«E’ bello… essere qui» (Lc 9,33) Toccati dalla divina bellezza nell’evento della trasfigurazione
La sola via percorribile verso la felicità consiste nell’essere uomo, donna d’avvento: qualcuno che ascolta più di quanto non parli…1.
Tra i racconti della vita di Cristo vi è un evento che ci invita a fermarci, a disconnetterci dal turbinio dei nostri andirivieni e sostare nella contemplazione di una bellezza che rapisce, che incanta, che conquista: la trasfigurazione2.
La vita umana non procede per obblighi o imposizioni, ma per fascinazione di bellezza. Non ci attrae ciò che ci costringe, ma ciò che ci fa intuire un’esperienza di liberazione, che intercetta i nostri sensi, che scava dentro e pianta un seme di passione. Non ci attrae ciò che rappresenta sottrazione o divisione, ma ciò che prospetta addizione, moltiplicazione.
La trasfigurazione di Gesù alla presenza di tre dei suoi discepoli è un episodio che mostra come l’uomo subisca fortemente il fascino della bellezza e sia attratto da ciò che lo apre al mistero, al “di più”, alla pienezza di vita. L’evento vissuto sul monte ha il sapore dell’irruzione dell’eternità nel tempo, dell’infinito nello spazio, del divino nel tessuto dell’umano, irruzione che riossigena la storia e la proietta verso il suo compimento.
1. Dal chrónos al kairós
Come il ramo del mandorlo che germoglia segna l’inizio della primavera, così la trasfigurazione si presenta come la pregustazione del Cielo e della gloria della Risurrezione. Nei Vangeli essa appare come un evento di grazia in cui all’uomo, fragile e impaurito dalla prova e dalla croce3, è dato di ossigenare mente e cuore e di ricevere una spinta a salire oltre la ripetitività del quotidiano. È l’esperienza che vivono i discepoli, tre uomini che sono icona della sequela Christi, ma anche icona dell’umano spesso lento a decifrare parole ed eventi. La trasfigurazione è un’esperienza che ricorda all’uomo il suo destino, il télos, e ricorda che la luce divina abita i travagli della nostra storia personale e collettiva, che Dio e l’uomo possono sperimentare un sabato comune. La vita è salita, fatica, ritmo incalzante di avvenimenti, ma Dio concede momenti sabbatici, momenti dove il chrónos, che fagocita l’uomo e lo rende schiavo dello spazio, cede il posto al kairós, che libera l’uomo dalla tirannia delle cose; momenti kairotici dove tutto si distende e si può gustare la bellezza dello stare l’uno alla presenza dell’altro in uno spazio che non soffoca, non costringe, non delimita. Stabat, come ci insegna il quarto Vangelo attraverso la presenza fedele delle donne e del discepolo amato ai piedi della Croce (cf Gv 19,25), è il verbo della fedeltà, della presenza, della comunione inossidabile. È risposta al desiderio di Gesù: «Rimanete in me… rimanete nel mio amore» (Gv 15,4.7.9).
Sul monte Dio e l’uomo si danno appuntamento da sempre: Dio scende, l’uomo sale, in «un movimento a fisarmonica»4 che emette melodie di ricerca, desiderio, passione, comunione. Dio e l’uomo si cercano e si trovano in un presente che non è disconnesso né dal passato (rappresentato da Mosè ed Elia), né dal futuro (la gloria eterna). In Cristo Dio e l’uomo coabitano in un connubio mirabile; per mezzo di Cristo Dio e l’uomo si incontrano, si parlano, sperimentano la più dolce delle amicizie. In Cristo la luce divina rifulge radiosa nella fragilità della carne segno che il corpo è sacro, è tempio, è casa di Dio.
Sostiamo ora presso il roveto ardente della Parola per sperimentare il calore di Dio, convinti che la Parola è «la prima sorgente di ogni spiritualità cristiana»5. Saremo pro-vocati dalla Parola a scegliere tra la bellezza effimera che passa e non salva e quella che profuma di redenzione ed è depositaria del nostro destino ultimo.
Chiediamo al Signore di farci entrare nella nube luminosa per immergerci nel mistero di Dio, Trinità d’Amore.
2. Un midrash cristologico che fa seguito al primo annuncio della passione
L’episodio della trasfigurazione che appare in Lc 9,28-36 non è un racconto evangelico fra gli altri, ma un mistero della vita di Cristo.
