N.02
Marzo/Aprile 2013

Progetta con Dio… Abita il futuro: per una Chiesa tutta vocazionale

1. Dal bisogno d’amore una ineludibile domanda: la speranza

Il cuore dell’uomo ha bisogno di amare e di essere amato per vivere e per imparare a morire: è un bisogno incancellabile, personale e collettivo. Quest’attesa di amore è così grande, che tutte le esperienze che potrebbero soddisfarla restano prima o poi incompiute, segnate dalla fragilità della vita, dalla caducità delle opere, dalla brevità del tempo, spesso ferite dal male. Ecco perché il bisogno di un amore grande, vittorioso di ogni battaglia, si lega indissolubilmente a una speranza che sia affidabile: in questo senso, la penuria più grande del tempo che viviamo è forse proprio quella della speranza, perché la sete di un amore che vinca la morte risulta troppe volte svenduta o soddisfatta in modo effimero, come avviene nelle tante forme in cui spesso è esibito e offerto oggi l’amore. La penuria che ci unisce tutti è quella di un possibile, impossibile amore, che vinca l’ingiustizia, la solitudine, l’infedeltà e la morte e risani le ferite dell’anima. È per questo che la tentazione più forte che potrebbe proporsi di fronte agli scenari del cuore è la disperazione: «Pensare con chiarezza e non sperare più» (Albert Camus). Se il rischio dei tempi di tranquillità e di relativa sicurezza è la presunzione – l’illusione di poter cambiare facilmente il mondo e la vita –, il rischio opposto – proprio dei tempi di prova – è di vivere. Per una Chiesa tutta vocazionale la paura del domani in maniera più forte della volontà e dell’impegno di prepararlo e di plasmarlo. In realtà, «l’ansietà, il timore dell’avvenire, sono già delle malattie. La speranza, al contrario, è, prima di tutto, una distensione dell’io… Essa entra nella situazione più profonda dell’uomo. Accettarla o rifiutarla è accettare o rifiutare di essere uomo» (Emmanuel Mounier). Accogliere la sfida della speranza vuol dire, allora, volersi veramente umani. Rinunciarvi è rinunciare alla vita. Ne è consapevole Cesare Pavese in questi versi struggenti, scritti poco prima della sua tragica fine, in cui il bisogno di speranza cedette alla disperazione:

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi –

questa morte che ci accompagna

dal mattino alla sera, insonne,

sorda, come un vecchio rimorso

o un vizio assurdo. I tuoi occhi

saranno una vana parola,

un grido taciuto, un silenzio.

Così li vedi ogni mattina

quando su te sola ti pieghi

nello specchio. O cara speranza,

quel giorno sapremo anche noi

che sei la vita e sei il nulla1.

Benedetto XVI ha raccolto questa sfida della speranza, questo bisogno «che ci accompagna dal mattino alla sera», nell’Enciclica intitolata Spe salvi, “salvati nella speranza”, espressione usata dall’Apostolo Paolo nella sua Lettera ai Romani (8,24). Il bisogno di speranza – osserva il Papa – è un’urgenza decisiva, a cui nessuno può sottrarsi se vuol vivere dando senso alla vita: «Il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino» (n. 1). Solo se c’è in noi una speranza certa potremo dare significato ai nostri giorni e riusciremo veramente ad amare, al di là di ogni misura di stanchezza. Nasce da qui la domanda decisiva con cui si confronta Benedetto XVI nell’Enciclica: «Che cosa possiamo sperare? ». Si tratta di un interrogativo che ci riguarda tutti, dal momento che tutti abbiamo bisogno di una «speranza affidabile, in virtù della quale poter affrontare il nostro presente».

La varietà di risposte offerte a questa domanda ne mostra la radicalità e l’ineludibile ritorno. In un’epoca di passioni ideologiche, Roger Garaudy aveva definito la speranza «l’anticipazione militante dell’avvenire», con una sottolineatura – tipica di quella stagione – dello sforzo prometeico del soggetto personale e collettivo nella realizzazione del futuro sognato e atteso. In un contesto analogo, anche se in forma alternativa a un’aspettativa solo mondana, il teologo della speranza, Jürgen Moltmann, l’aveva definita come «l’aurora dell’atteso, nuovo giorno che colora ogni cosa della sua luce», evidenziando come vivere nella speranza significhi «tirare l’avvenire di Dio nel presente del mondo». In questo senso, egli aveva polemizzato col filosofo della speranza, Ernst Bloch, marcando la differenza fra l’“homo absconditus” del “principio speranza”, risolto nelle sole possibilità dell’umano, e il “Deus absconditus”, il Dio nascosto che viene dal futuro, indeducibile e sorprendente rispetto a ogni calcolo o misura del mondo.

