento delle proposte  tematiche svolte dai relatori.

Un case study

Simone, 25 anni, figlio unico, ha una laurea breve in ingegneria ed è sempre stato la perla dei genitori. Da sempre è riservato, timido e gentile, non ama il chiasso e le compagnie estroverse; non ha mai fatto preoccupare i genitori, salvo quattro mesi fa, quando ha deciso di entrare in una “comunità proposta” di tipo vocazionale. Ha spiegato ai suoi genitori (che lo hanno sempre lasciato libero, parole sue) che vuole semplicemente conoscersi meglio, che nulla è già deciso o predeterminato. Ma per i suoi genitori è stato un fulmine a ciel sereno: «Hai sempre voluto far di testa tua – dice il padre – non hai voluto seguire le mie orme, e questo passi, anche se io avevo sempre desiderato che tu continuassi il mio lavoro nella nostra farmacia di famiglia, tu sai che i nonni sono farmacisti pure loro e questo per me e per loro sarebbe stato un vanto, d’altro canto tu sei figlio unico e io non ho nessun altro su cui contare. Ebbene, sulle tue scelte non abbiamo fatto una piega, non abbiamo interferito; anche quando ci hai portato a casa quella ragazza maggiore di due anni di te e sicuramente non alla tua altezza, non ci siamo intromessi e la fortuna è stata che è stata lei a mollarti! Ora, che cosa ti sei messo in testa? Hai trovato qualcuno che ti ha lavato il cervello? Cosa pensi di trovare da frate? Non certo gli agi della tua famiglia… e poi sarai sempre uno costretto ad obbedire: che avvenire hai davanti? Tu sai che noi siamo cattolici, non abbiamo niente contro i frati, ma te non ti ci vedo… e proprio ora che hai trovato quel posto così prestigioso che ti apre la carriera! Ma dove vuoi finire? Lo sai che ti abbiamo sempre lasciato libero e anche stavolta sei padrone della tua vita…». Simone

era allibito: mai suo padre aveva fatto un discorso così lungo… ma più lui tentava di rassicurarlo che non aveva ancora deciso niente, più il padre gli ripeteva: «Lo sai che puoi fare quello che vuoi», con aria da funerale. Ma il vero funerale lo stava facendo la mamma, la quale “si era messa a letto” e non scendeva più nemmeno in farmacia; per una volta sua suocera, nonché nonna di Simone, era d’accordo con lei, anzi rincarava la dose: «Non doveva farci una cosa così… e pensare che è sempre stato così rispettoso, così buono, così a modo…».

Intanto Simone frequenta con molta serietà e molto interesse la “comunità proposta”, continuando a dirsi che sì, è vero, “loro” lo lasciano libero, anche se soffrono tanto e questo lui può capirlo. Qualche sera, però, di nascosto, prende l’auto e torna a casa. A parole dice che egli è convinto di ciò che sta facendo, ma scappa. Il suo formatore gli fa notare: «Ma perché non lo dici quando vai a casa? Tu sai che puoi andare a casa quando vuoi, basta che avvisi!». Simone è pienamente d’accordo, sa bene che il responsabile ha ragione; ma poi scappa ancora, del resto ha le tasche piene di soldi e l’auto che gli ha comprato papà. Non sa nemmeno lui perché ha bisogno di presentarsi a casa da “clandestino”. E gli cresce la rabbia contro se stesso. Non è che vada a casa per vedere se “tutti sono vivi”, si dice: troppo semplice! E poi ora, quando lo vedono arrivare, non gli fanno più rimostranze, anzi, mamma tira fuori un mare di dolci e papà, dopo averlo salutato, si ripiomba sui suoi conti al pc. «Ma perché non vado a casa quando è permesso?», Simone si tormenta. Vogliamo aiutarlo?

La mappa familiare e la differenziazione

Per affrontare questo case study iniziamo con il presentare, nella sua struttura, la mappa familiare secondo lo psicoterapeuta sistemico Salvador Minuchin5.

