N.05
Settembre/Ottobre 2014

«In Te la mia consistenza»: lo stile ministeriale di Gesù

«Questo è un tempo meraviglioso per essere prete,
per essere religioso, per essere missionario di Cristo»
(dall’Omelia di San Giovanni Paolo II, Cappella Paolina, 13 ottobre 1979).

Il profilo del ministero ordinato rimanda al ricco e complesso itinerario teologico e pastorale prodotto dal rinnovamento conciliare1.
La Lumen Gentium ha focalizzato la centralità del sacerdozio di Cristo, a cui partecipano tutti i battezzati («sacerdozio comune») e, allo stesso tempo, ha contribuito a chiarire l’essenza e la missione del «sacerdozio ministeriale» (o «ministero ordinato»)2. In modo specifico il Decreto Presbyterorum Ordinis ha approfondito l’essenza, le caratteristiche e le dinamiche del ministero ordinato3. Avendo presente le linee dottrinali e teologiche dei documenti conciliari, a cui vanno aggiunti gli orientamenti, le istruzioni, le esortazioni e le lettere che ne hanno attualizzato e aggiornato le disposizioni4, ci proponiamo di mostrare la dinamica formativa (la «consistenza cristologica») dell’identità ministeriale, a partire da alcune immagini evangeliche. Il nostro itinerario segue due tappe: 1. Tre figure evangeliche del discepolato di Gesù; 2. I tratti pedagogici dello stile ministeriale di Gesù.

1. Figure ministeriali nel dinamismo dei racconti di chiamata
Occorre ripartire dall’originalità dei ”racconti di chiamata” nei vangeli, che costituiscono un genere proprio e specifico della fenomenologia della fede. Come accade anche nelle storie vocazionali dell’Antico Testamento, chi è chiamato da Dio a svolgere un ministero percepisce la propria missione mediante segni e simboli che evocano l’atto della chiamata. Così per Abramo il segno è la «terra nuova» che dovrà raggiungere (cf Gen 12,1-4), per Mosè è la forza di liberare il popolo dalla terra di schiavitù, indicata nel vincastro che egli porta con sé (cf Es 3,1-10), per Davide è la «casa» che dovrà edificare per il Signore (cf 2Sam 7), per Isaia il tempio e la purificazione delle labbra (cf Is 6,1-13), in Osea prevale l’esperienza nuziale (cf Os 1-2). Le figure simboliche assumono la funzione di tradurre il messaggio vocazionale con efficace attualità. Nella missione di Gesù si sintetizza l’intera ricchezza del ministero ordinato, perché Egli è l’unico eterno sacerdote e mediatore della salvezza (cf Eb 9,15). Rileggiamo attraverso tre figure evangeliche del “pescatore”, del “seminatore” e del ”pastore” l’identità del ministro ordinato. 

1.1 «Vi farò pescatori di uomini» (Mc 1,17)
Si può affermare che il racconto fondamentale della sequela trae inizio dalle rive del lago di Genezaret (cf Mc 1,16-20). La scena vocazionale presenta in forma schematica l’esperienza dei primi quattro discepoli di Gesù, mentre sono intenti alla pesca quotidiana. Gesù passa lungo la riva del lago, vede Simone e Andrea nell’atto del gettare la rete in mare e rivolge loro l’invito con le enigmatiche parole: «Seguitemi, vi farò diventare pescatori di uomini» (Mc 1,17).
La chiamata coinvolgerà anche la seconda coppia di fratelli, Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo (Mc 1,18-20). L’evangelista Luca rielabora la fonte sinottica centrandola sulla figura di Simon Pietro (cf Lc 5,1-11). L’utilizzazione dell’immagine della pesca consente a Gesù di mostrare il passaggio dal lavoro di pesca alla missione del Vangelo. Essi sono chiamati ad essere pescatori dei viventi, in un mare diverso da quello della Galilea. La pregnanza dell’immagine evangelica è notevole. Gesù invita i discepoli a rendersi disponibili alla missione aperta a tutta l’umanità. Il ministro ordinato è colui che sperimenta nella “barca” (immagine della comunità) la fatica di chiamare al Vangelo (“gettare la rete”) tutti gli uomini, senza fare distinzioni di razza e di sesso. Le immagini della pesca e della rete ritornano con un significato escatologico nella parabola di Mt 13,47- 50. Essere pescatori di uomini implica la dinamica dell’uscita, del rischio (Lc 5,5), dell’apertura del cuore in vista di una predicazione fino agli estremi confini della terra5. 