Evento pieno di significato salvifico è stato annoverato da San Giovanni Paolo II tra i Misteri della luce6. La trasfigurazione infatti è «mistero di luce per eccellenza»7, è epifania, manifestazione visibile e concreta della luce divina, ed è raccontata dagli evangelisti attraverso l’impiego di motivi epifanici, teofanici e apocalittici, per creare una sorta di midrash cristologico8, un modo di commentare9 questo evento della vita di Cristo ricorrendo ad un accumulo di generi letterari diversi, una tecnica per esprimere il cristocentrismo e mostrare che l’attenzione non va posta al cosa è accaduto, ma al senso del racconto. Si tratta della manifestazione del divino che ir rompe nel tessuto del feriale, all’interno di un evento pedagogico che aiuta l’uomo a conoscere l’identità di Gesù e a consolidare la propria fede10.
La gloria di Dio irrompe nella storia umana attraverso la persona di Gesù di Nazaret. Questa gloria però non è connessa al successo o all’approvazione della sua missione, ma a ciò che l’uomo di ieri e di sempre rigetta: la prova. Sul piano narrativo la trasfigurazione appare come un momento di tregua, una pausa dalle tensioni presenti intorno a Gesù. Nell’episodio si scioglie una tensione: il fatto che figure significative della prima alleanza dialoghino con Gesù attesta che il Dio del Primo Testamento è proprio quello di Gesù e Gesù è proprio il Figlio del Dio del Primo Testamento.
Il racconto è preceduto da quello che potremmo definire stage di discepolato che inizia con la domanda di Gesù circa la sua identità (Lc 9,18-20a) e la confessione di Pietro (Lc 9,20b), prosegue con il divieto di Gesù di non rendere pubblica la sua identità (Lc 9,21) e il suo primo annuncio della passione (Lc 9,22), e si conclude con l’istruzione di Gesù sulle esigenze della sequela (Lc 9,23-27). Una collocazione molto importante, dunque, quella dell’episodio della trasfigurazione, perché segue immediatamente un’istruzione che non contiene rimandi ad un esito favorevole della missione di Gesù, ma che si incentra tutta sulla prova della sua passione e morte e sulla necessità della Croce.
Le parole di Gesù mettono a nudo l’essere umano: lo trovano ricalcitrante dinanzi alle movenze del discepolato e del dono gratuito di sé. L’uomo vuole salvare la propria vita, metterla al sicuro, Dio invece lo invita a liberarsi dalle protezioni e a sprecare (Lc 9,24). L’uomo vuole essere grande ed esercitare il potere, Dio invece dice che bisogna essere piccoli (Lc 9,48). L’uomo pensa che la sua esistenza sia anonima e mediocre e Dio vuol farlo sentire degno della vera bellezza con una luce che viene dall’Alto, da Dio, dall’ «atmosfera dell’amare e del donare»11.
3. I sette quadri della pericope evangelica della trasfigurazione
La pericope presenta sette quadri:
- Una preghiera ad alta quota e l’epifania della luce divina (vv.28-29)
- Il dialogo con due figure celesti significative nella storia d’Israele circa l’esodo di Gesù (vv. 30-31)
- L’estasi dei discepoli (vv. 32-33)
- L’ombra di Dio e la paura dei discepoli (vv. 34)
- L’epifania della paternità divina e della figliolanza di Gesù (v.35ab)
- La richiesta del Padre che invita i discepoli ad accogliere la parola del Figlio (v. 35c)
- Il silenzio dei discepoli (v. 36)
3.1 Una preghiera ad alta quota e l’epifania della luce divina (vv. 28-29)
«Circa otto giorni dopo questi discorsi, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto prese un altro aspetto e la sua veste divenne di un bianco splendente».
Luca colloca l’evento della trasfigurazione in una cornice temporale dal sapore pasquale: «otto giorni dopo». Si tratta dell’ottavo giorno, del giorno dopo il sabato, del primo giorno della settimana, il giorno della risurrezione (cf Lc 24,1), il giorno del Signore in cui si aprono gli occhi ai due di Emmaus (cf Lc 24,13).
Il Gesù di Luca nei momenti più importanti della sua vita ricerca sempre la comunione con il Padre e lo fa attraverso la preghiera.