Benedetto XVI ricorda come alla domanda decisiva “Che cosa possiamo sperare?” la fede cristiana dia sin dall’inizio una risposta chiara: «La redenzione, la salvezza… ci è offerta nel senso che ci è stata donata la speranza» (Spe Salvi, n. 1). Dire che la speranza è dono non significa, tuttavia, ignorare lo sforzo che essa esige: «Oggetto della speranza – affermava già Tommaso d’Aquino – è un bene futuro, arduo, ma possibile a conseguirsi»2. Sperare non è la semplice dilatazione del desiderio, ma l’orientare il cuore e la vita ad una meta alta, che valga la pena di essere raggiunta e che tuttavia appare raggiungibile solo a prezzo di uno sforzo serio, perseverante, onesto, capace di sostenere la fatica di un lungo cammino. Nello stesso senso, Kierkegaard aveva definito la speranza «la passione per ciò che è possibile», mettendo in particolare l’accento sull’elemento del “pathos”, di quell’amore doloroso e gioioso che lega il cuore umano a ciò di cui ha profonda nostalgia e attesa. Basta tuttavia il solo sforzo umano per incontrare la speranza che non delude?

  1. La speranza affidabile: “emancipazione” o “redenzione”?

In verità, sulla speranza si confrontano due diverse concezioni dell’uomo: c’è una visione del mondo che fa della speranza la proiezione in avanti delle possibilità dell’umano, un’espressione della capacità

dell’uomo di trasformare il mondo e la vita in una sorta di anticipazione militante dell’avvenire. È la visione moderna, legata alla nascita del protagonista adulto ed emancipato della scienza e della filosofia del progresso: «La restaurazione del “paradiso” perduto – afferma Benedetto XVI –, non si attende più dalla fede, ma dal collegamento tra scienza e prassi… la speranza ora si chiama: fede nel progresso» (n. 17). Con Marx, poi, «la critica del cielo si trasforma nella critica della terra, la critica della teologia nella critica politica. Il progresso verso il meglio, verso il mondo definitivamente buono, non viene più semplicemente dalla scienza, ma dalla politica – da una politica pensata scientificamente, che sa riconoscere la struttura della storia e della società e indica così la strada verso la rivoluzione, verso il cambiamento di tutte le cose» (n. 20).

Di fronte a queste interpretazioni della speranza si pone la visione cristiana: la salvezza attesa e sperata non è un fiore della terra, spuntato esclusivamente grazie alla fatica dell’uomo, ma è dono dall’alto, certamente preparato e atteso, e tuttavia sempre sorprendente e irriducibile a un calcolo puramente umano. Si profila così la scelta fra due diverse visioni di ciò che possiamo sperare: l’“emancipazione” o la “redenzione”, il futuro come realizzazione delle potenzialità del soggetto storico o il domani come frutto dell’alleanza fra l’attesa umana e il dono divino. Quale delle due possibilità promuove veramente la causa dell’uomo? L’Enciclica Spe salvi vuol mostrare come la risposta a questa domanda provenga dalla stessa parabola della “via moderna”: una speranza umana, troppo umana, non ha prodotto maggiore libertà, uguaglianza e fraternità. Come provano le avventure ideologiche dell’epoca moderna, la speranza affidata al solo portatore umano è sfociata nell’inferno dei totalitarismi, dei genocidi e delle solitudini, in cui l’altro è stato ridotto ad avversario da eliminare o a semplice “straniero morale” da ignorare.