1.2 «Uscì il seminatore a seminare» (Mc 4,3)
Una seconda figura è tratta dal contesto agricolo: l’attività del seminatore che getta il seme e, più in generale, l’agricoltore che si prende cura della terra, delle piante (vigna) e dei suoi frutti (operaio)6. Gesù sembra privilegiare questa metafora agricola, attraverso le parabole del seme (cf Mc 4,1-9.26-29.30-32). È soprattutto Mc 4,3-9 a definire la dinamica ministeriale. Il seminare corrisponde all’opera del discepolo che annuncia la Parola sull’esempio di Gesù.
L’interpretazione allegorica che segue la parabola (cf Mc 4,13-20) fa comprendere ancora meglio il senso progettuale di questa figura. Il discepolo “getta” a tutto campo la Parola, nei diversi terreni (strada, sassi, spine, terreno fecondo) sapendo che il suo compito è di lavorare perché la Parola raggiunga tutti7. Questa totalità del lavoro ritorna nell’immagine della ”messe e degli operai”, che Gesù comunica prima di inviare i discepoli in missione (cf Mt 9,35-38). L’invio nella missione rivolto ai discepoli è sviluppato mediante l’immagine alla messe che richiede un faticoso lavoro, in quanto «copiosa» (cf Gv 4,35-38). Si comprende bene nel contesto che la “messe” simboleggia l’umanità aperta all’annuncio e il “tempo” del lavoro richiama l’urgenza della condizione della comunità cristiana ch deve mettersi a servizio dell’evangelizzazione. Il ministro ordinato è chiamato a lavorare nel campo di Dio (cf 1Cor 3,6-8) con grande speranza. Emerge l’attualità di questa figura per la formazione ela maturazione della personalità del sacerdote oggi8. Nel faticoso cammino della Chiesa locale, essere “ministri“ significa lavorare in profondità, rimanere nella compagnia degli uomini, condividere la passione, la speranza e l’attesa della maturazione della messe, per poter vivere la gioiosa fatica della mietitura. 

1.3 «Pasci le mie pecore» (Gv 21,16)
La terza figura è costituita dal “pastore“ che si prende cura del gregge. La metafora pastorale, ben nota nella tradizione antico testamentaria per parlare della relazione tra Dio e il suo popolo (cf Sal 22; Is 40,11; Ez 34), ritorna più volte nei Vangeli, oltre che negli altri scritti neotestamentari (cf Eb 13,20; 1Pt 5,4; Ap 7,17). È Gesù stesso a definirsi «buon pastore» (Gv 10,11) e a descrivere la dimensione oblativa a favore delle pecore, a differenza del mercenario. A partire da questa similitudine cristologica si comprendono la parabola della pecora smarrita e del pastore che la ritrova (Lc 15,4-7), l’immagine del popolo stanco e sfinito come «pecore senza pastore» (Mt 9,36) e il detto sul pastore che viene percosso e le pecore si disperdono (cf Mt 26,31; cf Zc 13,7). In prospettiva ministeriale spicca il binomio pastore/pascere nel dialogo giovanneo tra Gesù e Simon Pietro dopo la risurrezione (Gv 21,15-18)9. Il breve dialogo evidenzia la responsabilità di esercitare la funzione di “capo e pastore“ del gregge di Dio. Pascere il gregge significa vivere fino in fondo l’amore di Gesù che si traduce nel prendersi cura della Chiesa. Cogliamo la forza testimoniale conferita alla metafora pastorale, mediante la quale il Signore comunica il suo amore (agapē) a Simon Pietro e a quanti esercitano l’autorità pastorale. È singolare considerare le due immagini applicate al ministero petrino: all’inizio egli è chiamato a divenire “pescatore di uomini“ e nel contesto pasquale, ad essere “buon pastore“ che dà la vita per il gregge di Dio.