Gesù prega e accade qualcosa… Un cambiamento tocca il suo aspetto ed è come se la sua persona, di colpo, emettesse luce. La preghiera, il dialogo d’amore filiale che egli intrattiene con il Padre suo, dà il suo frutto: la luce del Cielo si comunica sulla terra.
Lo scenario richiama Es 24,1-18 che ha per protagonisti Mosè, Aronne, Nadab e Abiu ma, al posto della «gloria di Dio» che appariva come fuoco, qui c’è una gloria incarnata, Gesù, che risplende di luce divina. Non una presenza invisibile, ma un volto, i cui tratti presentano una novità che invita ad aprire gli occhi sull’identità di Gesù. Non una realtà nascosta, ma una presenza che si rivela e che presenta una veste inedita che è bianca e anticipa l’evento della Risurrezione, che brilla come un lampo che rifulge nel buio.
Le esigenze del discepolato esposte da Gesù potevano far ipotizzare che Dio fosse un problema, ma la luce della trasfigurazione invece afferma che Dio è un Soggetto di dialogo che si lascia incontrare e si fa vedere in un’esperienza concreta, sensibile, che intercetta tutto dell’uomo, e che è l’Oggetto ultimo del nostro desi derio, la “grande bellezza” a cui aneliamo. Per essere suoi discepoli occorre lasciarsi illuminare da Cristo, lasciarsi raggiungere e conquistare dalla bellezza di una luce che è gioia per gli occhi e per le profondità dello spirito. E tale è l’esperienza dei santi: Francesco d’Assisi nelle Lodi di Dio Altissimo canta «Tu sei bellezza» e Caterina da Siena nel Dialogo della divina Provvidenza parla del suo Amato come della «bellezza sopra ogni bellezza».
Il richiamo al monte è fortemente evocativo: in Marco evoca la chiamata dei discepoli, in Matteo il dono della Parola, in Luca la preghiera. Il Dio interpellato dal dramma della sofferenza umana scende sul monte per far salire l’uomo (cf Es 3,8), segno che Dio è coinvolto e coinvolgente. Il monte non è un luogo tra tanti, ma un autentico contesto teologico di rivelazione. La tradizione legata a Pietro richiama la testimonianza oculare resa dagli apostoli relativa a questo evento accaduto mentre i discepoli erano con lui sul «santo» monte12. Il monte, come il Sinai, il Carmelo e l’altura di Sion, è lo scenario privilegiato dell’incontro con Dio.
Al contesto teologico del monte si coniuga l’esperienza della preghiera che in Luca appare come il respiro del Figlio, il luogo dell’esperienza intima della comunione. Prima di ricevere il battesimo (Lc 3,21), di scegliere i Dodici (Lc 6,12), prima di essere catturato (Lc 22,39-46) e prima di morire (Lc 23,34.46), Gesù prega. Monte, preghiera, aspetto luminoso, sono elementi che rimandano alla beatitudine dell’uomo che gode la visione di Dio. Gesù, che ha annunciato ai discepoli l’inizio dei suoi dolori e il destino di sofferenza che toccherà anche loro, vuole riempirli di consolazione e «li attira con l’immagine della bellezza e della felicità del cielo»13.
I discepoli vedono un volto inedito di Gesù, un volto splendente.
Il Sal 34,6 sostiene che guardando al Signore si diventa raggianti. E tale è l’esperienza della preghiera. Ma qui Gesù non è solo raggiante.
È luce stessa! Il suo volto è luce. Quella del volto di Dio è una tematica che pervade tutto il Primo Testamento14. Il volto è esperienza di incontro, è la comunicabilità della persona che fa presentire la possibilità di conoscenza15. Il volto di Cristo diventa “altro”, lascia vedere Dio. Cristo è l’icona di Luce e Bellezza che riflette in permanenza la gloria divina che rifulge sul suo volto umano (cf 2Cor 4,6), quella gloria che condivide col Padre da sempre (cf Gv 17,5). Il prologo del quarto Vangelo ci dice che Dio nessuno lo ha mai visto, ma l’Unigenito che è nel seno del Padre, Lui lo ha spiegato e rivelato (cf Gv 1,18). I discepoli possono vedere Dio, diversamente da Mosè che lo vede solo di spalle (cf Es 33,18-23) e diversamente da Elia che ne può percepire la presenza in modo appena percettibile, mediante una voce di silenzio sottile (cf1Re 19,11-13). La veste di Gesù diviene «bianca» e brilla come nelle visioni del Primo Testamento16 e nella letteratura apocalittica17. È un tripudio di luce, immagine che nella Scrittura rimanda a Dio stesso18. In Cristo che prega sul monte con cuore filiale19, l’uomo può vedere i tratti del Padre. Il Dio che abita una luce inaccessibile (1Tm 6,16) rende la sua luce fruibile sul volto del suo Figlio amato.