Afferma il Papa: «Marx ha dimenticato l’uomo e ha dimenticato la sua libertà. Ha dimenticato che la libertà rimane sempre libertà, anche per il male. Credeva che, una volta messa a posto l’economia, tutto sarebbe stato a posto. Il suo vero errore è il materialismo: l’uomo, infatti, non è solo il prodotto di condizioni economiche e non è possibile risanarlo solamente dall’esterno creando condizioni economiche favorevoli» (n. 21). Non diversamente la tecnica e la scienza si sono rivelate fallaci nelle loro pretese assolute: «Se al progresso tecnico non corrisponde un progresso nella formazione etica dell’uomo, nella crescita dell’uomo interiore, allora esso non è un progresso, ma una minaccia per l’uomo e per il mondo» (n. 22). Insomma, «non è la scienza che redime l’uomo. L’uomo viene redento mediante l’amore. Ciò vale già nell’ambito puramente intramondano. Quando uno nella sua vita fa l’esperienza di un grande amore, quello è un momento di redenzione che dà un senso nuovo alla sua vita» (n. 26). La speranza, insomma, non è qualcosa che possiamo creare e gestire con le nostre sole forze: la speranza è Qualcuno che viene a noi, trascendente e sovrano, libero e liberante per noi. È questo il dono della speranza che si è realizzato in Gesù Cristo: in Lui si è offerto all’uomo il “Deus adveniens”, il Dio dell’avvento, il Dio che ha tempo per l’uomo. Venuto fra noi nella pienezza del tempo, il Verbo fatto carne ha dischiuso un cammino, ha acceso un’attesa, ancora più grande del compimento realizzato. È questo il kérygma, la proclamazione gioiosa del Dio con noi, l’eterno Emmanuele. Perciò, nella tradizione cristiana l’avvento di Dio nella storia è pensato come revelatio, uno svelarsi che vela, un venire che apre cammino, un ostendersi nel ritrarsi che attira. Negli ultimi secoli la teologia cristiana aveva concepito la rivelazione soprattutto come Offenbarung, apertura, manifestazione totale. Così, in essa l’avvento di Dio era stato spesso pensato come esibizione senza riserve e si era aperto il campo alla sostituzione della speranza della redenzione con quella frutto dell’emancipazione. È questa presunzione di ridurre Dio a certezza disponibile alle nostre catture la pretesa dell’ideologia moderna, in tutte le sue forme. Il Dio dell’ideologia è possesso, non vita: è il Dio oggetto, non il Dio dell’esodo e del Regno. Interpretare la rivelazione come manifestazione totale, risposta incondizionata e senza riserve alle domande del nostro cuore o della nostra mente, è l’opposto dell’annuncio cristiano dell’avvento divino e della speranza che esso fonda.

È allora necessario liberarsi dal fraintendimento radicale del concetto di rivelazione. Perché revelatio è, sì, un togliere il velo, ma è anche un più forte nascondere. Re-velare è anche un’intensificazione del velare, un nuovamente velare. È questo l’avvento di Dio nelle nostre parole, nella nostra carne: rivelandosi, l’Eterno non solo si è detto, ma si è anche più altamente taciuto. Rivelandosi Dio si vela. Comunicandosi si nasconde. Parlando si tace. Maestro del desiderio, Dio è colui che dando se stesso, al tempo stesso si nasconde allo sguardo. Dio è colui che, rapendoti il cuore, si offre a te sempre nuovo e lontano, Dio della promessa e delle cose sperate. Il Dio di Gesù Cristo è inseparabilmente il Dio rivelato e nascosto, absconditus in revelatione – revelatus in absconditate! Perciò, la rivelazione non è ideologia, visione totale, ma è parola che schiude i sentieri abissali dell’eterno Silenzio. E perciò la fede nel “già” del primo avvento è inseparabile dall’attesa del “non ancora”, quando il Figlio tornerà nella gloria e giungeranno a compimento le promesse di Dio.

Questa intuizione è presente fin dalle origini della fede cristiana, che riconosce ben presto il Cristo come «il Verbo procedente dal Silenzio » (Sant’Ignazio di Antiochia, Ad Magnesios, 8). Essa permane nella grande tradizione della fede, specialmente nella testimonianza dei mistici. San Giovanni della Croce in una delle sue Sentenze d’amore dice: «Il Padre pronunciò la Parola in un eterno silenzio, ed è in silenzio che essa deve essere ascoltata dagli uomini». Credere nella Parola dell’avvento sarà allora lasciare che la Parola ci introduca ai sentieri del Silenzio, ci contagi questo Silenzio e ci apra a dire nello Spirito le parole della vita. Perciò è doveroso non pronunciare mai la Parola senza prima aver lungamente camminato nei sentieri del Silenzio. Così, la Parola sta fra due silenzi, il Silenzio dell’origine e il Silenzio della patria, il Padre e lo Spirito Santo. Tra questi due Silenzi – gli “altissima silentia Dei” – è la dimora del Verbo: qui la fede si congiunge sempre di nuovo alla speranza teologale.