2. I tratti pedagogici dello stile ministeriale di Gesù
Un secondo versante della consistenza del ministero ordinato emerge da alcuni tratti pedagogici che contrassegnano lo stile di Gesù in rapporto ai suoi discepoli. Ne evidenziamo sei: la disponibilità, l’ammirazione, la gioia, la profondità, la compassione, l’umiltà.
Si tratta di qualità educative che fanno parte del corredo relazionale del ministro ordinato, che occorre avere presente in vista della formazione e della maturazione della personalità sacerdotale. Ne evochiamo il profilo ripercorrendo sei scene evangeliche.

«Venite e vedrete» (Gv 1,39)
La scena iniziale dell’incontro tra Gesù e i primi due discepoli inaugura lo stile nuovo del discepolato10. La prima parte del brano evidenzia come la vocazione dei primi discepoli sia collegata alla testimonianza del Battista. I verbi impiegati sono molto significativi: Giovanni «fissa lo sguardo su Gesù che passa» (v. 36: emblepsas).
I due discepoli si mettono «a seguire» Gesù dopo aver sentito la testimonianza di Giovanni. La sequela di Gesù implica il diventare discepoli di Lui (cf Mc 2,15; Mt 9,9; Lc 5,27s.). La domanda che il Signore rivolge loro ha un profondo valore progettuale: «Che cosa cercate?» (Gv 1,38). La narrazione giovannea indica al lettore la ricerca della persona divina, come suggerisce l’analoga espressione in Gv 18,4.6 (nel contesto del tradimento) e Gv 21,15 (nelle apparizioni pasquali). Alla richiesta dei due discepoli: «Maestro, dove abiti?» segue la risposta del Signore: «Venite e vedrete», l’invito a fare esperienza di un incontro personale con Cristo. Si tratta del momento culminante dell’avventura vocazionale dei primi due discepoli, evento impresso nella memoria di Andrea e Giovanni, tanto da annotarvi l’ora (v. 39). L’esperienza di discepolato diventa annuncio dell’incontro: Andrea narra l’esperienza a Simone, suo fratello, e lo conduce al Signore. La chiamata di Simone, come quella dei primi due discepoli, nasce anche in questo caso dalla testimonianza dell’esperienza vissuta nella fede11. Si evidenzia così il primo requisito dello stile di Cristo che interpella l’esistenza dei suoi discepoli: la capacità di disponibilità e di accoglienza di chi è in ricerca. 

«Restò ammirato» (Lc 7,9)
Il racconto della guarigione del servo del centurione (cf Lc 7,1- 10) rivela un secondo tratto pedagogico di Gesù: l’ammirazione.
L’evangelista narra dell’ambasciata di alcuni anziani che si recano dal Signore per implorare la guarigione del servo di un centurione, ormai vicino alla morte. Gesù acconsente alla richiesta e decide di recarsi in casa dell’ufficiale pagano. Appresa questa decisione il centurione gli manda a dire: «Signore, non disturbarti! Io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto; per questo io stesso non mi sono ritenuto degno di venire da te; ma di’ una parola e il mio servo sarà guarito» (Lc 7,6-7). L’affermazione di fede provoca in Gesù un sentimento di tale stupore (v. 9: ethaumasen) da generare una splendida lode per quel personaggio pagano (Lc 7,9-10). Gesù si meraviglia della grandezza di cuore del centurione e lo addita come modello per tutti i credenti. Il racconto pone in luce lo stile pedagogico, che costituisce un esempio di ammirazione verso coloro che si aprono al dono di Dio. 