Il sistema familiare deve comprendere la barriera generazionale; ovvero, i due coniugi, con la nascita del figlio, si trasformano in genitori, ma non devono dimenticare la loro coniugalità, non debbono lasciarsi assorbire dalla genitorialità e perciò devono tener fermo che il figlio non può essere un “pari”; l’antecedenza del generare istituisce la responsabilità, cioè la differenza; se essi si lasciano assorbire dal figlio e lo mettono al centro al modo di diventare semplicemente (e faticosamente!) suoi servitori, senza offrirgli dei sani limiti (una metafora per tutte: il bambino che abita costantemente nel lettone dei genitori!), allora fiorisce un fiore inquinato e inquinante: la famiglia invischiata, simbiotica, in cui non sono permesse le differenze, in cui tutto deve andar bene a tutti, in cui ci deve essere accordo (pseudo accordo) senza passare attraverso un sano conflitto.

In un clima familiare sano è permesso differenziarsi, non si è costretti a costruirsi un falso sé (Winnicot), cioè ad agire in conformità con i desideri e con i dettami dei genitori per essere amati; il “bravo bambino” cui è implicitamente proibito di sentire ciò che sente, di manifestare la sua distanza da ciò che gli altri si aspettano da lui, non può differenziarsi, pena sentire più o meno consapevoli sensi di colpa.

Ma differenziarsi è il compito ineludibile di un giovane adulto: se egli non impara a “trasgredire” nel senso etimologico di trans–gredior, di camminare oltre6, difficilmente diventerà il soggetto delle sue scelte e di una sessualità adulta.

In effetti, la differenziazione è un bisogno, prima ancora che un compito: è la logica verso la quale spinge la vita. Se questa diversità non è permessa, ciascuno è prigioniero dell’altro. Il bambino/la bambina dice, crescendo: «Sarò come papà», «Sarò come mamma», cioè si identifica in almeno un aspetto del genitore. Ma non può fermarsi lì, anche nel migliore dei casi. Deve esperire che l’identificazione non è immedesimazione: la vita non gli chiede di “fermarsi” a sostenere il genitore di cui porta la bandiera. «Come mio padre… siamo ambedue orfani. Anche lui, come me, è rimasto orfano e ha sentito la mancanza del padre!»: chi parla è un uomo di poco più di quarant’anni che si immedesima nella “orfanitudine” di papà. Con una differenza, che lui non riesce a vedere: il padre era rimasto orfano a 16 anni e lui, figlio, a 38 anni! Sentire e portare sulle spalle l’universo del genitore non permette di differenziarsi. L’immedesimazione non è richiesta dalla vita, anzi, diventa un blocco evolutivo.

La differenziazione richiede una ridefinizione di sé positiva («Posso iniziare il lungo viaggio della vita, ce la farò») e un’opera di giustizia, perché dà a ciascuno ciò che gli spetta: la conferma del Self a favore del figlio («Sì, puoi andare, ce la farai») e la conferma del compimento a favore dei genitori («Sì, avete fatto del vostro meglio, ora potete “riposare”»).

La differenziazione ha effetto non solo nell’espressione del riconoscimento, ma nella demarcazione dei confini generazionali, i quali non sono dati “graziosamente” dall’altro e nemmeno possono essere pretesi: l’adolescente tenta di demarcare i confini («Non entrare in camera mia!») e il genitore di lasciarglieli senza negoziazione («La mansarda è tua, fanne quello che vuoi, io non ci metterò piede»): ma cosa ha fatto il figlio/a perché quella sia “camera sua”? Come l’ha guadagnata, curata, assunta in proprio? È l’ennesimo inganno di una pseudodifferenziazione, poiché demarcare i confini significa assumerli (e curarli) in proprio. Ben diverso è il caso del figlio sposato che alla mamma invadente, che entra senza bussare, dice fermamente: «Questa è casa mia e di mia moglie, tu entrerai dopo aver bussato»: bellissima differenziazione che genera un perimetro, una patria, in cui i piccoli poggeranno al sicuro i piedini!