È questa la speranza di cui ha bisogno il cuore di ogni uomo affamato d’amore: la speranza affidabile in un possibile, impossibile amore, che vinca l’ingiustizia, la solitudine, l’infedeltà e la morte e risani le ferite dell’anima, impossibile alle sole nostre forze, reso possibile dal dono di Dio. È un poeta, Renzo Barsacchi, a farsene voce singolare, in una lirica scritta scrutando l’ultima soglia con la luce offerta dalla speranza della fede:

Portami via per mano ad occhi chiusi

senza un addio che mi trattenga ancora

tra quanti amai, tra le piccole cose

che mi fecero vivo.

Non credevo, Signore, tanto profondo fosse

questo sfiorarsi d’ombre, questo lieve

alitarsi la vita nello specchio

fragile di uno sguardo,

né pensavo che il mondo

divenisse, abbuiando, così acceso

di impensate bellezze3.

  1. La speranza della fede

Consapevoli o meno, tutti abbiamo bisogno di questa speranza più grande, ultima al di là di ogni orizzonte penultimo. La fede cristiana ne riconosce il fondamento nel futuro di Dio, dischiuso all’uomo come patto e promessa nella risurrezione di Gesù Cristo dai morti. Nel Crocefisso risorto Dio ha avuto tempo per l’uomo: l’Eterno è uscito dal silenzio perché la nostra storia entrasse nel Silenzio della patria e vi potesse dimorare. L’incontro dell’umano andare e del divino venire è la speranza della fede. Essa è lotta, agonia, non riposo tranquillo di certezza posseduta. Chi pensa di avere fede senza lottare, non crede. La fede è come l’esperienza di Giacobbe al guado dello Yabbok: Dio è l’assalitore notturno, l’Altro, fuoco divorante. Se l’incontro con Lui fosse soltanto tranquilla ripetizione di gesti sempre uguali e senza passione d’amore, Egli non sarebbe il Dio vivente, ma il “Deus mortuus”, “otiosus”. Perciò Pascal affermava che Cristo sarà in agonia fino alla fine del tempo: questa è l’agonia dei cristiani, la lotta di credere, sperare e amare, la lotta con Dio!

Ecco perché il desiderio e la “sancta inquietudo”, l’inquietudine cioè della ricerca insonne del Mistero divino, abiteranno sempre la speranza della fede: l’aver conosciuto il Signore non esimerà nessuno dal cercare sempre più la luce del Suo Volto, accenderà anzi sempre più la sete dell’attesa. Il credente è e resta in questo senso un cercatore di Dio, un mendicante del Cielo, sulle cui labbra risuonerà

sempre la struggente invocazione del Salmista: «Il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto» (Salmo 27,8s). Davide, l’amato, cerca il volto rivelato e nascosto del suo Dio: volto rivelato, perché non potrebbe essere cercato se in qualche misura non avesse già raggiunto e rapito il suo cuore; e, tuttavia, volto nascosto, perché resta ardente in quello stesso cuore il desiderio della visione. Nella notte del tempo la sua anima si mostra ancora assetata della luce dell’Eterno. Il volto del Signore vuole essere sempre cercato: lo lascia intendere anche il termine ebraico “panim”, “volto”, vocabolo plurale, che dice come il volto sia continuamente nuovo e diverso, mai uguale a se stesso eppure sempre lo stesso, com’è l’amore di Dio, fedele in eterno e proprio perciò nuovo in ogni stagione del cuore.

In questa incessante ricerca del Volto amato, il credente, riconoscendosi raggiunto, toccato e trasformato dal divino Altro, rivelato e nascosto, vive la propria resa al Signore: che cos’è la speranza della fede, se non il lasciarsi far prigionieri dell’Invisibile? Questo avviene in un incontro sempre nuovo, mai dato per scontato: chi crede non è mai un arrivato, vive da pellegrino in una sorta di conoscenza

notturna che sta fra il primo e l’ultimo avvento del Signore, già confortata dalla luce che è venuta a splendere nelle tenebre e tuttavia in una continua ricerca, assetata di aurora. Pellegrino verso la luce, già conosciuta e non ancora pienamente raggiunta, chi crede spera, avanza nella notte, appeso alla Croce del Figlio, vera stella della redenzione. La speranza della fede non è l’assenza di lotta, di agonia, di passione, ma è il vivere arresi all’Altro, allo Straniero che invita, al Dio vivente: la fede è scandalo, non risposta tranquilla alle nostre domande, ma, come lo è Cristo, sovversione di ogni nostra domanda, ricerca del suo Volto, desiderato, rivelato e nascosto, e proprio così sorgente di pace e di luce sempre nuove.

