N.06
Novembre/Dicembre 2011
Studi /

Diventare “padri e madri” per accompagnare

Le virgolette indicano che non si tratta di essere proprio padri e madri. In effetti, a un certo punto occorre una relazione di accompagnamento diversa dalla paternità e maternità sperimentata, che sia stata prevalentemente positiva o meno. Indicano anche che si tratta di una paternità e di una maternità spirituali, che il Vangelo introduce come rottura con i rapporti familiari precedenti (un “no”) e come una evoluzione decisiva (un “piuttosto”), che porta avanti il già iniziato. Quindi non è solo il tipo di rapporto che cambia, ma anche il fine specifico, pur dentro una comune finalità di crescita in pienezza.Il diventare richiama l’attenzione sull’acquisizione del ruolo di “padri e madri”, e in particolare sull’importanza di aver fatto esperienza di sentirsi accompagnati. La caratteristica principale di questa nuova paternità e maternità di accompagnatori è quella particolare gratuità che viene dall’assenza di legami di sangue, una sorta di provvisorietà che non è semplice occasione, ma capacità di affiancarsi al momento giusto.

  1. “Padri e madri” tra virgolette…

…perché occorre anche altro.  Le virgolette sono importanti. Parliamo sì di una paternità e maternità, ma le virgolette dicono che occorre precisare. Padri e madri danno la vita e lo fanno in obbedienza, perché troppe cose non dipendono da loro. Padri e madri fanno crescere fino a un certo punto. Poi passano le consegne, almeno in parte. Hanno bisogno che un altro accompagni. Questo proseguire con un altro è ancora nell’ordine del dare la vita, del far crescere, dell’obbedire a un disegno più grande. Ma un accompagnamento ultimamente teso a un sì a Dio, una compagnia nel cammino verso un sì pieno alla propria vocazione, non coincide con l’essere padri e madri. Sulla strada della crescita si inserisce qualcuno che ha sempre la qualità di persona di riferimento, ma che ha la caratteristica di non essere il padre e la madre. E questo non come un “purtroppo”, come se le virgolette dicessero che non si riesce ad essere veramente padri e madri, che accompagnare è solo una immagine pallida di un originale o una supplenza. No, le virgolette dicono che c’è qualcosa di simile alla paternità e maternità, ma che il nuovo rapporto ha una sua singolarità e importanza. Non è un limite che evidenziano, come quando da qualche parte su un oggetto con delusione si scopre, scritto in piccolissimo, “made in China”: è una differenza buona. In un interessante commento a quella grande parabola dell’accompagnamento vocazionale che è il libro di Tobia1, l’autore parla del bisogno di un altro accompagnatore che non sia il padre. Osserva che, invitando il figlio a «scegliersi una guida per il viaggio», Tobi «non ritiene che la crescita del figlio si possa esaurire nel rapporto genitore-figlio, o all’interno della cerchia familiare; ogni figlio, oltre al padre e alla madre, per crescere davvero, per giungere alla maturità dell’adulto, deve trovare sulla propria strada altri “padri” e altre “madri” che saranno estremamente importanti per la sua formazione». I padri e le madri che ci sono passano le consegne a qualcun altro che non lo è. Una sorta di affidamento che non è dovuto a carenze nell’essere genitori. L’accompagnamento di giovani che avviene fuori dalla famiglia, da parte di insegnanti, di animatori, di persone consacrate, di educatori di comunità, di adulti capaci di essere riferimento, insomma, non supplisce a insufficienze educative, anche se certamente vi sono casi in cui ciò può avvenire. «Tobi non assomiglia quindi a quei genitori che si preoccupano del proprio rapporto con i figli, gestendoli in modo esclusivo e trascurando quest’altro aspetto, o peggio ancora, ponendosi in concorrenza con ogni tipo di relazione autentica che non venga da loro, con una paternità-maternità che non sia inscritta nel cerchio della famiglia». Viene sempre il momento in cui non si ha bisogno del padre o della madre, ma di un’altra guida. Nel libro di Tobia, padre e madre sono anziani, non viaggiano più e non possono accompagnarlo, per quanto abbiano ben fatto le loro strade, al loro tempo; o forse non conoscono il paese, perché ne hanno girati altri rispetto a quello in cui deve andare il figlio; o non hanno più la forza di accompagnare per qualcosa di nuovo. Ma possono fidarsi di un altro e lasciare con coraggio che prosegua il cammino con il figlio. I padri e le madri rischiano di credere di conoscere bene il proprio figlio, di sapere cosa vada bene per lui, di percepire come intrusa un’altra figura di accompagnatore. L’invito «scegliti una guida per il viaggio», che troviamo nel libro di Tobia, va fatto ai figli da tutti i genitori, perché tutti i figli hanno un viaggio da fare, tutti devono partire da casa, e tutti hanno bisogno di una guida che conosca bene il cammino e sia disposto ad accompagnare. 