«Esultò di gioia» (Lc 10,21)
Un terzo tratto dello stile missionario è rappresentato dalla “preghiera di gioia” che Gesù innalza al Padre (Lc 10,21-22; cf Mt 11,25-27). Tornati i discepoli dalla prima missione evangelizzatrice, Gesù accoglie il loro entusiastico racconto, con i segni che hanno accompagnato la missione. Chi sceglie di seguire Cristo e di spendersi per il Vangelo vedrà compiere meraviglie nella sua vita. Queste meraviglie producono sentimenti di gioia e di gratitudine (Lc 10,17-20).
In quello stesso momento il Signore vive una profonda effusione spirituale che si traduce in un inno di giubilo: «Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli» (Lc 10,21). È la gioia della comunione con il Padre, che conferma la piena obbedienza del Figlio, unico rivelatore dell’amore trinitario che salva il mondo.
Non si tratta di una felicità passeggera, ma di una “gioia” profonda, che rivela la libertà con la quale Cristo ha risposto alla sua missione.
È la capacità di gioire per i doni ricevuti, che sono anzitutto le persone che abbiamo accanto e la loro irripetibile identità. 

«Fissando lo sguardo lo amò» (Mc 10,21)
Un ulteriore tratto dello stile di Gesù rivela la “profondità” della sua relazione, scolpita nella nota scena della chiamata del “giovane ricco” (cf Mc 10,17-22), che si colloca nel genere dei racconti di vocazione (cf Mc 1,16-20; 2,13-14; Lc 5,1-11). Il racconto lascia supporre il dinamismo interiore che coinvolge chi è chiamato a fare una scelta radicale nella propria vita. È il caso di un giovane che incrocia sulla sua via Cristo e lo interroga su come ereditare la vita eterna. La domanda supera la semplice dialettica convenzionale: emerge dal dialogo la sfera dei sentimenti e delle decisioni che albergano nel cuore del personaggio. Dapprima Gesù risponde come “maestro” (10,18-19) e dopo come “amico”, che indirizza verso una felicità che “va oltre” la legge. L’evangelista si concentra su due verbi dell’azione di Gesù: «Lo fissò dentro e lo amò» (10,21: emblepsas kai egapesen). È il sentimento della benevolenza, dell’amore oblativo, attrattivo, che Gesù esprime verso il giovane lasciandolo nella sua libertà di scelta. Cogliamo da questa toccante scena la forza attrattiva della chiamata di Cristo al discepolato e al tempo stesso la sua connotazione pedagogica. Il racconto aiuta a comprendere come la scelta di vita per Cristo non può essere un atto di violenza, ma è sempre una conseguenza di un dono liberante, perché liberamente scelto e accolto. Tale profondità relazionale provoca una riflessione circa la qualità delle relazioni pastorali e la capacità comunicativa e espressiva della proposta vocazionale. 

«Si commosse… scoppiò in pianto» (Gv 11,33.35)
Nelle narrazioni evangeliche si accenna all’amicizia vissuta da Gesù non solo verso i suoi discepoli, ma anche nei riguardi di altre persone, tra cui Lazzaro, Marta e Maria (cf Lc 10,38-42; Gv 11,1-44; 12,1-11). L’evangelista Giovanni sottolinea l’amicizia nei riguardi della famiglia di Betania (cf Gv 11,11), riportando il gesto simbolico di Maria durante una cena (Gv 12,3). Questo episodio di “consacrazione” segue il racconto della risurrezione di Lazzaro (Gv 11,1-44), che va compreso all’interno della relazione affettiva che lega Gesù a Lazzaro. La morte dell’amico, l’arrivo del Signore, il dialogo con Marta e Maria culminano con la profonda emozione del Signore di fronte alla tomba di Lazzaro. L’emozione si trasforma in pianto (Gv11,35), a testimonianza di come Gesù abbia intensamente vissuto le emozioni e i sentimenti (cf Gv 11,36). La compassione di Cristo non rimanda solo all’ambito teologico che evoca questo tema, ma evidenzia la dinamica amicale e pedagogica della prassi di Gesù nei riguardi dei suoi discepoli, definiti «non più servi, ma amici» (cf Gv 15,9-17). 