Crederemo nel Dio della speranza se saremo sempre cercatori del Suo volto, guidati dalla stella venuta nella notte, Gesù, in un sempre nuovo inizio. Perciò, fede e speranza sono inseparabili. E perciò il credente non è che un povero ateo, che ogni giorno si sforza di cominciare a credere. Se non fosse tale, la sua speranza non sarebbe altro che una rassicurazione mondana, una delle tante ideologie che hanno illuso il mondo e prodotto l’alienazione dell’uomo. La sua luce resterebbe quella del tramonto: «La terra interamente illuminata risplende di trionfale sventura» (M. Horkheimer – Th.W. Adorno). Diversamente da ogni ideologia, la fede è un continuo convertirsi a Dio, un continuo consegnargli il cuore, e la speranza che da essa nasce è un cominciare ogni giorno in modo nuovo a vivere la fatica di amare Dio e il prossimo. La speranza della fede è aurora di chi sa aprirsi all’oltre e al nuovo del Dio che viene nello stupore e nell’adorazione.

Da questa apologia della ricerca animata dalla speranza, di cui i pellegrini guidati dalla stella sono modello fino all’approdo pervaso dallo stupore dell’adorazione, viene allora un grande no: il no alla negligenza della fede, il no ad una fede indolente, statica ed abitudinaria. E ne viene il sì ad una fede interrogante, capace ogni giorno di ricominciare a sperare, consegnandosi perdutamente all’altro, per vivere l’esodo senza ritorno verso il Silenzio di Dio, dischiuso e celato nella Sua Parola. Quel no raggiunge però anche il non credente tranquillo, incapace di aprirsi alla sfida del Mistero, attestato nella presunzione del “come se Dio non ci fosse”, non disposto a rischiare la vita “come se Dio esistesse”: il no va detto anche al disimpegno del pensiero, come il sì al mettersi sempre di nuovo in ricerca, in questione, da pellegrini della speranza. Se c’è una differenza da marcare, allora, nella ricerca di speranza affidabile, che è in fondo la ricerca di Dio, non è anzitutto quella tra credenti e non credenti, ma l’altra tra pensanti e non pensanti, tra uomini e donne che hanno il coraggio di continuare a cercare per credere, sperare e amare, e uomini e donne che hanno rinunciato alla lotta e non sanno più accendersi di desiderio e di nostalgia al pensiero dell’ultimo orizzonte e dell’ultima patria.

Il Dio vivente chiede una fede in Lui viva, fatta di lotta, di resa, di speranza sempre nuova, fedele per sempre: «La vera, grande spe  ranza dell’uomo, quella che resiste nonostante tutte le delusioni, può essere solo Dio – il Dio che ci ha amati e ci ama tuttora “sino alla fine”» (n. 27). In questo senso, si comprende perché la conoscenza di Dio è non solo “docta fides”, ma anche “docta spes”, speranza portata al concetto. A testimoniarlo vorrei richiamare una voce poetica che mostra bene come la relazione d’amore con Dio – fondamento della speranza della fede – possa essere vissuta sempre e solo come unità di vita e di morte a favore della vita, cammino nella speranza della fede. Si tratta dei versi di Ada Negri, intitolati Atto d’amore:

 

Non seppi dirti quant’io t’amo, Dio

nel quale credo, Dio che sei la vita

vivente, e quella già vissuta e quella

ch’è da viver più oltre: oltre i confini

dei mondi, e dove non esiste il tempo.

Non seppi; – ma a Te nulla occulto resta

di ciò che tace nel profondo. Ogni atto

di vita, in me, fu amore. Ed io credetti

fosse per l’uomo, o l’opera, o la patria

terrena, o i nati dal mio saldo ceppo,

o i fior, le piante, i frutti che dal sole

hanno sostanza, nutrimento e luce;

ma fu amore di Te, che in ogni cosa

e creatura sei presente. Ed ora

che ad uno ad uno caddero al mio fianco

i compagni di strada, e più sommesse

si fan le voci della terra, il tuo

volto rifulge di splendor più forte,

e la tua voce è cantico di gloria.