…perché c’è un “piuttosto”.

Chi diventa accompagnatore lo fa nell’ordine della rottura e della continuità nei confronti della paternità e maternità precedentemente sperimentata dall’accompagnato. Due frasi nel Vangelo, tra altre, dicono della rottura con molta chiarezza. Un “no” e un “piuttosto”.

«No, si chiamerà Giovanni» (Lc 1,60) e «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!» (Lc 11,28). “No”. I parenti attorno al bambino appena nato hanno una proposta logica, un progetto tutto umano. Un nome previsto che vorrebbero imporre. Ma l’angelo ha detto un altro nome. Elisabetta sa il vero nome – glielo ha trasmesso Zaccaria in un’intima comunicazione senza parole –, e ha il coraggio di opporsi con decisione: «No, si chiamerà Giovanni». “No”, un no a ciò che si era pensato per conto proprio, un “si chiamerà” alternativo che viene direttamente da Dio. Il nome Giovanni è quel che Dio ha pensato per lui, un nome carico di tutta la missione ricevuta, che Elisabetta ha già sperimentato nella sua carne, quando il bambino trasalendo di gioia ha detto senza parole il primo: «Ecco l’agnello di Dio», annuncio che Elisabetta ha saputo tradurre: «Il mio Signore, il frutto benedetto». Occorre anche l’intervento di Zaccaria: «Il suo nome è Giovanni». Formulazione oggettiva, dato di fatto: è Giovanni, non si può cambiare. Gesù dice in qualche modo lo stesso “no” quando una donna tra la folla, come i parenti del piccolo precursore, proclama la logica della carne e del sangue: «Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!». Un Magnificat popolare uscito di tra la gente, previsto da Maria, che però Gesù corregge con un “piuttosto”: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!» (Lc 11,27-28). Gesù non raccoglie quella beatitudine, pur vera, e indica un altro ordine di relazioni. Viene il momento in cui si può sperimentare in modo conflittuale questa contrapposizione tra la sua novità e la logica precedente: è il costo del centuplo, la rinuncia a un prima per un dopo, a un meno per un più, a qualcosa di umano per qualcosa di sempre più pienamente umano. Gli esempi evangelici di questo rinnegare toccano spesso proprio i legami familiari, così essenziali e tuttavia mai sufficienti. Alla fine, tutto il Vangelo è un “piuttosto”. Le virgolette qualcuno potrebbe sostituirle con l’aggettivo spirituale. Padri e madri tra virgolette, anche perché si è nell’ordine dello spirito. Padri e madri di una nuova nascita e una nuova crescita. La fame dell’inizio è immediatamente fame di latte, non di Dio; la paura dell’inizio non è paura del peccato, ma di essere abbandonato; il sorriso dell’inizio non è da subito riconoscimento di una relazione fondante… Ma la fame non è mai solo questo, la paura non è mai solo questo, il sorriso non è mai solo questo. Non si genera mai solo un corpo, ma si genera una persona, si genera umanità. Fame, paura e sorriso sono domande che, mentre esprimono problemi specifici e richiedono soluzioni specifiche, sono anche espressione di domande più profonde, di un’inquietudine fondamentale. Se non bisogna ignorare le domande più immediate, occorre far sorgere altre domande e poi accompagnare nella ricerca di risposte a queste altre domande, che esprimono più adeguatamente la realtà antropologica della persona2. Allora occorrono padri e madri per un’altra fame, un’altra paura, un altro sorriso. È l’aggettivo spirituale che si aggiunge. Possiamo tuttavia dire che si aggiunge da dentro, non si appiccica dall’esterno come appendice a una realtà estranea. Giovanni Paolo II, in un’udienza di molti anni fa, riportava delle parole sulla maternità, parole che sentiva «come un annunzio e in pari tempo come un appello»: e cioè che «alla madre si deve insieme alla vita anche tutto ciò che costituisce l’inizio e l’ossatura della storia del suo spirito»3. Parole belle: inizio, ossatura dello spirito. Parole che dicono che qualcosa ha già iniziato a esistere e che chiede un poi di crescita, di sviluppo, di maturazione. Una paternità e maternità spirituale è sbilanciata su altro che non su un rapporto fatto di carne e sangue, è sbilanciata su un’altra relazione. Fare la volontà di Dio, ascoltare la parola di Dio è il centro di relazioni tutte nuove. La nostra storia è la storia di un lento prevalere di uno “spirituale” che nulla nega degli inizi, ma porta ben oltre e chiede di essere accompagnata, tappa per tappa.