Accade come se nel Cristo orante Dio uscisse dalla sua intimità per farsi vedere agli uomini20.
Come provocati da chiamata nella chiamata, tre dei discepoli, cioè Pietro, Giacomo e Giovanni, sono invitati a sostare dal loro procedere feriale e a salire. Chi sono questi tre? Sono i soli ad aver assistito al miracolo della figlia di Giairo (Lc 8,51) e gli unici che accompagneranno Gesù nell’orto del Getsemani (stando a Mt 26,37). Essi si trovano dinanzi a un nuovo roveto ardente: il volto luminoso di Cristo, sorgente e meta di ogni vita umana. Si trovano di fronte a una carne gloriosa, che irradia lo splendore divino, quella luce che la grammatica umana fa fatica a descrivere.
3.2 Il dialogo con due figure celesti significative nella storia d’Israele circa l’esodo di Gesù (vv. 30-31)
«Ed ecco, due uomini dialogavano con lui: erano Mosè ed Elia, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme».
Alla manifestazione della luce divina nella carne del Figlio, segue la comparsa di due figure significative del passato d’Israele. Due morti che però sono vivi e dialogano con Gesù-Luce: Mosè ed Elia. Si tratta di due uomini che hanno vissuto una profonda comunione con il Signore, che ne hanno fatto esperienza sul monte, due uomini di fede cari alla memoria d’Israele: Mosè, l’«uomo di pietà», «amato da Dio e dagli uomini» (Sir 45,1), ed Elia, «simile al fuoco», «la cui parola bruciava come fiaccola» (Sir 48,1), chiamato a comparire negli ultimi tempi per convertire il cuore dei padri verso i figli e viceversa (cf Sir 48,10; Mal 3,24).
Nella tradizione ebraica Mosè ed Elia non sono però solo figure “di gloria”, premiate nella vita futura, ma sono anche profeti che hanno sofferto ostilità e persecuzione e che, malgrado numerose prove, sono rimasti fedeli a Dio. Mosè ed Elia «rappresentano la Scrittura in quanto preannuncia il destino di sofferenza di Gesù»21 e aiutano a far conoscere il destino di Gesù. La sofferenza e la gloria non sono in antitesi, ma camminano insieme verso il compimento delle Scritture che è la morte di Croce. Inoltre Mosè ed Elia testimoniano la fedeltà inossidabile di Dio: come Dio è stato presente nella storia di Israele, salvando i suoi profeti, così sarà presente nel destino di sofferenza del suo Figlio, salvandolo dalla morte.
Negli scritti apocalittici parlare con esseri celesti è segno di comunione22, per cui il colloquio di Gesù con i due anticipa la sua partecipazione al mondo celeste, ma dice anche il dialogo, la comunione e l’abbraccio tra prima e nuova alleanza23. I due accompagnatori di Gesù, entrambi figure esodali perché pronti sempre a mettersi in cammino e a lasciarsi guidare da Dio per la salvezza propria e per quella altrui, parlano dell’esodo di Gesù che sta per compiersi, quell’esodo che trasfigurerà la storia. La morte di Gesù (éxodos) si colora di Pasqua (dóxa), di una potenza di liberazione che questa volta non tocca un solo popolo, ma l’umanità intera del presente, del passato e del futuro.
3.3. L’estasi dei discepoli (vv. 32-33)
«Pietro e i suoi compagni erano appesantiti dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. E avvenne che mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli non sapeva quello che diceva».
La reazione dei discepoli all’“inedito” che accade dinanzi a loro è il sonno, la difficoltà a tenere gli occhi aperti, a sostenere la luce del Cristo. Segno della difficoltà dell’uomo ad essere presente all’appuntamento con Dio che cambia la vita, di quella costante fatica a passare dall’ormai delle proprie sicurezze all’oltre dell’abbandono. I tre discepoli vedono la gloria di Dio che è la fiduciosa “eccedenza” di Dio rispetto alla prudente “capienza” umana. Essa esprime il “di più” di Dio, la sua sovrabbondanza salvifica, un “di più” che ora si manifesta nella carne, nel corpo di Gesù, che è il nuovo tempio24.