L’invischiamento (non posso mettere i paletti alla mia mamma, a mio padre, ai miei fratelli e sorelle) più è silenzioso, tanto più toglie energie: conosciamo tutti la moglie che si sente “tra l’incudine e il martello”, cioè tra le esigenze del marito e quelle della madre che non vuole essere messa in secondo piano rispetto al genero; per quanto corra, questa donna avrà sempre meno energie ed è ancora lì, a volere l’approvazione dei genitori, a tenere nella stessa barca capra e cavoli e ad un certo punto non ce la fa più. Quanti matrimoni falliscono all’ombra di questa impossibilità di disegnare un progetto di vita a due svincolato dalle attese della famiglia di origine!

Ma l’invischiamento – che è l’opposto della differenziazione – si annida anche in un’altra pretesa intergenerazionale che oggi diviene sempre più macroscopica: non solo volere l’approvazione a tutti i costi e quindi impedirsi di trasgredire, ma voler cambiare i genitori. Voler cambiare i genitori è missione impossibile (e di solito mandato di un solo genitore, quello che il figlio “sente” di più) e non solo, ma simile accanimento è patologico, cioè porta al blocco transgenerazionale.

In altre parole, la non–differenziazione ha un elemento centrale: un mancato incontro emozionale con l’altro, con la diversità dell’altro. È qui che la differenziazione risulta difficile, quasi impresa impossibile o carica di sensi di colpa; solo per portare un esempio, una madre urlava rabbiosa alla figlia di 25 anni che tutti i week-end voleva incontrarsi con il moroso che abitava lontano: «Ma insomma, lui è più importante di me!»; la figlia è al bivio: se le risponde con astio: «Sì, meno male che c’è lui a tenermi lontana da te!» prima o poi si seppellirà nei sensi di colpa; se si spaventa e dice: «Non è vero, tu rimani sempre per me la più importante», rimarrà incollata alla mamma e il suo rapporto probabilmente non evolverà. Allora che fare?

Possiamo dire che una mancata lealtà nella scelta di vita, sia in quella di consacrazione che in quella matrimoniale, possa poggiare i piedi in un fallimento della differenziazione e quindi della capacità di “lasciare il padre e la madre” (da parte del giovane adulto) e di “lasciar andare” (da parte della famiglia di origine).

Prima ripresa del case study

Simone si trova in una zona di rischio rispetto alla differenziazione; egli appare convinto di essere stato “lasciato libero” e per certi aspetti è vero: finché le sue scelte stavano dentro il perimetro pensato dai genitori. Una delle caratteristiche della famiglia invischiata è appunto il sottile uniformarsi di ciascuno alla lingua di tutti; in questa famiglia si parla di “libertà” con una connotazione implicitamente approvata da tutti: «Sei libero finché…». Ma quando un membro tenta di “trasgredire”, cioè di oltrepassare tali limiti, tutto il sistema viene sconvolto. Qui è il padre che si assume la responsabilità della voce familiare: se tu vai “fuori i confini” non c’è che una spiegazione: qualcuno deve averti plagiato.

In tutte le sue dolorose parole, che lasciano stupito il figlio, il padre assume la voce del sistema che rinfaccia al figlio tutti gli allargamenti che sono stati fatti per lui, tra l’altro figlio unico: la scelta dell’università, il fallimento del rapporto con una ragazza. Tutto è stato fin qui assorbito dal sistema (secondo la legge dell’omeostasi: sono permesse piccole varianti che si ristrutturano per mantenere il funzionamento), ma anche rinfacciato e ri–precipitato addosso a Simone che dovrebbe essere grato.

Notiamo bene: il padre ha tutto il diritto di non capire l’eventuale scelta del figlio e potrebbe mostrare onestamente il suo non capire; ma qui egli fa molto di più: carica sulle spalle del figlio la messa in crisi di tutta la famiglia, coronando tutto ciò con un “imbroglio” (inconsapevole) interattivo e cioè proclama che il figlio è libero, ma gli annuncia i costi che ciò comporta, costi che loro – famiglia – sono eroicamente disposti a sopportare, pur di “lasciarlo libero”. Ma che libertà è dire a uno: «Se fai così mi fai morire» e poi dirgli: «Lo sai che puoi fare quello che vuoi»?

E che fa Simone? Procede secondo la logica del sistema!

