N.05
Settembre/Ottobre 2012
/Film

Film: Il primo uomo

La genesi dell’opera – Il 4 gennaio del 1960 lo scrittore francese Albert Camus, nato in Algeria, trovò la morte in un incidente stradale, a quarantasette anni. Tra i rottami dell’auto fu rinvenuto un manoscritto, con correzioni, varianti e cancellature. Si trattava della stesura originaria e incompiuta di un romanzo autobiografico, Il primo uomo, che la figlia dell’autore, Catherine, riuscì a pubblicare nel 1994, dopo un accurato lavoro di ricerca filologica. Fino al 2006 la figlia di Camus si rifiutò di cedere i diritti dell’opera, ma poi cambiò idea. Così il regista Gianni Amelio ebbe la possibilità di iniziare un complicato e difficile lavoro di traduzione in immagini del romanzo.

Ha dichiarato il regista: «Il primo uomo non è un romanzo di finzione, ma un’opera autobiografica: non si trattava quindi di fedeltà generica a un testo letterario, ma del rispetto per la vita di una persona. […] Ho dimostrato una grande fedeltà al pensiero di Camus, pur sviluppando un racconto autobiografico dalla natura molto personale, come mai avevo fatto prima. I dialoghi non sono ispirati dal testo, ma presi dalla memoria di mia madre e di mia nonna1.

(Trailer)

 

La vicenda – Jean Cormery, un famoso scrittore francese nato in Algeria, dove ha vissuto fino ad una certa età prima di stabilirsi in Francia, fa ritorno nel suo paese natale per parlare agli studenti dell’università della drammatica situazione che si è venuta a creare in quel paese. Le sue posizioni sono favorevoli ad una coesistenza pacifica fra arabi e francesi, ma il suo discorso viene duramente contestato dai colonialisti che vorrebbero l’Algeria parte integrante della Francia.

Ad Algeri Jean ritrova anche la vecchia madre, che non ha mai voluto abbandonare il paese, e s’immerge sempre più nel ricordo della sua infanzia, in un viaggio della memoria alla ricerca delle persone che hanno segnato la sua esistenza: la nonna, lo zio, il maestro di scuola, la giovane madre, ma soprattutto quel padre che non ha potuto conoscere, essendo morto quando lui aveva appena sei mesi. Il ricordo lo porta anche a cercare un contatto con quelle persone che ancora sono vive e che gli consentono di guardare dentro a se stesso e nello stesso tempo di prendere coscienza delle mutate condizioni di una nazione sempre più martoriata.

Dopo aver ricostruito tutte le tappe principali della sua vita (compresa la nascita), Jean si reca sulla tomba del padre e poi fa ritorno in Francia, lasciando lì la madre che non lo vuole seguire. Ma prima di partire pronuncia un discorso alla radio in cui ribadisce le proprie idee, che però ora sono filtrate da una dimensione personale che tiene conto degli affetti familiari e delle ragioni del cuore.

Il racconto è piuttosto articolato e complesso. Si possono subito individuare due grossi filoni strutturali narrativi, quello del presente e quello del passato (più o meno recente). All’interno di questi due filoni temporali, che si intrecciano e si condizionano reciprocamente, emergono due fondamentali dimensioni: quella privata, familiare, affettiva e quella pubblica, storica, politica.

Il presente – Le prime immagini del film appartengono al filone del presente, ma, significativamente, rappresentano un flash forward, cioè una prolessi, un’anticipazione dell’ultimo atto che Jean compie prima di far ritorno in Francia, quello di andare a visitare la tomba del padre.

Le immagini hanno chiaramente una funzione emblematica: rappresentano la fine della vicenda, ma vengono presentate all’inizio del film; inoltre rappresentano il punto di arrivo di una ricerca nel passato che si conclude con il “ritrovamento” del padre, cioè delle origini. Anche dal punto di vista semiologico queste immagini manifestano tutta la propria pregnanza: si parte con un’immagine sfocata che lascia intravedere un cimitero; c’è poi una panoramica verso destra che mostra il custode del cimitero che cerca la tomba (mentre s’ode una musica extradiegetica); di fronte alla domanda del custode, si sente una voce fuori campo (che si capirà essere quella del protagonista) che parla del padre, «ferito nella battaglia della Marna, morto il 12 ottobre del 1914». Il custode esce di campo, e su quello sfondo sfocato appare in MPP (mezzo primo piano, ndr)il protagonista, perfettamente a fuoco. Egli si inginocchia davanti a quella piccola lapide e cerca di pulire la targhetta, osservando: «Mio padre ha venticinque anni», come se il tempo si fosse fermato.

