Nel cuore della Chiesa sarò l’amore
Nell’Autobiografia, Santa Teresa di Gesù Bambino sintetizzava così la “scoperta” della sua vocazione: «O Gesù, mio amore, ho trovato finalmente la mia vocazione. La mia vocazione è l’amore. Sì, ho trovato il mio posto nella Chiesa, e questo posto me lo hai dato tu, o mio Dio. Nel cuore della Chiesa, mia madre, io sarò l’amore ed in tal modo sarò tutto e il mio desiderio si tradurrà in realtà»1. In maniere e in momenti diversi, credo sia questa la “scoperta” che segna il cammino vocazionale di ogni consacrato. È l’esperienza che, affrancandolo dalla resa rassicurante alla provvisorietà, inculcata dalla “liquidità” della nostra cultura, gli permette l’apertura fiduciosa al donarsi incondizionato.
1. Radicata nel battesimo
La vocazione all’amore è propria di ogni battezzato. È sufficiente richiamare le parole iniziali della prima enciclica di Benedetto XVI: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva»2.
È un incontro che apre alla gioia, perché ci si sperimenta proiettati su orizzonti di liberazione e di pienezza, come sottolinea Papa Francesco: «La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia»3.
È un’esperienza che, nonostante le tante nostre chiusure e menzogne, Dio continua a donarci, facendo sempre il primo passo: «In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1Gv 4,9-10).
Di qui l’invito di Papa Francesco a «ogni cristiano, in qualsiasi luogo e situazione si trovi, a rinnovare oggi stesso il suo incontro personale con Gesù Cristo o, almeno, a prendere la decisione di lasciarsi incontrare da Lui, di cercarlo ogni giorno senza sosta»4.
Infatti «solo grazie a quest’incontro – o reincontro – con l’amore di Dio, che si tramuta in felice amicizia, siamo riscattati dalla nostra coscienza isolata e dall’autoreferenzialità. Giungiamo ad essere pienamente umani quando siamo più che umani, quando permettiamo a Dio di condurci al di là di noi stessi perché raggiungiamo il nostro essere più vero»5.
La chenosi del donarsi totale si pone perciò come criterio fondamentale di vita per ogni credente. Lo ricordava con forza il Cristo ai discepoli nell’ultima cena: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,34-35). Non si tratta di semplice esemplarità. Il “come” del comandamento nuovo dice partecipazione, condivisione in forza del dono del suo stesso Spirito, che «armonizza il loro [dei discepoli] cuore col cuore di Cristo e li muove ad amare i fratelli come li ha amati Lui, quando si è curvato a lavare i piedi dei discepoli (cf Gv 13,1-13) e soprattutto quando ha donato la sua vita per tutti (cf Gv 13,1; 15,13)»6.
La Lumen gentium lo evidenzia come caratteristica fondamentale della Chiesa: «Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. Gesù Cristo “che era di condizione divina… spogliò se stesso, prendendo la condizione di schiavo” (Fil 2,6-7) e per noi “da ricco che era si fece povero” (2Cor 8,9): così anche la Chiesa, quantunque per compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare la gloria terrena, bensì per diffondere, anche col suo esempio, l’umiltà e l’abnegazione»7.
Tutto questo appartiene alla vocazione di ogni battezzato alla santità. Va perciò attuato «nei vari generi di vita e nei vari compiti», in maniera che l’universale vocazione alla santità venga attuata «secondo i propri doni e uffici», camminando «al seguito del Cristo povero, umile e carico della croce, per meritare di essere partecipi della sua gloria… nelle condizioni, nei doveri o circostanze che sono quelle della loro vita, e per mezzo di tutte queste cose»8.
La vita religiosa ha come propria specifica vocazione e missione testimoniarlo, evidenziandone la pienezza umana, la bellezza e la gioia, in modo da stimolare tutti i battezzati a rispondere generosamente all’anticipo di santità che lo Spirito dona loro. «Siamo chiamati – ha scritto Papa Francesco – a sperimentare e mostrare che Dio è capace di colmare il nostro cuore e di renderci felici, senza bisogno di cercare altrove la nostra felicità; che l’autentica fraternità vissuta nelle nostre comunità alimenta la nostra gioia; che il nostro dono totale nel servizio della Chiesa, delle famiglie, dei giovani, degli anziani, dei poveri ci realizza come persone e dà pienezza alla nostra vita»9.
