N.05
Settembre/Ottobre 2013
Studi /

La pastorale vocazionale nella vita di Don Pino Puglisi

  1. Puglisi direttore del CDV1

Dall’anno 1978 al 1990 don Pino Puglisi è chiamato dal Card. Salvatore Pappalardo prima ad affiancare il lavoro di Mons. Francesco Pizzo, fondatore e primo direttore del CDV, e poi a dirigere lo stesso CDV. Durante i primi anni di questo periodo egli guiderà la comunità vocazionale della diocesi, un gruppo di giovani che frequentano la scuola media superiore e che vivono insieme con lui per maturare una scelta vocazionale.

Sono anni molto importanti per la sua esperienza pastorale, sia per ciò che sta avvenendo in Diocesi di Palermo, sia per la stessa persona di Puglisi. Nella Chiesa di Palermo, infatti, già sul finire degli anni ‘70, si porta avanti il rinnovamento ecclesiologico postconciliare. Fin dagli inizi del suo episcopato, infatti, il Card. Salvatore Pappalardo ha molto valorizzato le spinte rinnovatrici del Concilio Vaticano II, soprattutto per quanto riguarda la partecipazione ecclesiale e la promozione adulta e matura del laicato. Nella Chiesa di Palermo, pertanto, si parla della fondamentale uguaglianza di tutti i membri del popolo di Dio, che implica il diritto-dovere della partecipazione a tutte le attività della Chiesa e ai suoi specifici organismi di partecipazione ecclesiale. Si mette a fuoco l’idea di una Chiesa tutta ministeriale, dove ogni battezzato sa chi è e cosa deve fare e si discute, quindi, di cosa devono essere e come devono funzionare i Consigli Pastorali, sia il diocesano sia i parrocchiali.

Si sviluppa, ancora, una seria riforma liturgica che dà indicazioni chiare su come la liturgia debba uscire dalle secche del devozionismo e del rubricismo per diventare l’espressione principe della soggettualità del popolo. Nascono ancora, in quegli anni, i vari Centri di pastorale diocesana, tutti accompagnati da un relativo Piano di pastorale. Dentro questo contesto, appena accennato, don Puglisi è così chiamato ad operare un passaggio dal suo essere parroco a Godrano, piccolo paese di montagna in provincia di Palermo, dove vive un’esperienza altamente formativa per il suo ministero, a diventare direttore del Centro Diocesano Vocazioni (CDV).

Quali sono le idee e le realizzazioni pastorali che caratterizzano don Puglisi in questo decennio?

In profonda continuità con l’esperienza iniziata da Mons. Francesco Pizzo e sulla scorta delle indicazioni del Centro Nazionale Vocazioni, Puglisi traccia, in occasione di una sua relazione svolta al Convegno delle Chiese di Sicilia del 1984, le linee fondamentali della rinnovata pastorale vocazionale. Le riportiamo fedelmente perché rappresentative delle sue più profonde convinzioni pastorali.

  1. A partire da una fondazione teologica del tema “La vocazione e le vocazioni”, prospettare la creazione di una mentalità vocazionale in tutto il popolo di Dio («La Chiesa particolare si identifica con tutte le vocazioni di cui è costituita» dirà poi il documento conclusivo del 12° Congresso Internazionale delle Vocazioni) per far maturare l’immagine conciliare di una Chiesa tutta ministeriale (Evangelizzazione e ministeri, 92);
  2. avendo particolare riguardo alle vocazioni, al ministero ordinato e alla verginità sponsale;
  3. abbandonando la tecnica del reclutamento per la pastorale del risveglio, promozione ed orientamento delle vocazioni;
  4. cercando di coordinare l’attività di tutti gli animatori vocazionali parrocchiali e non, religiosi e laici;
  5. inserendo vitalmente la pastorale vocazionale nella pastorale globale della Chiesa locale: liturgica, catechistica, giovanile, della carità… con la promozione di un coordinamento con gli organismi pastorali e soprattutto con la sensibilizzazione delle parrocchie e, attraverso esse, delle famiglie2.