…in un reciproco far ricordare.

Padri e madri, “padri e madri”. Ciascuno dei due ruoli ha qualcosa da ricordare all’altro. La fisicità del generare ha una sua originalità: chi è generato è frutto di una relazione a due, con la bellezza e la tensione di un “due”. Padri e madri danno la vita in due, generano una somiglianza che viene da una differenza e non si sa a chi il figlio assomiglierà di più. È una sorpresa questo prendere dall’uno o dall’altro, la sorpresa, non sempre facile da accettare, di chi assiste a una crescita che non può telecomandare. Padri e madri richiamano la dimensione di un prendersi cura con naturalezza e ovvietà; la qualità di un amore proteso a dare, la trasmissione di quanto si sa e si è sperimentato, con uno sguardo al futuro, tra preoccupazione e speranza; il tempo dato nella pazienza e nell’attesa. E la disponibilità – se mai occorresse – anche dopo aver lasciato andare. “Padri e madri” rimandano a una gratuità da cui non si spera di guadagnare nulla, neppure una reciprocità in quanto tale, neppure una soddisfazione di riuscita. Ricordano che il figlio è un dono, un prestito e non un possesso. Rimandano a una provvisorietà che crede profondamente di non essere casuale; infine, a una maternità e paternità senza limiti.

  1. Diventare

Un verbo importante nel titolo quanto le virgolette. Accompagnare è un compito assegnato, un impegno assunto, una grazia? È chiamata o scelta o forse pretesa? Se occorre diventare accompagnatori che siano tra virgolette padri e madri, come lo si diventa? Se guardiamo a qualche accompagnatore biblico4, troviamo che Mosè, per esempio, diventa guida suo malgrado e tende a resistere. «L’ho generato io questo popolo?» (cf Nm 11,11-15). Ci sono accompagnatori che brontolano: in un certo senso, è un buon segno. È la coscienza, a volte infastidita, che questa persona me l’ha data un Altro, non me la sono cercata, non me la sono scelta. Ed è vero e va bene. È l’esperienza che questo accompagnare non è sempre gratificante, è pesante. Ed è vero e va bene. Vuol dire anche che, se l’esperienza pesa troppo, forse ci si affida poco. E anche questo va bene, imparare ad affidare di più. Ma fermiamoci sul diventare accompagnatori attraverso la propria esperienza di essere accompagnati. È quanto succede ad Elia, che vive un’interessante esperienza di accompagnamento a tappe, l’esperienza così importante di un accompagnamento differenziato a seconda del momento che la persona vive. Come si racconta nel primo libro dei Re (1Re 19,1-21), Elia fugge perché la regina Gezabele, in seguito al massacro dei profeti di Baal sul Carmelo, lo cerca per metterlo a morte. Elia passa per un momento difficile, di scoraggiamento e paura. E proprio questo momento diventa un’occasione di incontro profondo con Dio e di riscoperta della sua missione, e lo diventa perché Elia è guidato ad attraversarlo. Nel capitolo 19, le parole di Elia diventano come un ritornello. Dice a Dio in sostanza la stessa cosa tre volte: è una comunicazione prima emotiva, poi più elaborata, poi un vero dialogo con Dio, realmente alla sua presenza. E tutte e tre le volte c’è qualcuno che raccoglie il suo ritornello. La prima volta è sostenuto e spinto a continuare; la seconda volta è indirizzato