Tutto questo esige di non distaccare mai lo sguardo dal Cristo: dalla sua chenosi fino alla croce, dalla sua glorificazione nella risurrezione da parte del Padre, dal suo liberarci mediante il dono dello Spirito. Credo occorre continuare nello sforzo per una comprensione più cristologica della vita religiosa. È quanto si è cercato di fare, stimolati dal Vaticano II. Ma i passi da compiere restano ancora tanti. E questo senza perdere le ricchezze della tradizione, ma riconoscendo che più volte essa ha privilegiato una lettura prevalentemente ascetica in vista della perfezione individuale.
1.1 Un amore che riempie la vita
La prima fondamentale parola che il consacrato dice con la sua vita è che Dio non è un’idea, un’esigenza logica, un presupposto teorico, ma persona: è Padre, Figlio e Spirito. Prima che una verità, è presenza che invita alla comunione. In Lumen fidei viene giustamente rilevato che «la verità che la fede ci dischiude è una verità centrata sull’incontro con Cristo, sulla contemplazione della sua vita, sulla percezione della sua presenza»10.
È una presenza di amore che conquista e ingrandisce il cuore del consacrato: lo rende certo che è stato «amato di amore eterno» (Ger 31,3); gli fa sperimentare l’urgenza di rispondere con un amore incondizionato; lo fa sentire prossimo a chiunque incontra sul suo cammino (cf Lc 10,29-37).
La nostra cultura ha eredito dai secoli precedenti il sospetto che Dio costituisca un limite e perfino una minaccia alla libertà e alla dignità dell’uomo, come il tentatore aveva cercato di insinuare fin dall’inizio della storia: «Non morirete affatto. Anzi Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio» (Gen 3,4-5). Si dimentica perciò che «se l’uomo esiste, è perché Dio lo ha creato per amore e, per amore, non cessa di dargli l’esistenza; e l’uomo non vive pienamente secondo verità se non riconosce liberamente quell’amore e se non si abbandona al suo Creatore»11.
La vita religiosa vuole ricordare a tutti che Dio è solo amore, che non vuole altro che renderci partecipi del suo amore. In Cristo, si è svuotato della sua gloria fino all’ignominia della croce (cf Fil 2,5- 11), perché non dubitassimo mai che «ha voluto egli far gloria sua la nostra felicità»12. Attraverso i molteplici doni con cui arricchisce gli uomini, soprattutto attraverso il dono del Figlio, Dio ha voluto «cattivarli al suo amore. Disse per tanto: In funiculis Adam traham eos, in vinculis caritatis (Os 11,4): Voglio tirare gli uomini ad amarmi con quei lacci con cui gli uomini si fan tirare, cioè coi legami dell’amore»13.
Il consacrato ha sperimentato tutto ciò e ne ha fatto il punto focale della sua vita, come l’apostolo Paolo: «L’amore del Cristo infatti ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro» (2Cor 5,14-15).
La domanda che quotidianamente i consacrati devono porsi riguarda la qualità di questo amore, come ha sottolineato Papa Francesco nella lettera loro rivolta: Gesù «è davvero il primo e l’unico amore, come ci siamo prefissi quando abbiamo professato i nostri voti? Soltanto se è tale, possiamo e dobbiamo amare nella verità e nella misericordia ogni persona che incontriamo sul nostro cammino, perché avremo appreso da Lui che cos’è l’amore e come amare: sapremo amare perché avremo il suo stesso cuore»14.
La castità è prima di tutto accoglienza grata di questo amore. Si traduce in fedeltà quotidiana, vissuta in coerenza con la chenosi del Cristo, per renderne partecipi anche gli altri, soprattutto coloro che più ne hanno bisogno. Altre motivazioni possono avere la loro importanza, ma quella decisiva è la prospettiva cristologica: continuare nella storia la maniera in cui Cristo ci ha fatto incontrare l’amore fedele e incondizionato del Padre. Parimenti nel cammino formativo vanno tenute presenti tutte le esigenze per una piena maturità affettiva, ma occorre non perdere mai di vista che conta soprattutto fare che la propria vita sia piena dell’anticipo di amore che Dio ci dona in Cristo per il suo Spirito: sia un “conversare” familiare e continuo con Dio15.