Si tratta, allora, di abbandonare in forma definitiva l’equivalenza tra pastorale vocazionale e «tecnica di reclutamento» – espressione molto dura, significativa della mentalità radicale di don Puglisi e, più in generale, del Centro Nazionale Vocazioni e della svolta vocazionale di quei tempi – dei candidati agli Ordini e delle vocazioni di speciale consacrazione, che rendeva tra l’altro la stessa pastorale vocazionale una semplice pastorale di settore, assieme a tante altre. La pastorale vocazionale, invece, sulla scorta di una precisa ecclesiologia – di comunione e tutta ministeriale – deve essere a servizio di tutto il popolo di Dio, ben corrispondendo così all’idea stessa di vocazione che presiede ad ogni singolo servizio e ministero nella e della Chiesa3. La linea vocazionale, infatti, è ciò che permette a tutta la pastorale di non considerare le azioni ecclesiali come semplici funzioni a determinati bisogni, ma piuttosto risposta di fede ad una chiamata di Dio che interpella ogni uomo nella singola situazione storica concreta. A ben vedere, è tutta la vita nella sua interezza che è vocazione.

Abbiamo bisogno di persone che siano consapevoli che la vita ha un senso perché è una vocazione; bisogno cioè di persone consapevoli di essere chiamate da Dio nelle comunità in cui vivono per rendere ciascuna un servizio singolare, unico, irrepetibile, indispensabile, complementare a quello degli altri, per dar vita a vere comunità che vivano la comunione nella varietà dei carismi e dei ministeri, dei talenti e dei servizi4.

La pastorale vocazionale si situa così come una pastorale trasversale. I suoi temi dovranno, quindi, traversare tutte le singole pastorali settoriali e coniugarsi con i loro temi tipici. L’incontro e la collaborazione con tutte le altre pastorali risultano, pertanto, un dovere non soltanto per un motivo comunionale, ma piuttosto perché è un preciso modo d’essere della natura della stessa pastorale vocazionale, che è appunto trasversale. Se c’è un ruolo specifico che tale pastorale assume all’interno di questa trasversalità, è nel coordinamento di tutti gli animatori e dei gruppi vocazionali, delle parrocchie, dei movimenti e degli istituti di vita consacrata, e nella promozione di corsi di formazione, di campi vocazionali, di mostre e di altre iniziative similari con l’evidente scopo di animazione e mai di sostituzione a quanto, doverosamente, comunità ecclesiali e pastorali di settore devono mettere in atto per corrispondere alla istanza vocazionale del loro stesso essere.

Queste idee estremamente chiare allontanano, semmai ce ne fosse stato bisogno, don Puglisi da prospettive anche minimamente clericali e si concretizzano in una parola chiara che emerge più volte dai suoi scritti: collaborazione5. Per don Puglisi è importantissima la collaborazione tra tutti i membri del CDV, individuati all’interno delle varie componenti del popolo santo di Dio (tra queste sottolineava con orgoglio la presenza numerosa dei religiosi e delle religiose), tra gli animatori vocazionali, tra i membri del CDV e il vicariato, le parrocchie, i movimenti ecclesiali, il seminario, le altre pastorali diocesane, il volontariato, singole donne e singoli uomini. La mentalità di collaborazione, che al di là di ogni mentalità efficientistica è epifanica di una mentalità veramente comunionale, lo porta ad individuare quelle dinamiche che sono più partecipative per il buon svolgimento del CDV.

Le attività realizzate negli anni ‘80 sono molto varie e ricche: sussidi per il mese vocazionale, cura della celebrazione della Giornata Mondiale di preghiere per le vocazioni, corsi di formazione per operatori appartenenti a diverse aree pastorali, incontri di testimonianza e di esperienza sulle diverse vocazioni nella Chiesa, incontri di preghiera, campi vocazionali, attività di animazione nelle parrocchie e nei movimenti6. Tra tutte queste ci sembra opportuno ricordare gli incontri di preghiera del II giovedì del mese, che per molti anni hanno rappresentato per tanti giovani un appuntamento importante per la loro formazione spirituale7.