Pietro si fa nuovamente portavoce del gruppo25 e libera la gioia dell’estasi: «È bello». L’aggettivo kalón dice attrazione, gratificazione, godimento. Avvinto da tanta bellezza, Pietro suggerisce di costruire tre tende. Le tende rievocano il cammino nel deserto, di cui si festeggiava il ricordo durante la festa dei tabernacoli, quando gli israeliti vivevano una settimana intera sotto le capanne. Pietro avverte che Dio è presente! L’uomo è capace di bellezza, la può riconoscere, gustare e scegliere. Pietro allora vuole fermare il tempo, vuole che quell’attimo non finisca. Ha sete di eternità! Egli non ha a disposizione la nostra tecnologia e strumenti ad alta definizione per registrare quell’istante che sa più di Cielo che di terra. La tenda è l’unico strumento che gli viene in mente perché quella bellezza continui ad abitare la nostra terra.
«È bello per noi essere qui»: nel volto luminoso del Figlio di Dio che dialoga con i profeti perseguitati e mostra l’unità della storia salvifica, Pietro e i suoi compagni trovano la loro casa. Davvero, come dice l’orante, il bene dell’uomo è stare con Dio (cf Sal 73,28).
Inoltre l’esclamazione «è bello» significa anche «è bene», che ha sfumatura ontologica e rivelativa26, perché il bello è tale solo se coincide con il bene e rimanda alla primissima parola del Creatore in Genesi: tob. Per leggere il presente, Pietro abbandona il vocabolario umano preferendo ad esso quello divino, che privilegia il campo semantico della benedizione. Per Pietro «sul volto di Gesù è apparsa la bellezza originaria con cui Dio ha creato il mondo e di cui ha dotato il volto dell’uomo»27. Si tratta di una bellezza «antica e sempre nuova»28 che apre una ferita, che pianta dentro una profonda nostalgia del Padre.
3.4 L’ombra di Dio e la paura dei discepoli (v. 34)
Mentre diceva queste cose, venne una nube e li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura.
Dopo che Mosè ed Elia lasciano la scena, alla luce si affianca un altro motivo teofanico: la nube. In Es 13,21-22 il popolo d’Israele era guidato nel deserto dalla colonna di fuoco di notte e dalla colonna di nube di giorno. La nube attesta la presenza di Dio Padre che si manifesta e che lo fa coprendo i discepoli con la sua ombra. Nella Bibbia il Signore stesso è «come ombra che ti copre» (Sal 121,5).
L’ombra inoltre richiama la presenza misteriosa di Dio nei momenti di difficoltà in cui porta riparo dalla calura29 oppure offre protezione30.
Richiama inoltre la presenza divina in luoghi a lui consacrati, come la tenda del deserto e il tempio di Gerusalemme31.
Il verbo episkiázo, «stendere l’ombra», richiama la nube di Es 40,34, che copriva la tenda del convegno dove la gloria di Dio stabilisce la sua dimora, ma richiama anche la discesa dello Spirito Santo su Maria nell’Annunciazione in Lc 1,35, al momento della sua personale Pentecoste. Accade qui, come nell’Annunciazione, una teofania, o meglio, un’epifania trinitaria: alla presenza del Figlio si aggiunge quella dello Spirito, cui si aggiungerà tra breve quella del Padre per mezzo della «voce» (v. 35).
Dopo che Gesù ha parlato delle sofferenze della Passione32, il Padre mostra la sua gloria nel Figlio e la sua presenza di custodia, guida e protezione per mezzo dello Spirito. Per questo la trasfigurazione presenta tutto il suo carattere di consolazione, è esperienza di contatto con la comunione del Dio-Trinità di Amore. Ma i discepoli hanno paura. La rivelazione di Dio incute timore e la sua presenza spaventa l’uomo il quale teme che stare troppo vicino a Dio lo privi di qualcosa o finanche della sua stessa vita (cf Dt 5,24-26).