Ne deriva un cuore sempre pronto ad accogliere e a farsi compagno di cammino. «Siate donne e uomini di comunione – ricorda ai consacrati Papa Francesco – rendetevi presenti con coraggio là dove vi sono differenze e tensioni, e siate segno credibile della presenza dello Spirito che infonde nei cuori la passione perché tutti siano una sola cosa (cf Gv 17,21). Vivete la mistica dell’incontro: “la capacità di sentire, di ascolto delle altre persone. La capacità di cercare insieme la strada, il metodo”, lasciandovi illuminare dalla relazione di amore che passa fra le tre Divine Persone (cf 1Gv 4,8) quale modello di ogni rapporto interpersonale»16.
Un ripiegamento timoroso su se stessi contraddice l’esperienza di amore che lo Spirito dona alla persona consacrata. Occorre invece che sia sempre pronta ad «abbracciare dentro il cuore»17 chiunque lo Spirito mette sulla sua strada, approfondendo «l’“arte dell’accompagnamento”, perché tutti imparino sempre a togliersi i sandali davanti alla terra sacra dell’altro (cf Es 3,5)» e dando al proprio «cammino il ritmo salutare della prossimità, con uno sguardo rispettoso e pieno di compassione ma che nel medesimo tempo sani, liberi e incoraggi a maturare nella vita cristiana»18.
Ne deriva che la realizzazione di sé, affrancandosi dalle proposte ispirate all’individualismo, si aprirà alle prospettive della reciprocità.
Riconoscendosi ricchezza e bisogno nei riguardi degli altri, la persona consacrata vive la gioia del reciproco affidarsi e prendersi cura: «Dio ha disposto il corpo conferendo maggiore onore a ciò che non ne ha, perché nel corpo non vi sia divisione, ma anzi le varie membra abbiano cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui» (1Cor 12,24-26).
2. Un amore che dà un volto nuovo alla libertà
Questo amore dà fondamento alla libertà del consacrato facendogli condividere la forma chenotica in cui è stata vissuta dal Cristo: «Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno» (Gv 6,38-39).
Il consacrato non rinunzia alla libertà, ma la progetta e la vive radicandola nel progetto di amore di Dio: ha scoperto che è proprio questo progetto che permette di darle fondamento, sottraendola all’illusione dell’arbitrarietà, e di proiettarla verso un futuro di pienezza.
Condivide perciò l’atteggiamento dei nostri contemporanei che «stimano grandemente e perseguono con ardore la libertà, e a ragione», ma allo stesso tempo denunzia con franchezza che troppe volte «la coltivano in modo sbagliato quasi sia lecito tutto quel che piace, compreso il male». Soprattutto ne testimonia l’autentico volto: «La vera libertà è nell’uomo un segno privilegiato dell’immagine divina»19.
In forme diverse, secondo il carisma di ognuno e di ogni comunità, il consacrato vive la stessa esperienza dell’apostolo Paolo: «Pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero… Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costoqualcuno. Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io» (1Cor 9,19.22-23).
Il consacrato sa bene che «Cristo ci ha liberati per la libertà!», per cui considera la libertà come vocazione irrinunciabile (Gal 5,1.13).
Il popolo di Dio, ricorda il Vaticano II, «ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali dimora lo Spirito San to come in un tempio»20. Seguendo il Cristo, però, fa sì che «non divenga un pretesto per la carne», cioè per il vivere preoccupato solo di sé, ma si dia come amore che mette sempre «a servizio gli uni degli altri» (Gal 5,13), scegliendo ciò che permette di procedere e di costruire insieme (cf 1Cor 10,23-24).
È un servizio vissuto da discepoli, che non distolgono il loro sguardo dal Maestro: «Affascinati da tale modello, vogliamo inserirci a fondo nella società, condividiamo la vita con tutti, ascoltiamo le loro preoccupazioni, collaboriamo materialmente e spiritualmente nelle loro necessità, ci rallegriamo con coloro che sono nella gioia, piangiamo con quelli che piangono e ci impegniamo nella costruzione di un mondo nuovo, gomito a gomito con gli altri. Ma non come un obbligo, non come un peso che ci esaurisce, ma come una scelta personale che ci riempie di gioia e ci conferisce identità»21.