a Dio; la terza volta riceve la sua missione. Non è mai solo, nel momento dell’espressione della sua difficoltà. Nel cammino c’è qualcuno che gli è al fianco, che lo accompagna e lo aiuta in modo ogni volta diverso. Rivediamo i tre momenti. Nel deserto, Elia si esprime con parole esasperate, scoraggiate: «Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri». La sua lettura delle cose è emotiva, personalizzata. Fugge e vuole fuggire anche più di così, come dice con la sua voglia di morire. «Non sono migliore»: sente quello che è successo come un fallimento del suo essere profeta. Ha voglia di lasciare tutto e di fatto scappa. Qualcuno ascolta il suo sfogo, carico di emozioni. Qualcuno che gli si fa vicino e porta del pane e dell’acqua. Mangia e bevi. Elia non aveva bisogno ultimamente di mangiare e bere, cioè il suo vero problema non erano la fame o la sete. Ma in quel momento la prima cosa da fare è che mangi, beva, dorma. L’angelo del Signore, la vicinanza, la presenza di Dio, risponde intanto a questo primo livello. Non discute, non parla di fede, non ragiona, invita a mangiare e bere per poter camminare. Dà quanto serve perché intanto non si fermi e proceda. La cosa avviene due volte e la ripetizione non è inutile. Non basta una volta sola. L’angelo non pretende che Elia si incammini subito, lascia che si riaddormenti, aspetta che si svegli ancora. Mangia, beve, dorme, dunque; mangia e beve dopo il secondo intervento e cammina. Cammina 40 giorni e 40 notti. Però il suo problema è ancora dentro e, arrivato sull’Oreb, la montagna di Dio, lo esprime di nuovo in altre parole: «Sono pieno di zelo per il Signore degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita». Lo dice in modo più oggettivo, equilibrato. Descrive la realtà non di sua iniziativa, ma perché una voce gli ha chiesto: cosa fai qui? La domanda lo aiuta ad esprimere la sua situazione in modo meno emotivo, meno carico di affetti. Invece del pane e dell’acqua, questa volta l’aiuto è una domanda che fa sì che Elia metta in parole la sua situazione, prendendone in qualche modo la distanza. È ancora un aiuto, a un altro livello. Eppure non basta ancora. Occorre che ripeta ancora una volta la sua situazione esteriore e interiore, e occorre che lo faccia alla presenza di Dio. Elia allora è invitato a cogliere il passaggio di Dio, a individuarne i segni. Dio non uragano, non terremoto, non fuoco, ma Dio silenzio, voce leggera, brezza quasi inavvertibile.

Le parole che Elia dirà sulla soglia della caverna sono ancora esattamente le stesse di prima.

«Sono pieno di zelo per il Signore, Dio degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita». Mentre tra il primo sfogo e il secondo intervento c’è una differenza di espressione, il secondo e il terzo sono identici. Ciò che fa la differenza è l’essere pienamente coscientemente alla presenza di Dio. Cambia l’interlocutore.

Certamente non era altri l’angelo che portava pane e acqua e invitava a mangiare, bere e camminare. Certo non è altri la voce che pone la domanda sull’Oreb. Ma sulla soglia della grotta, nel vento leggero, a capo coperto, Elia sa che sta parlando con Dio. Si è messo lucidamente alla sua presenza. Chiede a lui cosa fare, espone a lui la sua difficoltà.