Mi si può chiedere: quale incidenza ha il lavoro del CDV nella pastorale della diocesi e della parrocchia in particolare? Non saprei rispondere con precisione; certo siamo ben lontani dal poter dire che tutte le parrocchie promuovono un progetto pastorale che preveda come meta una comunità tutta ministeriale e come linea intermedia degli itinerari di discernimento e accompagnamento vocazionale che attraversino il servizio liturgico, di catechesi, di carità. Forse perché parecchi presbiteri sono ancora convinti che la pastorale vocazionale sia non un modo di essere di tutta la pastorale, ma un settore a parte, un qualcosa da aggiungere a tutte le altre cose da fare in parrocchia, un optional non del tutto necessario, che si può tralasciare. Forse perché parecchi non hanno avuto il tempo di leggere il Piano di pastorale vocazionale diocesano pubblicato nel 1980. Ci sono tuttavia segni di speranza (…) penso per esempio alla comunità vocazionale. (…) Una comunità vocazionale o almeno un gruppo vocazionale potrebbe nascere in ogni parrocchia. (…) Ma il segno più promettente di speranza sta nello auspicato, e già in via di realizzazione, rinnovamento della parrocchia, rinnovamento pastorale del Parroco8.

A fronte, allora, della denuncia della pigrizia di tanti preti nell’entrare in una vera e propria mentalità ecclesiale, cioè comunionale e vocazionale, Puglisi individua preziosi motivi di speranza nei pochi gruppi e comunità vocazionali e, soprattutto, nel rinnovamento della parrocchia e del parroco. Quest’affermazione è estremamente importante, perché rende evidente che il problema di una buona incidenza della pastorale vocazionale nella più ampia pastorale delle parrocchie e della diocesi non consiste tanto nella creazione di gruppi e comunità vocazionali, che in ogni caso non perdono la loro importanza in ordine alla specifica animazione che essi possono svolgere, ma piuttosto nel rinnovamento globale, profondo ed effettivo delle parrocchie e dei parroci. Solo attraverso questo reale rinnovamento si può arrivare all’esercizio di una buona pastorale vocazionale, che sia veramente fondativa e trasversale di tutta quanta la pastorale9.

Fin qui il contesto pastorale e alcuni tratti dell’azione pastorale di Puglisi come direttore del CDV. Si deve ora andare più in profondità, cercando di mettere a fuoco i nodi principali della sua vita e del suo pensiero, soprattutto in ordine allo stretto legame tra evangelizzazione10 e vocazione.

 

  1. Il nodo evangelizzazione e vocazione

La vocazione, per Puglisi, è a fondamento di ogni specifico servizio, anche di quelli che non sono immediatamente classificabili come ministeri intra-ecclesiali, quali il servizio culturale, la politica, l’amministrazione, alcuni settori del volontariato, ecc. In questo senso, essa non inerisce in forma esclusiva alla compagine ecclesiale, come se fosse un dono che Dio riserva solo ai membri della sua Chiesa. Essa è, invece, comprensibile nell’ottica del rapporto personale che Dio stringe con ogni uomo e con ogni donna, perché è la chiamata che Dio pone loro perché siano se stessi autenticamente.

Se c’è, perciò, uno specifico servizio che la Chiesa può e deve rendere a questo delicato rapporto interpersonale, fatto di grazia e di libertà, è quello del discernimento. Esso si fa all’interno di una vera e propria lettura della Parola di Dio in situazione.

Ma, innanzitutto, abbiamo bisogno di persone che si mettano a servizio delle vocazioni, di persone, cioè, che siano a servizio dei fratelli, ponendosi accanto a ciascuno per un cammino graduale di discernimento; persone che, a tal fine, diano indicazioni, alla luce della Parola di Dio letta in situazione, perché ciascuno capisca qual è il servizio che deve rendere11.