Da una parte vuole fare ciò che vuole, dall’altra vuole continuare a fare il “bravo bambino”. Vuole a tutti i costi l’approvazione dei genitori e in ciò si dimostra ancora “dipendente”. Il suo tornare a casa da “clandestino” è la riprova di questo suo (potentissimo) oscillare. Vorrebbe “capra e cavoli”; il “bravo bambino” è dentro ad una hybris di onnipotenza, ma è proprio questo suo volere l’approvazione a tutti i costi che denuncia il suo essere ancora dipendente dal sistema. Fino a che non dismette le vesti del “falso sé” e, con le sue fughe, vuole “cambiare” i genitori, non andrà molto lontano. Egli non sta “lasciando il padre e la madre” e nemmeno i suoi lo “lasciano andare”.

Il concetto di supplenza

Per offrire una via di uscita al nostro Simone, abbiamo bisogno del concetto di supplenza, che oggi più che mai è l’arpione con cui le famiglie trattengono il figlio.

In termini più generali: un figlio – scelto inconsapevolmente magari tra altri – viene sollecitato da un genitore a oltrepassare la barriera generazionale, a fungere da vero partner “alternativo” di quel genitore perché deluso, insoddisfatto, impotente e soprattutto svalutante del proprio coniuge.

Un fatto: un seminarista diocesano trovava del tutto naturale avere lui la firma sul conto corrente di famiglia e non il padre, che pure c’era! Anzi, talora gli venivano concesse scappate a casa in più, su qualche emergenza finanziaria (i suoi avevano un negozio). Ma dov’è qui la guida che educa, se non ha la forza non dico di strappare il figlio a questa situazione – ma almeno di disapprovare simile invischiamento? In certi casi, siamo forse costretti a dire che anche la guida vocazionale è ancora e solo figlio (stancamente figlio nella sua famiglia di origine!) invece che vero padre?

Seconda ripresa del case study

Ebbene, quale supplenza è posta sulle spalle di Simone? Stranamente, qui il padre pare dare voce non solo al sistema in sé, ma alla posizione delle donne di famiglia. Il vero funerale lo stava facendo la madre, la quale si era messa a letto. Sullo sfondo appare anche la prima generazione, cioè la nonna di Simone, nonché suocera della madre: c’è una delusione grave che pesa sulle spalle della terza generazione e cioè di Simone; con il solo prospettare una scelta diversa (non ancora compiuta) egli “mette a letto” ben due generazioni. Si può immaginare, anche se il nostro documento-storia non lo dice, che mamma e nonna non solo fossero in rotta di collisione tra loro (e momentaneamente depongano le armi!), ma che fossero “sacrificate” al sistema.

Si intuisce una sorta di attaccamento sacrificale alla farmacia (l’azienda di famiglia), che pare stare in piedi finché tutto funziona. Pare che le due donne dicano: «Cosa ci siamo sacrificate a fare, se questo figlio/nipote se ne va?». E quindi celebrano un funerale insostenibile sulle fragili spalle di Simone.

La vera supplenza che gli è posta sulle spalle è il “tenere unita la famiglia” e insieme dare significato ai sacrifici fatti fin qui. Che cosa dovrà fare Simone? Che cosa gli chiede in primis la vocazione ad «essere uomo a misura del dono ricevuto» (cf sopra)?

Se rimane incollato alla sua famiglia fa bene a se stesso e a tutto il sistema? O potrebbe essere proprio la vocazione di Simone il salvacondotto per questa famiglia sofferente? Abbiamo anche una certezza “scientifica” che ci viene in aiuto: un vero cambiamento di un membro del sistema influenza tutti gli altri, grazie alla legge intrinseca della interdipendenza (Paul Watzlawick).

Un superamento radicale della “I position”

Lo psicoterapeuta Bowen chiede di partire da una «I position», al fine di de–triangolarsi emotivamente dai genitori. Cioè chiede al figlio di partire dall’io, di essere assertivo, di mettere confini, di non lasciarsi manipolare. In una parola, di prendere le distanze.