Or – Dio che sempre amai – t’amo sapendo

d’amarti; e l’ineffabile certezza

che tutto fu giustizia, anche il dolore,

tutto fu bene, anche il mio male, tutto

per me Tu fosti e sei, mi fa tremante

d’una gioia più grande della morte.

Resta con me, poi che la sera scende

sulla mia casa con misericordia

d’ombre e di stelle. Ch’io ti porga, al desco

umile, il poco pane e l’acqua pura

della mia povertà. Resta Tu solo

accanto a me tua serva; e, nel silenzio

degli esseri, il mio cuore oda Te solo4.

 

  1. Apprendere a sperare: l’invocazione, la vocazione, l’obbedienza, il servizio

Se c’è allora un dono da chiedere a Dio per tutti, questo è la speranza teologale: una speranza più forte di ogni calcolo, umile e fiduciosa nella promessa del Dio venuto a visitarci per iniziare il Suo domani con noi. La salvezza non è semplice emancipazione. È dono, grazia da accogliere, oltre ogni calcolo e misura: «La fede non è soltanto un personale protendersi verso le cose che devono venire ma sono ancora totalmente assenti; essa ci dà qualcosa. Ci dà già ora qualcosa della realtà attesa, e questa realtà presente costituisce per noi una “prova” delle cose che ancora non si vedono. Essa attira dentro il presente il futuro» (Spe salvi, n. 7). La speranza non è qualcosa che possiamo creare e gestire con le nostre sole forze: la speranza è il Figlio eterno che ci viene incontro nel tempo e possiede il cuore di chi lo accoglie, Lui per il quale vale la pena di vivere e amare e soffrire, radicati e fondati sulle parole della Sua promessa: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Come apprendere a sperare così? Benedetto XVI propone alcune vie, capaci di aprirci al dono della speranza, che viene a noi: la preghiera; la disponibilità a pagare un prezzo d’amore per realizzare la speranza, soprattutto al servizio di chi soffre; l’obbedienza al giudizio di Dio, misura di verità e di giustizia per ogni scelta e sorgente di senso e di bellezza per il cuore che l’accolga. La preghiera è lo spazio dell’invocazione, in cui – lasciandosi amare da Dio – il cuore si apre alle sorprese del Suo avvento, si fa invocazione, desiderio, attesa. Chi più prega, più spera! Nella preghiera ci rendiamo disponibili all’ascolto del Signore, docili alla luce che Egli vuol darci, per discernere le vie su cui vuole condurci e corrispondere ai doni che ci fa. Pregare, in questa prospettiva, vuol dire lasciarsi amare da Dio, lasciare che sia lui a plasmarci secondo i disegni della Sua grazia. Proprio così la preghiera è l’atmosfera in cui si fa strada per ciascuno il discernimento della propria vocazione, della chiamata cioè rivolta dal Padre celeste a ciascuno, perché nella sequela di Gesù e nella forza dello Spirito realizzi con speranza e amore la propria vita al servizio del prossimo e per la gloria della Trinità. Pregando, ci si apre al giudizio di Dio, al fuoco, cioè, della verità che ci guida verso il Suo futuro e ci fa comprendere la vuotezza di ogni scelta o progetto che sia unicamente secondo le misure dei nostri egoismi e delle nostre paure. Sotto il sole di Dio s’impara ad accogliere il Suo domani, lasciando il nostro presente in un esodo sempre nuovo della speranza. Obbedendo al giudizio di Dio si corrisponde nella libertà e nella generosità dell’amore al Suo disegno su ciascuno di noi e si accetta di essere strumenti della Sua pace per la salvezza del mondo. Si realizza così il servizio cui siamo chiamati, forma concreta dell’esodo da sé senza ritorno, che libera il cuore e lo educa ad amare l’altro, lasciandosi abitare e condurre dal Signore. Nella preghiera, in obbedienza a Dio e nella disponibilità a servirlo, la vita vissuta nella speranza della fede diviene compimento di una vocazione, di quel legame misterioso e vitale, cioè, che unisce il pellegrino del tempo alla sua sorgente eterna. La vocazione viene dall’alto e tende verso l’alto: è speranza donata dalla prima Origine e cammino proteso verso l’ultima meta. Venendo da Dio, la vocazione non può essere orientata che a Lui: proprio così essa anima tutti i moti della coscienza, orientandoli a Colui da cui provengono. Rispondere alla vocazione, consegnando se stessi senza riserve a Dio, vuol dire vivere in pienezza, perché «l’unico atto col quale l’uomo può corrispondere al Dio che si rivela è quello della disponibilità illimitata»5. L’incondizionata docilità rende aperti al soffio dello Spirito, di cui si fa esperienza nella preghiera e nell’obbedienza della fede: accogliere la vocazione è lasciarsi condurre come foglia nel vento della Pentecoste. È nella docilità al vento dello Spirito che ogni dono ci è dato per essere a nostra volta donato: «Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,22). Vivere la vocazione come vita secondo lo Spirito è destinarsi agli altri nell’amore, in quell’esodo da sé senza ritorno in cui solo ci è dato raggiungere il compimento del nostro essere secondo il disegno di Dio. Si comprende, allora, perché il discernimento e la risposta della chiamata divina siano decisivi. E poiché entrambi non sono facili, si intende quanto ci sia bisogno di maestri dell’esperienza dello Spirito, che siano guide al discernimento, che aiutino con fede e prudenza la persona a comprendere le vie di Dio. Scrive Hans Urs von Balthasar: «I giovani cristiani che hanno a che fare con interrogativi vocazionali hanno urgentissimamente bisogno di essere guidati da personalità esperte, oranti, di spirito meditativo, oggi in maniera ancora più urgente che nel passato della storia della Chiesa»6. Solo con simili aiuti il cuore di chi cerca la propria strada in Dio può riconoscere con piena libertà interiore il soffio dello Spirito e lasciarsi sospingere da esso verso un impegno che – per essere vero e adeguato alla sorgente che lo ispira – non può che essere definitivo ed eterno: «La vocazione esige tutta la vita dell’uomo e richiede una corrispondente, totale risposta. L’“una volta per sempre” del dono appartiene alla forma fondamentale di ogni vocazione»7. Questo ci riconduce al tema della speranza affidabile, fondata in Dio, senza la quale nessun impegno d’amore eterno, definitivo e stabile per tutta la vita, potrà mai apparire possibile o essere realizzato. È la speranza a dare le ali necessarie per volare alto, nel servizio fedele alla gioia di tutti secondo il disegno divino. Di una tale speranza abbiamo bisogno per vivere e costruire il domani, ad essa ogni cuore deve aprirsi se vuole raggiungere la felicità cui è chiamato, nel discernimento e nella realizzazione della vocazione che Dio ha preparato per ciascuno, in vista del bene di tutti.