Questa breve riflessione è fondamentale, ma mostra il fianco ad una certa ambivalenza. Il problema è presto detto: come intendere l’espressione «alla luce della Parola di Dio letta in situazione»? Si tratta, infatti, di una situazione – si passi il termine – “privata, personale”? O si tratta, invece, di una situazione storico-culturale-sociale?

Sicuramente, si può comprendere nella prima accezione, che in ogni caso è da rispettare per il livello squisitamente personale in cui il discernimento avviene, ma si deve ritenere che qui vi sia presente anche la seconda accezione. E per due ordini di motivi: 1) sappiamo che don Pino Puglisi non era “bravo” nel discernimento personale e per questo rimandava ad altri12, ma questo non escludeva – anzi – che egli svolgesse questa «lettura della Parola di Dio in situazione»; 2) sappiamo ancora, che in tutta la sua vita – soprattutto quando ha esercitato il ministero di parroco – è stato molto attento a coniugare la lettura esegetica del Vangelo con la lettura socio-culturale del territorio perché diventasse una lettura sapienziale13. Questa seconda considerazione è decisiva per pensare che egli abbia praticato la seconda accezione della «Parola di Dio letta in situazione», che poi è l’accezione con cui normalmente la intendono catecheti e pastoralisti.

Questo dato ci permette di capire alcune cose del pensiero di don Pino.

Innanzitutto, il suo grande amore verso la Sacra Scrittura, che nasce in lui fin dai tempi del seminario e che sempre lo accompagna in tutta la sua vita, grazie alla feconda ed ininterrotta collaborazione con il Movimento “Presenza del Vangelo”, non aveva motivazioni esegetiche, ma pastorali e spirituali. Il suo diuturno accostarsi al testo sacro era perché si formasse una mentalità di fede che incrociasse il territorio e lo interpretasse. Non si trattava, infatti, di leggere la Scrittura per favorire una dimensione di fede privata ed intima, ma perché, piuttosto, essa stessa fosse capace di leggere tutto quello che avveniva nella realtà. Ecco perché, anche nei confronti del fenomeno mafioso, egli soleva svolgere delle catechesi che con chiarezza contrapponessero alcune forti caratteristiche dell’essere cristiano con quelle “analoghe” mafiose, descritte evidentemente con accenti caricaturali e grotteschi. In questo senso, egli non prestava certo il fianco a pericolose riduzioni kerygmatico-fondamentalistiche della Sacra Scrittura. L’evangelizzazione era da lui intesa come un movimento vasto, secondo il ben noto dettato di Evangelii Nuntiandi 24, che doveva entrare nel vivo del tessuto socio-culturale di uno specifico territorio. Per questo egli non ha mai abbandonato il suo personale rapporto con le Assistenti Sociali Missionarie, che a Palermo svolgevano un servizio socio-assistenziale e di riflessione culturale e politica dei servizi sociali. Da esse ha mutuato la metodologia dell’analisi e dell’azione sociale, che, unita alla sua sensibilità pedagogica (aveva da ragazzo compiuto gli studi psico-pedagogici), gli permetteva di assumere un adeguato occhiale di lettura della realtà.

Una siffatta concezione ecclesiale dell’evangelizzazione gli permetteva di non includere in essa solo l’aspetto kerygmatico, appunto, ma ogni azione autenticamente ecclesiale. Anche in quelle situazioni in cui la Chiesa deve far supplenza di cose che spettano di diritto allo Stato14.

Uno dei luoghi più significativi della verità di questo incontro tra evangelizzazione, così intesa, e vocazione è per lui sicuramente la povertà. La povertà del cristiano e della Chiesa, prima ancora dell’attenzione privilegiata ai poveri. La povertà raccomandata dalle beatitudini che inerisce ad ogni cristiano che voglia essere tale. Esigenza imprescindibile del Vangelo, ma anche della vocazione, che, per sua propria natura, toglie all’uomo la paternità esclusiva della sua identità personale perché la riconduce al dialogo costitutivo del rapporto con Dio. Effetto di questo modo di vivere la povertà è la libertà, la disponibilità agli altri, la rinuncia ad atteggiamenti ideologici prefissati per poter stare solo con l’altro e con il mistero di Dio di cui è portatore.