Tutto giusto, ma non basta. Non ci basta. Non si può dire semplicisticamente al figlio “pensa a te stesso” (ammesso che sia possibile senza caricarsi di immani sensi di colpa), perché questo non sarebbe che la campana che oggi tutti suonano: «Sii te stesso, autorealizzati, fa’ quel che va bene per te». E così, lasciatecelo dire con un sorriso, siamo pieni di giovani adulti (e non più giovani) che affermano con un tono da funerale: «Non sto bene con me stesso» e mai una volta che aggiungano la curiosità di sapere come stiano gli altri con loro. Non ci basta, dicevamo. Occorrono altri due passi, e ineludibili, che hanno nome vocazione e misericordia.  

Vocazione

«Lasciare il padre e la madre» è vocazione, non una scelta per stare bene; se è vocazione, è chiamata, se è chiamata è sentire una voce che – proprio a partire dalla mia terra – mi chiama oltre. Il compito della differenziazione è dire sì alla vocazione, dire sì alla vita; galleggiare in acque stagnanti, sia pure tranquille e senza apparenti pericoli, non è dire sì alla vita. Anzi, è tradirla. Tanto più oggi, in cui “andare d’accordo” è inteso come abbattimento delle differenze7, in cui differenziarsi non viene spontaneo, anzi, è faticoso; aggiungiamo che il compito della differenziazione non è per rifornire il Self e intraprendere imprese solitarie, dove ciò che conta è sempre e solo il figlio.

Ogni vocazione comporta un sì alla differenziazione e non è un caso che oggi, nelle nostre famiglie cristiane, quando spunta una vocazione alla consacrazione o al ministero ordinato, si gridi allo scandalo, all’assurdo («Ma come, ora che sei medico, ti vuoi far frate? Ma chi ti ha plagiato?») e ci si aggrappa a tutte le paure, pur di non lasciar andare il figlio/a. A proposito, oggi in famiglia si diventa sempre più specialisti a “trattenere” i figli, ad esempio per non sentire il vuoto (oggi due coniugi rischiano di rimanere “soli” per un quarto e più di secolo, dopo che i figli se ne sono andati!), per avere qualcosa da fare, qualche ragione per stare al mondo, eccetera.

Misericordia

Ma questo “sì” alla vita deve comprendere uno sguardo di misericordia: si può partire veramente solo se riconciliati, se – nella complementarietà reciproca – ci si può dire il sì, il “grazie che ci sei”.

Ci sono giovani adulti assolutamente non in grado di rassicurare e confermare i loro genitori e quindi neanche se stessi. Ho presente un novizio, i cui genitori hanno lottato con tutte le forze contro l’entrata in convento del figlio, ma che poi comprano un camper e loro, che non avevano “mai fatto ferie”, progettano un’estate un po’ peregrina, loro due soli: «Ma io so che non si divertiranno, dove vuoi che vadano, loro due così musoni», sospira il figlio che sta fermo sulla vecchia immagine dei genitori e, anche da novizio, non ha ancora lasciato né padre né madre.

È ben diverso dire, con le parole, con i gesti o con i fatti: «Me ne vado, perché in questa famiglia non respiro più, me ne vado perché non reggo più le vostre litigate, me ne vado perché voglio farmi i fatti miei» e: «Me ne vado perché siete stati dei bravi genitori, pur con tutti i vostri e i miei limiti».

Ma per rassicurare i genitori, occorre lasciar cadere le loro immagini trite e ritrite, anzi, sapute a memoria, che abitano nella nostra mente; occorrono quelli che altrove8 abbiamo chiamato gli IRTT, cioè “incontri ravvicinati del terzo tipo”, dove non si sa chi sono gli extra-terrestri da avvicinare: il figlio o i genitori. Fatto sta che ci si avvicina con curiosità nuova, con la voglia di esplorare, con la scelta di lasciar cadere le misere litanie su “quanto non ho ricevuto!”.

Le rassicurazioni e gli IRTT postulano la misericordia verso se stessi e verso i familiari: cioè aprire il cuore per cogliere ciò che si è ricevuto, poco o tanto che sia, dentro una storia che nessuno (nemmeno il più titanico degli umani) si è fabbricato da solo. E questo è passare dall’intimidazione intergenerazionale all’intimità intergenerazionale. Ripetiamolo: per sé, per le generazioni a venire e per quelle che ci hanno preceduto.