– Dopo il titolo del film una didascalia precisa: «1957, all’inizio dell’estate». Jean arriva all’aeroporto di Algeri e viene accolto da alcuni giornalisti che lo portano all’università. Le persone che lo accompagnano fanno cenno ad alcune sue interviste che hanno suscitato molte discussioni, osservando: «C’è qualcuno che trova una certa ambiguità nelle vostre posizioni». Un altro fa notare che ha colpito molto la sua frase: «Colui che scrive non sarà mai all’altezza di colui che muore». Poi gli chiedono se si ritiene un uomo di destra o di sinistra.

– L’accoglienza all’università non è delle migliori. Qualcuno lo contesta in partenza («Tu non sei uno di noi, vattene»); altri lo interrompono durante il discorso, che avviene subito dopo che uno ha affermato che bisogna rispondere agli assassini con le loro stesse armi. Tuttavia Jean riesce a rimanere lucido e pacato. Afferma che niente gli sta più a cuore del destino del suo paese, «una terra negata, dimenticata, lontana, disprezzata», che si lascia soffocare nel proprio sangue. E continua: «L’Algeria è questo territorio, abitato da due popoli, uno dei quali è musulmano. Si accetta troppo facilmente che solo il sangue possa muovere la storia. Ma il dovere di uno scrittore non è di mettersi al servizio di quelli che fanno la storia, ma di aiutare quelli che la subiscono. Io credo fortemente alla possibilità di una giusta coesistenza tra arabi e francesi in Algeria, e che una tale coesistenza tra persone libere e uguali sia oggi l’unica soluzione».

– Uscito dall’università Jean va in cerca della madre, che trova al mercato. I due, a casa, si parlano, si confidano in un clima di grande affetto e di profonda tenerezza. S’incomincia ad entrare nella dimensione del privato. La madre gli chiede della bambina più piccola, che ha cinque anni; della moglie, affetta da depressione. Poi gli mostra con orgoglio il giornale con la sua foto, ma, non essendo capace di leggere, non è in grado di capire che il figlio è stato insultato. Jean le dice che è bella. Poi incomincia a cercare tra le cartoline e le vecchie carte. «Che ti scartabelli ancora? Che vai cercando?», domanda la madre. Ed ecco la risposta, costituita da una serie di interrogativi quanto mai importanti: «Mio padre si chiamava solo Henry? Non aveva altri nomi? Mi somigliava? Una volta mi hai detto che aveva perduto il padre quand’era piccolo e che lo avevano messo in un orfanotrofio». È l’inizio di quella ricerca del padre che terminerà sulla sua tomba. Ed è la ricerca di se stesso, delle proprie origini: significativo che Jean accosti la foto del padre e quella della madre. E subito dopo parte il filone del passato.

Il passato – Jean è un ragazzino che fa la quinta elementare. È orfano di padre e vive con la mamma, la nonna materna e uno zio, fratello della madre. Le condizioni di vita sono di estrema miseria e di ignoranza (nessuno sa leggere). L’autore mette subito a fuoco i vari personaggi.

– A partire dalla nonna, arcigna e severa che comanda su tutti («Quando mia nonna dice una cosa, stiamo zitti e l’ascoltiamo», afferma ad un certo punto il ragazzo). Quando Jean compie qualche marachella viene da lei severamente punito a suon di vergate e deve sorbirsi i suoi “insegnamenti”, come quando sostiene che «ti devi fare giustizia da solo su questa terra; il mondo è pieno di gente senza ritegno». Tuttavia il ragazzo accetta senza astio le sue decisioni, come quella di andare a lavorare con lo zio in una tipografia per imparare un mestiere, visto che dopo la quinta elementare non potrà andare alle medie («gli altri hanno il padre e tu no; e io non campo in eterno, sempre a sfacchinare per voi»).

– La figura dello zio è poco sviluppata: si tratta di un sempliciotto dal cuore tenero che accetta tutto e che in alcune circostanze diventa compagno e complice di Jean.

– Ma è la bella figura della madre che emerge luminosamente e che permette al ragazzo di vivere tutto sommato in modo sereno. Dolce e sottomessa, lavora come lavandaia in un ospedale (ma Jean racconta agli amici che fa l’infermiera) e lancia sguardi d’amore nei confronti del figlio che ama profondamente e col quale soffre quando viene punito. «La nonna picchiava anche te quando eri piccola?», le domanda il ragazzo; «mi picchiava sempre», risponde la madre; «tu però a me non mi picchi mai», ribatte Jean; la risposta è quanto mai significativa: «Io ho paura che ti faccio piangere».

– C’è poi il maestro di scuola, che sa insegnare in modo originale e creativo e che si prende a cuore le sorti di Jean. Fino al punto di andare a casa sua per convincere la nonna a fargli frequentare le medie, grazie ad una borsa di studio che viene assegnata a coloro che sono bravi e poveri. Le parole del maestro sono lungimiranti: «Pensiamo solo all’oggi e non pensiamo a quello che potremmo avere domani».