La Scrittura, l’impegno nel territorio, l’ecclesialità e la povertà, intimamente interconnessi tra di loro all’interno di un’autentica mentalità vocazionale, sembrano essere i quattro termini che ci aiutano nella comprensione di don Puglisi e della sua attività di evangelizzazione.

 

NOTE

1 Questo primo capitolo è tratto da quanto da me scritto in C. Torcivia – L. Caldarella, Pino Puglisi. Prete povero e santo, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2003, pp. 28-41.

2 G. Puglisi, Relazione tenuta per il Convegno delle Chiese di Sicilia sulle attività del Centro Diocesano Vocazioni, 1984, 1-2, dattiloscritto su carta “farmacia”, Archivio Giuseppe Puglisi (AGP), b. IV, fasc. 7.

3 «Non c’è servizio o ministero nella Chiesa o della Chiesa se non in seguito ad una chiamata di Dio» (G. Puglisi, Intervento al Consiglio Presbiterale della Diocesi, 12 gennaio 1990, dattiloscritto, AGP, b. IV, fasc. 9).

4 G. Puglisi, “Abbiamo bisogno”. Relazione per il Centro Regionale Vocazioni, 1988, 1, fotocopia di ms., AGP, b. IV, fasc. 22.

5 Già nel primo scritto ufficiale che possediamo per quanto riguarda questo decennio, troviamo citata questa parola, nel breve spazio di poco più di due pagine, ben 5 volte, oltre alle più numerose volte in cui viene espresso il concetto (cf G. Puglisi, Relazione sul Centro Diocesano Vocazioni, 1981, ms. originale su carta velina, AGP, b. IV, fasc. 1.).

6 Cf G. Puglisi, Intervento al Consiglio Presbiterale, 5-6.

7 Un racconto dettagliato di tutte queste attività è offerto recentemente da E.M. Mortellaro – C. Aquino, Padre Pino Puglisi il samurai di Dio, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2013.

8 G. Puglisi, Intervento al Consiglio Presbiterale, 6-7 (passim).

9 «Poiché dunque la pastorale è mettere in atto in modo coordinato e unitario, nella complementarietà e nella comunione, la ministerialità di ciascun membro della comunità, ne consegue che tutta la pastorale deve privilegiare la linea vocazionale» (G. Puglisi, Intervento al Consiglio Presbiterale, 8).

10 Non credo che si possa parlare di “nuova evangelizzazione” (NE) per comprendere il pensiero di don Puglisi per tutta una serie di motivi: egli muore nel 1993 e non si era ancora sviluppata una vera e propria riflessione sulla NE; Puglisi era molto legato al dettato di Evangelii Nuntiandi e alle riflessioni su Evangelizzazione e promozione umana. Si può parlare, quindi, più fedelmente di “evangelizzazione”, traendo poi alcune considerazioni che si possono spendere anche per la NE. Si tenga, infine, presente che l’attuale idea della NE, così come anche il recente Sinodo dei Vescovi l’ha messa a fuoco, differisce dall’iniziale comprensione della stessa NE. A tal proposito, mi permetto di rinviare a C. Torcivia, Una lettura teologico-pastorale dei Lineamenta per il Sinodo sulla Nuova Evangelizzazione, in M. Graulich – J. Pudumai Doss (a

cura di), Vino nuovo in otri vecchi?, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2013, pp. 61-80.

11 G. Puglisi, “Abbiamo bisogno”, cit., 2.

12 Cf la testimonianza di padre Carlo Aquino in E.M. Mortellaro – C. Aquino, Padre Pino Puglisi il samurai di Dio, cit., pp. 64-67.