3.5 L’epifania della paternità divina e della figliolanza di Gesù (v. 35ab)
E una voce venne fuori dalla nube dicendo: «Questi è il Figlio mio, l’eletto».
Il culmine della rivelazione sul monte della trasfigurazione sta nella ”voce“ che viene dal cielo, una voce che si presenta come il più grande segno di legittimazione del ministero del Figlio, la voce che è risuonata già al momento del Battesimo di Gesù (cf Lc 3,22).
«Questi è il Figlio mio!» è una formula di identificazione che sotto linea che è nella persona di Gesù che troviamo la presenza di Dio.
Nel definire Gesù come «eletto», «scelto», «amato», il Padre svela finalmente l’identità misteriosa del servo di cui ha ampiamente parlato il Libro di Isaia33. È Gesù il servo, l’unto, la luce delle nazioni, il reietto, colui che salva il mondo con le sue piaghe luminose.
3.6 La richiesta del Padre che invita i discepoli ad accogliere la parola del Figlio (v. 35c)
«Ascoltatelo!».
Il Padre presenta il Figlio nella sua identità di eletto, nella sua missione di servo e anche nel suo rapporto con il popolo. Gli uomini sono fortemente interpellati dalla voce attraverso l’imperativo: «ascoltatelo!», che vuol dire «mettete in pratica quanto insegna», ma anche «imitatelo». Se pertanto la voce al momento del battesimo riveste una funzione cristologica, nel racconto della trasfigurazione invece è più presente una funzione ecclesiologica. L’uomo, dopo aver ricevuto la rivelazione dell’identità di Gesù, riceve l’invito a seguirlo e a obbedire alla sua parola, come suggerisce lo Šema’ Israel che addita l’ascolto come porta d’ingresso per abitare la dimensione dell’amore e della comunione.
3.7 Il silenzio dei discepoli (v. 36)
«Quando la voce cessò, restò Gesù solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno quella che avevano visto».
I discepoli vedono la dóxa, ma non comprendono ancora il senso della passione, dell’éxodos. La loro estasi a questo punto deve sfociare nel silenzio. Per comprendere la parola è necessario purificare il proprio vocabolario e riossigenarlo con il silenzio che è il cuore pulsante della parola34, lo spazio e l’occasione dell’armonizzazione della vita, degli eventi. Il silenzio è l’atmosfera del mistero, come ci ricorda Ap 8,1, che ci rivela la grandezza della nostra vita e che ci ricorda che, di fronte alla bellezza, più che parlare occorre tacere, adorare e lasciare che Dio mi parli al cuore.
4. Per rileggere
Mt 17,1-9; Mc 9,2-8; 2Cor 3,18; 2Pt 1,16-19.
4.1 Per riflettere
– Che tipo di relazione hai con Dio? Schiavo/padrone? Figlio/Papà-Mamma?
– Quando la presenza di Dio ti fa paura?
– Quando e dove è accaduta la più personale trasformazione della tua vita?
– Qual è l’annuncio di Dio nell’oggi della tua storia che egli ti invita ad accogliere spronandoti a svegliarti e ad ascoltarlo?
4.2 Per ripartire
Il testo ci invita a:
– rallegrarci per il presente, coltivando uno spirito di tenerezza filiale, e non avere paura del futuro;
– lasciarci sorprendere dall’azione di Dio che è sempre nuova;
– gustare i sapori della Scrittura e nutrirci di essa regolarmente;
– saperci mettere in piedi disposti ad accogliere con prontezza le sfide della Parola.
Il testo ci ricorda che:
– Pregare, salire sul monte, lasciarsi attrarre da Dio, è evento che, se vissuto con cuore filiale, ci cambia, ci rende raggianti, ci fa vedere le cose dal punto di vista di Dio, scioglie i nodi, sgonfia i problemi.
Ci immerge nella luce per essere “diffusori” di luce.
– Per conoscere Gesù dobbiamo essere amici di Elia e di Mosè, delle Scritture d’Israele, della storia della salvezza, di quei grandi innamorati di Dio e dell’umanità che sono i profeti di tutti i tempi. Fare memoria della storia sacra che ci ha preceduto, nella quale siamo innestati e rievocare figure di testimoni, è lasciarsi illuminare ulteriormente sulla propria identità, vocazione e missione.
– Veniamo dalla bellezza: per questo la Parola ci invita a scegliere la bellezza, non quella passeggera, ma quella che dura, che fa dimorare nella bene, nella verità e nella comunione.