Il problema non è solo detto ad alta voce per sfogare il peso del cuore e dei sentimenti, non è solo detto come espressione di quello che c’è dentro in attesa di una qualche soluzione, ma consapevolmente portato davanti a Dio, interlocutore profondo e reale. È il passaggio, come dice Vita Consecrata5, da una lotta psicologica a una lotta spirituale. Tutto diventa «strumento provvidenziale di formazione nelle mani del Padre», lotta non solo «psicologica, condotta dall’io in rapporto a se stesso e alle sue debolezze, ma religiosa», caratterizzata proprio dalla presenza di Dio.

Dio passerà. Occorre in qualche modo intercettarlo, cercare che sia proprio lui l’interlocutore, tra tanti falsi ascoltatori. E per arrivare là, prima l’invito a camminare con la forza del pane, poi l’orientamento verso l’appuntamento. Sono passi suggeriti da qualcuno che gradualmente conduce Elia là dove riceve la risposta: «Su, ritorna sui tuoi passi… ungerai Hazaèl come re di Aram… ungerai Ieu come re di Israele e ungerai Eliseo come profeta al tuo posto». Ed Elia ritorna.

Ecco come Dio accompagna Elia. È sempre lì, presente, a fianco, ma lo conduce per gradi al suo bisogno più vero, venire a sapere da Dio stesso la vera risposta all’eterna domanda di ogni accompagnato: cosa devo fare?

Il ritornare di Elia renderà lui accompagnatore di un altro, padre tra virgolette di un altro, con un’altra storia, ma un comune denominatore di passi. Fino a quando il mantello caduto e raccolto dirà che il discepolo accompagnato è pronto per accompagnare.

 

  1. Per accompagnare

La caratteristica principale di questa nuova paternità e maternità di accompagnatori, lo si è già accennato, è una gratuità slegata dal legame fisico. Rispetto a padri e madri, chi si inserisce a un certo punto del cammino è più libero. Non si tratta di una provvisorietà disimpegnata, ma della libertà della gratuità.

L’accompagnatore non ha paura di perdere il già fatto perché non lo ha fatto lui, non ha paura di rinunciare a sogni perché, se pure ne ha, non li ha accarezzati a lungo, come i genitori che li coltivano forse fin da prima della nascita insieme al nome.

L’accompagnamento da padri e madri tra virgolette non è quindi una presenza continua che si prende cura di tutto, ma un affiancarsi al momento giusto.

Sulla strada di Emmaus, Gesù arriva ad un certo punto e ad un certo punto va via. Era un viandante, apparentemente senza nessun vero rapporto con i due. Guadagna la fiducia scaldando il cuore, il segno che era vero tutto quello che diceva. Filippo salta sulla carrozza dell’eunuco sulla strada per Gaza e ne ridiscende. La Samaritana era stata colta di sorpresa da un accompagnamento del tutto imprevisto. Accompagnamenti che durano quanto? Ma iniziano e finiscono al momento giusto.

Come Gesù accompagna? Aveva accompagnato i suoi, a lungo, paziente, spiegando. Ma nonostante questo ha dovuto incrociarne due sulla strada di Emmaus (cf Lc 24,13-33). Nonostante le spiegazioni precedenti, in anticipo sui fatti, precauzionali, quando si è trattato del momento preciso ha dovuto accompagnare per aiutare a fare memoria. Non era più il momento del discernimento vocazionale. I due avevano già scelto, seguito e sperato. Ma era il momento di capire cosa stava accadendo e cosa voleva dire seguire in quel tempo e in quella situazione.

È la cosa più difficile. Se è consentito un parallelo, è come il “timing” della psicoterapia. Non è solo il contenuto della comprensione che è importante, ma il momento in cui la comprensione è offerta. Se arriva troppo presto non serve e se arriva tardi non serve. Non necessariamente è un grosso errore, ma si spreca l’offerta. Quanta formazione che sembra sprecata, perché non è il momento. Si comprende in teoria, si accumula per un poi, ma al momento non si trova quel che serve. Formazione sprecata se poi, al momento buono, nessun viandante si affianca a dire: cerca dentro, lo sapevi; guarda dentro, hai già scelto.