Presente – Il ricordo del maestro, che tanto fece per lui, porta ora Jean a mettersi alla sua ricerca. Lo trova, finalmente, e gli regala un suo libro con tanto di dedica: «Senza il vostro insegnamento niente di tutto questo sarebbe esistito». Il maestro, ora professore, si schermisce, afferma che «il bambino è il germoglio dell’uomo che diventerà» e gli dice che è stato fortunato ad avere due donne eccezionali che l’hanno cresciuto: il suo viso «respirava serenità». Passa poi a parlare della situazione politica (come si può vedere le due dimensioni procedono di pari passo) e lo invita a scrivere un libro sulla tragedia dell’Algeria: «Tu devi aiutarli a capire. È tuo dovere; le cose si sono fatte difficili per tutti». Di fronte all’obiezione di Jean: «Ho scritto tanto e mi hanno insultato», il professore ribatte: «Ma io non parlo di un saggio o di articoli per i giornali; parlo di un romanzo. È nei romanzi che si trova la verità. La Russia non è nei libri di storia, ma nelle pagine di Tolstoj, di Dostoevskij». Si domanda poi che fine hanno fatto i valori della Francia (Libertà, Fratellanza, Uguaglianza) in Algeria e conclude: «Il terrore non è la rivoluzione. È quando gli oppressi abbassano la testa, è la violenza del colonialismo. Ti ricordi quando a scuola parlavamo di Roma e dei barbari? C’era una cosa che non vi dicevo: si può stare dalla parte dei barbari».

Passato – Il colloquio con il professore gli fa ricordare un compagno di scuola che lo picchiava sempre e lo offendeva.

Presente – Ed ecco Jean mettersi alla sua ricerca, avventurandosi tra i vicoli della casbah. L’uomo è disperato perché suo figlio è stato condannato a morte; chiede perdono a Jean per le offese e implora il suo aiuto, «in nome di quell’amicizia che non c’è mai stata». Jean si dà da fare e parla con le autorità. Viene a sapere che il ragazzo è stato coinvolto in tre attentati dinamitardi che hanno procurato decine di vittime tra i civili, anche se la sua responsabilità non è stata dimostrata. Jean riesce ad ottenere che il padre possa avere un colloquio con il ragazzo. Il padre implora il figlio di discolparsi, di fare dei nomi, di mentire se necessario. Ma il giovane, nella sua fierezza afferma: «Io non sono innocente, papà. Quand’ero piccolo mi picchiavi se mentivo. Non avere paura».

– Nel frattempo avviene un altro attentato terroristico che provoca distruzione e morte. Jean corre a casa dalla madre, preoccupato. Cerca di tranquillizzarla e le rivolge un bellissimo complimento: «Tutto quello che ho fatto di buono nella vita è a te che lo devo». La madre risponde semplicemente: «Se tu sei contento, a me mi basta».

Passato – Il ricordo lo riporta a scuola, quando frequentava le medie. I suoi compagni sono interrogati a turno e fanno l’apologia della Francia, esaltando la conquista coloniale portatrice di civiltà e di valori. Ma quando è il suo turno il piccolo Jean si limita a recitare una poesia «rubata a tre poeti diversi», rivelando così la sua diversità rispetto agli altri e la sua profonda sensibilità.

– C’è poi una grande festa all’aperto durante la quale Jean ha modo di notare la madre in compagnia di un uomo. Ma il ragazzo fa finta di non vedere e, nonostante la nonna lo redarguisca e lo inviti ad andare a cercare la madre, scappa in riva al mare a giocare e a scherzare con lo zio. Ed ecco che ritorna la domanda cruciale: «Com’era mio padre? Intelligente, serio, allegro?». Lo zio, con il suo linguaggio incerto risponde: «Tuo padre sempre testa dura, testa dura». Jean ribatte: «E perché mia madre si è sposata con lui?». «Testa dura, cuore buono. Sempre insieme bene stanno», risponde lo zio.

– Ancora una punizione da parte della nonna, ma Jean incomincia a scrivere, rivelando la sua passione, sotto lo sguardo complice della madre.

Presente – Jean è in macchina con la madre mentre, tutt’intorno, c’è un movimento di automezzi militari. Jean vuole andare a vedere la casa dove è nato e domanda alla madre: «È ancora lontana la casa?». «Perché tante domande?», ribatte la madre, che non ci tiene particolarmente a rievocare il passato.

– Dopo essere passato a trovare lo zio («innocente come sempre») che si trova in un istituto, Jean insiste con la madre: «Quando sono nato era giorno o notte? Scommetto che c’era il sole». «Era notte e pioveva» è la risposta.