– Familiari di Gesù si diventa tramite l’ascolto, atto libero e consapevole che trasfigura i nostri cuori duri in cuori docili, destinandoci a diventare fecondi.
– L’episodio della trasfigurazione ci dice che potremo gustare la bellezza di Dio nella nostra vita ogni volta che sapremo fermarci, attendere, ascoltare Colui che ci parla, guardare Colui che ci guarda ed amare quel Dio umanissimo, bellissimo, comunionalissimo che ci ama, ci affascina e ci ha ferito il cuore mettendoci dentro un desiderio di pienezza che solo Lui può colmare. Scrive A. Merini che «ogni cosa bella diventa peritura nelle mani degli uomini, ma ogni cosa bella baciata da Dio diventa una rosa rossa piena di sangue»35.
L’augurio che rivolgo a ciascuno di voi è di essere delle rose rosse, omaggio dell’Amore di Dio al mondo, non sgualciti o anemici, ma pieni di sangue, vivificati dal sangue di Cristo, svegli dinanzi a Dio, attenti agli altri, docili all’opera dello Spirito, per trasfigurare gli ambienti in cui viviamo, trasmettere vita e collaborare con Cristo a risuscitare chi ci è accanto.
Buon cammino di estasi e contemplazione a tutti!
Note:
1 G. Danneels, Le stagioni della vita, Queriniana, Brescia 1998, p. 211.
2 Il racconto della trasfigurazione appare nei tre Vangeli sinottici: Mt 17,1-13; Mc 9,2-13; Lc 9,28-36.
3 L’episodio nei Vangeli segue immediatamente l’annuncio della passione.
4 E. De Luca – G. Matino, Sottosopra. Alture dell’Antico e del Nuovo Testamento, Mondadori, Milano 2007, p. 15.
5 Vita Consecrata 94.
6 Rosarium Virginis Mariae 19: «Affinché il Rosario possa dirsi in modo più pieno “compendio del Vangelo”, è perciò conveniente che, dopo aver ricordato l’incarnazione e la vita nascosta di Cristo (misteri della gioia), e prima di soffermarsi sulle sofferenze della passione (misteri del dolore), e sul trionfo della risurrezione (misteri della gloria), la meditazione si porti anche su alcuni momenti particolarmente significativi della vita pubblica (misteri della luce). Questa integrazione di nuovi misteri, senza pregiudicare nessun aspetto essenziale dell’assetto tradizionale di questa preghiera, è destinata a farla vivere con rinnovato interesse nella spiritualità cristiana, quale vera introduzione alla profondità del Cuore di Cristo, abisso di gioia e di luce, di dolore e di gloria».
7 Rosarium Virginis Mariae 21: «Mistero di luce per eccellenza è… la Trasfigurazione, avvenuta, secondo la tradizione, sul Monte Tabor. La gloria della Divinità sfolgora sul volto di Cristo, mentre il Padre lo accredita agli Apostoli estasiati perché lo ascoltino (cf Lc 9,35 e par) e si dispongano a vivere con Lui il momento doloroso della Passione, per giungere con Lui alla gioia della Risurrezione e a una vita trasfigurata dallo Spirito Santo».
8 R. Pesch, Il Vangelo di Marco, II, Paideia, Brescia 1982, p. 117.
9 Midrash viene dal verbo ebraico dārash che vuol dire “investigare”, “ricercare”, “studiare”.
10 Vita Consecrata definisce la trasfigurazione un «evento di rivelazione che consolida la fede nel cuore dei discepoli, li prepara al dramma della croce ed anticipa la gloria della risurrezione » (VC 15).
11 Benedetto XVI, Omelia Veglia di Pentecoste 2006. L’espressione è impiegata per parlare dello Spirito Santo.
12 Cf 2Pt 1,16-18.
13 Giovanni Crisostomo, Omelia 56,1.
14 «Vedere il volto» vuol dire stare alla presenza di qualcuno. Il credente vive alla presenza del Signore, cercando il suo volto (Sal 27,8). Il volto del Signore risplende su di lui (Nm 6,25; Sal 31,17; 67,2; Ap 1,16). Nella nuova alleanza i credenti possono stare davanti a Dio «senza velo sul volto» (2Cor 3,18) e nel mondo ricreato vedranno il volto di Dio (Ap 22,4).