Gesù ha sprecato parecchio così, è vero, e se l’ha fatto vuol dire che del tutto sprecato non era. Ma il discepolo non sembra in grado da solo di utilizzare sul momento quello che ha ricevuto prima: aiutato a farlo lo ritrova, era dentro e scalda (cf Gv 2,22; At 11,16).

Gesù aveva detto tante volte: ve lo dico ora, ve lo dico prima, perché poi crediate (cf Gv 13,19; 14,25-26.29; 16,1.4.12). Dunque c’è un “prima” utile. Ma il prima è utile dopo, cioè una volta che l’accompagnamento ha aperto gli occhi, e allora si riconosce che si sapeva. Gesù, sulla strada di Emmaus, vede che occorre affiancarsi e dire: lo sapete. Non dice in fondo niente di nuovo, aiuta a ripescare. Ecco cosa fanno i padri e madri tra virgolette: aiutano a ripescare sul momento qualcosa che c’è già dentro, magari quanto i padri e madri senza virgolette avevano costosamente trasmesso. Il più delle volte è qualcosa di non nuovo che deve essere tuttavia rimesso in circolo. L’accompagnamento dei tempi della formazione iniziale chiede poi questo “timing”, essenziale e spesso trascurato.

L’accompagnamento vocazionale, infatti, non è fatto solo per scegliere una volta, ma per comprendere quanto accade nel proseguire il cammino e per perseverare nel momento della prova.

Bisogna aggiungere che l’affiancarsi al momento giusto non vuol dire una relazione casuale, ma costruita sulla fiducia. L’accompagnamento non è uno sportello di informazioni, né la scelta di un insegnante privato. È un rapporto che rende le parole autorevoli e vicine. Gesù, lo sconosciuto, sulla strada accende dentro un’eco del già vissuto, come una familiarità che lui solo poteva ridestare perché era stato con i suoi a lungo. Tobi prende le sue informazioni e Raffaele e Tobia fanno della strada insieme.

Occorre un “prima” di disponibilità, di interesse, di coraggio di proporre. Non ci si lascia accompagnare se non scatta un inizio di qualcosa, se non c’è già qualcosa. Anche ciò che sembra improvvisato fa intravedere un disegno, una attesa e una disponibilità interiore: l’incontro con la samaritana al pozzo, preparato nel desiderio,

o con l’eunuco sulla carrozza, preparato dallo Spirito.

Troviamo qualcosa di analogo al “timing” psicoterapeutico nella letteratura monastica che insiste sull’importanza di confidare al padre spirituale le inclinazioni attuali6. C’è tutto un lavoro sul proprio passato che ha il suo valore nel cammino della crescita. Ma in seguito è soprattutto il vissuto attuale che va detto, proprio perché prenda luce da comprensioni già raggiunte in precedenza. Sono gli impulsi interiori del momento presente, le tentazioni, i sogni, le spinte interne che l’accompagnato ha bisogno di dire. «In questo modo, confidando cioè al padre spirituale le suggestioni e gli impulsi interiori attuali l’accompagnato accetta di esporsi al padre nel suo desiderio attuale, accetta di lavorare il suo desiderio»7.

È in questo momento che, di solito, i padri e le madri senza virgolette non sono là. Invece i padri e le madri tra virgolette hanno questo di caratteristico: si trovano là al momento di un nuovo passo da fare. La tentazione dell’infedeltà, la voglia di lasciare gli impegni assunti o la propria missione, il momento più acuto di incomprensione nella vita parrocchiale, o di movimento, o comunitaria, la mancanza di senso in un quotidiano ripetitivo…

Accompagnare è essere lì per dire: «È ora, è qui». È l’insostituibilità della diretta, essere al fianco al momento giusto. E di nuovo lasciare andare.