«Si mise a lavare loro i piedi» (Gv 13,1-20)
Un ultimo tratto dello stile ministeriale di Cristo concerne il gesto testimoniale della “lavanda dei piedi” ai suoi discepoli (cf Gv 13,1- 20). L’evangelista Giovanni fa iniziare la seconda parte del suo Vangelo con il compiersi dell’ora e la scelta di amare «fino alla fine» (v.1: eis télos). L’amore di Gesù si compie nel servizio estremo nei riguardi dei suoi discepoli. Nella lavanda dei piedi il Maestro e Signore mostra l’“esempio” di una vita comunitaria centrata sullo stile del servizio. Siamo di fronte ad un atto simbolico dall’efficace valenza ministeriale. Gesù sceglie di compiere il gesto del “servizio” unito al Padre. La scena ripete la mansione dei servi in una casa: alzarsi, deporre le vesti, cingersi di un asciugatoio, lavare i piedi e asciugarli.
Il ruolo dialettico assunto da Simon Pietro manifesta la resistenza di fronte al gesto di Gesù (cf Mc 8,31-33). Deporre le vesti e diventare servo di tutti è il messaggio che anticipa la Pasqua, compimento delle profezie del «servo sofferente di Jhwh» (cf Is 52-53). Si tratta di un segno profetico, dichiaratamente cristologico (cf Fil 2,6-11) e intenzionalmente ministeriale: il Maestro-servo è l’esempio supremo per tutti coloro che sono chiamati a svolgere il ministero ecclesiale12. 

Conclusione
Dall’analisi proposta emergono soprattutto due aspetti che interpellano lo stile ministeriale del pastore. In primo luogo la triplice figura del ministro ordinato (pescatore/seminatore/pastore) chiede un processo di formazione globale della persona, fondata sulla relazione con Cristo che garantisce la maturità spirituale. In secondo luogo i sei tratti dello stile ministeriale di Gesù (la disponibilità, l’ammirazione, la gioia, la profondità, la compassione, l’umiltà) rappresentano il corredo necessario che deve accompagnare il pastore nella sua quotidiana testimonianza dell’amore di Dio per l’umanità. 

Note
1 Cf E. Castellucci, ”Il dibattito sul ministero ordinato nella teologia cattolica successiva al Vaticano II”, in Associazione Teologica Italiana, Il ministero ordinato. Nodi teologici e prassi ecclesiali, a cura di M. Qualizza, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2004, pp. 17-112.
2 Cf Lumen Gentium, n. 10.
3 Cf C. Perrot, Ministri e ministeri. Indagine nelle comunità cristiane del Nuovo Testamento, Paoline, Cinisello Balsamo 2002; Quaderni Teologici del Seminario di Brescia, Ministero presbiterale in trasformazione, Morcelliana, Brescia 2005; T. Citrini, Presbiterio e presbiteri. I. La vivacità degli inizi (I-III secolo), Ancora, Milano 2010 (spec.”Il Nuovo Testamento”, pp. 15-52).
4 Cf Giovanni Paolo II, Pastores dabo vobis, Esortazione Apostolica post-sinodale (25 marzo 1992); Congregazione per il Clero, Direttorio per il ministero e la vita dei Presbiteri (11 febbraio 2013); Congregazione per il Clero, Il presbitero, maestro della parola, ministro dei sacramenti e guida della comunità in vista del terzo millennio cristiano (19 marzo 1999); Congregazione per il clero, Il presbitero, pastore e guida della comunità parrocchiale (4 agosto 2002).
5 Cf Giovanni Paolo II, Pastores dabo vobis, n. 36.
6 Cf le diverse allegorie tratte dall’ambiente agricolo in ivi, nn. 29; 37; 41; 46.
7 Cf ivi, n. 26.
8 Cf Conferenza Episcopale Italiana, Incontriamo Gesù. Orientamenti per l’annuncio e la catechesi in Italia, Paoline, Milano 2014, nn. 32-34.
9 «Il presbitero, chiamato ad essere immagine viva di Gesù Cristo Capo e Pastore della Chiesa, deve cercare di riflettere in sé, nella misura del possibile, quella perfezione umana che risplende nel Figlio di Dio fatto uomo e che traspare con singolare efficacia nei suoi atteggiamenti verso gli altri, così come gli evangelisti li presentano» (Giovanni Paolo II, Pastores dabo vobis, n. 43).
10 Cf ivi, n. 34.
11 Cf G. De Virgilio, La fatica di scegliere. Personaggi biblici per il discernimento vocazionale, Rogate, Roma 2010, pp. 197-223.
12 Cf Giovanni Paolo II, Pastores dabo vobis, nn. 13; 49.