15 «Noi chiamiamo Volto il modo in cui si presenta l’Altro, che supera l’idea dell’Altro in me» (E. Lévinas, Etica e Infinito, Città Nuova, Roma 1984, p. 49): Lévinas chiama Volto l’epifania dell’altro nella sua prossimità, ma anche nella sua “alterità”.
16 Nm 3,3; Ez 1,4.7.
17 Dn 10,5-6; Ap 1,12-16.
18 Cf Sal 118,17. L’orante proclama: «Il Signore è mia luce e mia salvezza» (Sal 27,1). E ancora: «Alla tua luce vediamo la luce» (Sal 36,10).
19 «Gesù sul Tabor non è tanto un maestro che impartisce insegnamenti o fornisce prove della sua divinità ai discepoli, quanto il Figlio che ammette i suoi amici a un momento di intimità tra lui e il Padre celeste» (R. Cantalamessa, Il mistero della trasfigurazione, Ancora, Milano 1999, p. 23).
20 «La stessa luce invisibile, la stessa sapienza di Dio si è rivestita della carne per poter essere vista, affinché, apparendo sotto l’aspetto di uomo e parlando agli uomini, possa guidare gradatamente i loro animi purificati dalla fede alla conoscenza del suo aspetto divino» (Beda il Venerabile, Homelia I, 8).
21 G. Rossé, Il vangelo di Luca. Commento esegetico e teologico, Città Nuova Editrice, Roma 1992,p. 343.
22 Cf Apoc. Soph. 13,2 e Enoc. etiop. 70,11 e soprattutto Test. Job. 50.
23 «Il mistero della Trasfigurazione è tridimensionale: riunisce l’Antico e il Nuovo Testamento intorno al Messia glorioso e anticipa la metamorfosi finale in cui i giusti splenderanno come il sole» (Y. De Andia, Le mystère de la transfiguration, in Mystique d’Orient et d’Occident., éditions de l’Abbeye de Bellefontaine 1994, p. 139).
24 Lo riferisce il IV Vangelo riferendoci le parole pronunciate da Gesù stesso dopo l’episodio della purificazione del tempio: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (Gv 2,19). L’immagine del tempio è evocata poi dall’acqua che sgorga dal costato trafitto di Cristo sulla croce in Gv 19,34 che rimanda a Ez 47.
25 Pietro si era già fatto portavoce del gruppo dei discepoli a Cesarea di Filippo rispondendo alla domanda di Gesù con una confessione di fede: «Il Cristo di Dio» (Lc 9,20).
26 «…“è bene che…”. Non si tratta di un bene semplicemente morale, giuridico, economico, o puramente individuale, privato e relativo. È invece un bene ontologico e rivelativo, che costituisce a un tempo sia la fonte, l’energia e il futuro della vita, sia il senso e il valore dei quali ogni realtà riceve e rivela la sua essenza» (R. Mancini, La promessa del ritorno. Una meditazione sulla felicità, in «Parola Spirito e Vita» 45/2002, p. 232).
27 E. Ronchi, Tu sei bellezza, Paoline, Milano 2008, p. 57.
28 Agostino, Confessioni, X, 27.
29 Cf Sap 19,7; Is 4,6; 25,4.5; Bar 5,8; Os 14,8; Gio 4,5.6.
30 Cf Sal 17,8; 36,8; 57,2; 61,5; 91,1; 121,5.
31 Cf Es 40,34; 1Re 8,10.
32 «Il Figlio dell’uomo deve soffrire molto, essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, esser messo a morte e risorgere il terzo giorno» (Lc 9,22).
33 Is 42,1-9; 49,1-6; 50,4-9; 52,13-53,12.
34 «Il silenzio è dentro la parola come il suo colore, il suo sapore, il suo timbro, il suo calore, la sua luce, il suo mistero, la sua bellezza, la sua dolcezza, la sua profondità. Il silenzio è quella realtà che rende bella la parola, che la rende viva, toccante, penetrante, capace di comunicare l’essere, capace di far sì che due persone si incontrino a una tale profondità da sentirsi uno… La parola più piena coincide con il silenzio più profondo… Il silenzio è la qualità della parola» (M.P. Canopi, Silenzio. Esperienza mistica della presenza di Dio, EDB, Bologna 2008, p. 13).