Passato remoto – Viene rappresentata la scena del parto, della sua nascita, delle sue origini. Ed è la prima volta che si vede la figura del padre, quel padre che ride contento prendendo tra le braccia quel bambino appena nato, affermando: «È il primo». È chiaro il riferimento al titolo del film.

Presente – Jean continua a fare domande. Questa volta si rivolge al proprietario di una fattoria vicina al posto dove lui era nato. Cerca dei ricordi, delle tracce, ma non ne trova.

– L’esecuzione del figlio del suo amico lo getta nello sconforto e lo fa partecipare del dolore di quel padre.

– In un discorso alla radio (sul quale si ritornerà), Jean si lascia andare: «Ieri un giovane uomo è morto all’alba, un ragazzo di diciotto anni, il figlio di un mio compagno di scuola. È stato ghigliottinato. Non hanno mai provato la sua colpevolezza e oggi io mi sento più vicino a lui che a tutti quei francesi che parlano dell’Algeria senza conoscerla. Io conosco bene suo padre. E non è l’odio che ho visto sul suo sguardo. È la disperazione e il dolore. Un dolore che io condivido con lui».

– Jean si appresta a ripartire per la Francia (ma prima desidera andare a vedere la tomba del padre). Vorrebbe che la madre andasse con lui, ma la donna è stanca, si sente vecchia, e di fronte alla domanda

di Jean: «Perché vuoi restare qui?», risponde semplicemente: «È bella la Francia, ma non ci sono gli arabi».

– Appena finito questo colloquio tra Jean e la madre l’immagine si allarga e Jean è scomparso. Resta soltanto la madre che guarda nel vuoto. Poi si alza e va a chiudere malinconicamente le persiane.

Significazione – Il film racconta la storia di un viaggio (e di una ricerca). Jean torna nella sua Algeria (molto cambiata da quando lui se n’è andato) per manifestare il suo giudizio storico e politico. Qui ritrova la madre e riporta alla memoria, rivivendolo, il proprio passato; ma si mette anche alla ricerca di quel padre mai conosciuto e delle proprie origini (la nascita). Se la sua permanenza in Algeria gli fa prendere coscienza del dramma che quel paese sta vivendo (il terrorismo, l’esecuzione), che rappresenta la dimensione storico-politica, il tuffo nel passato e la ricerca delle origini gli permettono di conoscere meglio se stesso e di riscoprire il valore degli affetti (la dimensione privata e familiare). Alla fine se ne torna in Francia. Ma prima fa un discorso che manifesta come queste due dimensioni, intrecciandosi, si siano fuse in lui in un’unità indissolubile che porta inevitabilmente ad un’evoluzione sul piano esistenziale. Si può dire pertanto che la significazione del film nasca soprattutto dalla differenza dei due discorsi, quello iniziale, all’università, e quello finale, alla radio. È necessario pertanto ritornare su quel discorso finale. Dopo aver parlato del dolore di quel padre che lui condivide, Jean continua: «L’Algeria non sarà più popolata che di vittime e di assassini, e solo i morti saranno innocenti. Io sono sempre stato e continuo ad essere per un’Algeria giusta, dove tutti potranno avere gli stessi diritti nella legalità. È necessario rendere al popolo algerino ciò che gli è dovuto e di dargli delle leggi pienamente democratiche. Bisogna unire, invece di dividere. Ma così come ho sempre condannato il terrorismo, oggi non posso che condannare quelle azioni compiute dissennatamente nelle strade che un giorno possono colpire anche qualcuno che ci è caro. Io credo nella giustizia, e dico agli arabi: “io vi difenderò ad ogni costo, ma mai contro mia madre, perché lei ha subito come voi le ingiustizie e la sofferenza. E se nella vostra rabbia voi le fate del male, io sarò vostro nemico”». Come si può vedere, quel giudizio storico-politico che aveva “informato” il primo discorso qui non viene sovvertito, ma si arricchisce di ulteriori elementi che tengono conto di quella dimensione affettiva che, umanamente, non può essere ignorata. Jean condanna il terrorismo, ma soprattutto quelle azioni dissennate che non fanno che accrescere il carico di dolore di tante persone innocenti.

Universalizzazione – Nonostante i chiari riferimenti autobiografici, il film non è la biografia o la storia di Albert Camus (e tanto meno di Gianni Amelio). Le due dimensioni che informano tutto il film possiedono una rilevanza universale, che riguarda ogni uomo e ogni periodo storico.

L’idea centrale, pertanto, può essere espressa in questi termini: un giudizio storico e politico è tanto più profondo e completo quanto più è frutto di una conoscenza diretta della realtà e della dimensione personale e affettiva di se stessi e delle altre persone.

NOTE

1 «VIVILCINEMA» n. 2/2012, p. 16.