Scoprire e vivere la propria vocazione significa, allora, accettare di divenire – come dice il Profeta – «prigionieri della speranza» (cf Zc 9,12), di quella speranza che non delude e non deluderà mai, la sola che vince la morte e dona senso alla vita. Si tratta della speranza del Dio tre volte santo, quella rivelata nel Figlio fatto carne per noi, la speranza che dà soffio, corpo e ali alla realizzazione e al compimento di ogni vita, vissuta come vocazione. A Cristo, elevato sulla Croce per dare a noi la salvezza nel tempo e per l’eternità, a Lui che è la speranza che ha vinto e vincerà la morte, origine, fondamento e meta di ogni vocazione, può innalzarsi la preghiera fiduciosa della Chiesa e di ogni cuore, desideroso di discernere e realizzare il disegno d’amore, cui dall’eterno è chiamato. Possiamo farlo con queste bellissime parole, attribuite a Sant’Agostino: «Signore Gesù, conoscermi, conoscerti, non desiderare null’altro che Te, dimenticarmi e amarti, agire solo per amor tuo. Non avere altri che Te nella mia mente, morire a me stesso per vivere in Te. Qualunque cosa accada, riceverla da Te. Rinunciare a me per seguirTi, desiderare di seguirTi sempre. Fuggire me stesso, rifugiarmi in Te, per essere difeso da Te. Temermi e temerTi, per essere accolto fra i Tuoi eletti. Diffidare di me, confidare solo in Te. Voler obbedire a causa Tua. Non attaccarmi a null’altro che a Te, essere povero per Te. Guardami e Ti amerò: chiamami perché Ti veda e goda di Te eternamente. Amen!».