13 Cf C. Torcivia – L. Caldarella, Pino Puglisi. Prete povero e santo, cit., pp. 13-28.42-47. Scrive a tal proposito don Cosimo Scordato: «Don Pino è pastore della sua comunità; si sente responsabile di essa e dedica la sua vita alle persone del suo quartiere alle quali comincia riservare a tempo pieno le sue risorse umane e spirituali, non senza l’aiuto di persone amiche. All’interno di questo atteggiamento pastorale comincia a maturare alcune scelte; la prima è relativa alla dimensione del territorio, come spazio in cui esercitare ed esprimere la ministerialità della Chiesa; la conoscenza di esso lo orienta al ripensamento dell’impegno parrocchiale; in questo modo, il principio della territorialità viene ripensato dentro una progettualità che sceglie il “qui ed ora” come kairós della scelta cristiana. Una seconda osservazione è relativa alla coniugazione tra evangelizzazione e promozione umana, sul duplice versante dell’impegno civile e delle iniziative da offrire per una crescita comunitaria. In particolare, rispetto all’esigenza di una nuova evangelizzazione commisurata con i problemi di un determinato territorio, può risultare opportuna la centratura cristologica della vita cristiana: Gesù Cristo è il luogo della esperienza della piena umanità, liberata dai condizionamenti e liberata alla libertà filiale e fraterna. Le due scelte comportano l’allargamento di una presenza non più circoscrivibile dentro le “normali” attività ma intrecciata con quanto avviene nel territorio. Le iniziative pastorali si allargano; alla normale attività di evangelizzazione e di preparazione ai sacramenti si aggiungono le iniziative che con termine generale chiamiamo di “promozione”; ma in terra di mafia tutto questo comporta una tensione con le forze operanti nel territorio e che vogliono restare indisturbate. D’altra parte, la proposta di un’esistenza libera dal peccato e da tutte le sue forme non può arretrare di fronte a chi pretende di continuare ad imporre la sua volontà» (C. Scordato, Don Pino Puglisi tra ministero e martirio, in Aa.Vv., Don Pino Puglisi prete e martire, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2000, pp. 57-58).

14 «Qualcuno potrebbe dire: non dovrebbe pensarci lo Stato? Intanto pensiamoci noi. Così il nostro agire diventa protesta, sperando che chi di dovere capisca, anche se tante volte capita che loro si fanno dei grandi baffi sia dei cortei, sia dei discorsi che delle denunce verbali […] I primi obiettivi sono i bambini e gli adolescenti. Con loro siamo ancora in tempo, l’azione pedagogica può essere efficace, con gli adulti è invece tutto più difficile. Con i bambini non si devono fare discorsi filosofici, bisogna, invece aiutarli a capire la loro dignità umana, a dare un senso alla loro vita. E già a quell’età non è semplice, perché tanti bambini sono costretti a lavorare o a rubare. E tante bambine vengono costrette a fare di peggio, perché esistono nel quartiere anche casi di prostituzione minorile. Niente teorie psico-pedagogiche astratte, allora.

Il bimbo di queste famiglie non può capirle. Capisce invece i gesti che si fanno, i momenti di gioco, di convivenza, vissuti con un nuovo stile rispetto a quelli che conosce a casa […] Questo dà ai bambini una possibilità di vedere la vita in modo diverso, di verificare che ci sono regole da seguire, che non è giusto barare perché si perde la stima degli altri. Mentre in famiglia, nell’altro ambiente, chi bara, chi sa arrangiarsi, chi è più “furbo”, ha più consenso. Per i giovani è molto importante poter contare sul consenso del gruppo, della società. È quello che mafia chiama “onorabilità”. Per questo bisogna unirsi, dare appoggi esterni al bambino, solidarietà, farlo sentire partecipe di un gruppo alternativo a quello familiare» (G. Puglisi, Relazione “Chiesa e mafia: la cultura del servizio e dell’amore contro la cultura del malaffare”, 18 febbraio 1993).