Tutto questo si concretizza nella ricerca appassionata del Regno e nella prontezza fiduciosa a farsi carico delle urgenze che lo Spirito affida. Riguarda innanzitutto la comunità, che condivide «il dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo»22. Si dà perciò come «comunione di persone consacrate che professano di cercare e compiere insieme la volontà di Dio: comunità di fratelli o sorelle con diversità di ruoli, ma con lo stesso obiettivo e la medesima passione». Ne deriva che «mentre tutti, nella comunità, sono chiamati a cercare ciò che a Dio piace e ad obbedire a Lui, alcuni sono chiamati ad esercitare, in genere temporaneamente, il compito particolare di essere segno di unità e guida nella ricerca corale e nel compimento personale e comunitario della volontà di Dio. È questo il servizio dell’autorità»23.
L’ubbidienza del singolo religioso va vista nel contesto di quella della sua comunità alla missione ricevuta dallo Spirito: è sempre disponibilità gioiosa alle decisioni legittime dell’autorità, ma è anche e prima di tutto partecipazione franca e stimolo al discernimento, che la stessa autorità è chiamata a compiere quotidianamente, per ché la comunità resti fedele al carisma ricevuto. Ubbidienza perciò è capacità di ascoltare il grido dei poveri, soprattutto di coloro che più immediatamente ci sono affidati dallo Spirito, e prontezza a porsi “in uscita” per far loro sperimentare la gioia del Vangelo.
3. Un amore che porta alla condivisione
L’incontro con l’anticipo di amore, che nel Cristo il Padre ci dona, affranca dalle mille forme di idolatria del profitto e dell’accumulo, che trasformano i beni in motivo di contrapposizione e di conflitto, e fa sperimentare che solo nel condividerli essi ritrovano il significato pieno. Continuando nella storia la povertà del Cristo, la povertà dei consacrati mira a «testimoniare Dio come vera ricchezza del cuore umano. Ma proprio per questo essa contesta con forza l’idolatria di mammona, proponendosi come appello profetico nei confronti di una società che, in tante parti del mondo benestante, rischia di perdere il senso della misura e il significato stesso delle cose. Per questo, oggi più che in altre epoche, il suo richiamo trova attenzione anche tra coloro che, consci della limitatezza delle risorse del pianeta, invocano il rispetto e la salvaguardia del creato mediante la riduzione dei consumi, la sobrietà, l’imposizione di un doveroso freno ai propri desideri»24.
Con la loro povertà i consacrati non negano l’importanza dei beni per una qualità di vita veramente umana. Sottolineano invece che, perché questo si realizzi, occorre non assolutizzarne la proprietà, ma viverla come affidamento per il bene di tutti: «Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene all’uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli, e pertanto i beni creati debbono essere partecipati equamente a tutti, secondo la regola della giustizia, inseparabile dalla carità, Pertanto, quali che siano le forme della proprietà, adattate alle legittime istituzioni dei popoli secondo circostanze diverse e mutevoli, si deve sempre tener conto di questa destinazione universale dei beni. L’uomo, usando di questi beni, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possano giovare non unicamente a lui ma anche agli altri»25.
Oggi la povertà dei consacrati deve ricordare a tutti l’urgenza di affrancarsi dalla «economia dell’esclusione e della inequità», perché «questa economia uccide». Essa infatti porta a considerare «l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono “sfruttati” ma rifiuti, “avanzi”»26.
La denunzia, per quanto indispensabile, non basta. Il consacrato sa bene che «se uno ha ricchezze di questo mondo e, vedendo il suo fratello in necessità, gli chiude il proprio cuore, come rimane in lui l’amore di Dio?» (1Gv 3,17). La sua vocazione all’amore lo porta a stare dalla parte dei deboli e dei poveri. È attento e si lascia costantemente interpellare dal loro grido, perché è convinto che «rimanere sordi a quel grido, quando noi siamo gli strumenti di Dio per ascoltare il povero, ci pone fuori dalla volontà del Padre e dal suo progetto». Ricorda così a tutti che «ogni cristiano e ogni comunità sono chiamati ad essere strumenti di Dio per la liberazione e la promozione dei poveri, in modo che essi possano integrarsi pienamente nella società»27.
NOTE
1 Cf Manuscrits autobiographiques, Lisieux 1957, pp. 227-229. È il brano che viene proposto nell’ufficio delle letture della Santa (1° ottobre).
2 Deus caritas est, n. 1. Il Papa aggiungeva che «in un mondo in cui al nome di Dio viene a volte collegata la vendetta o perfino il dovere dell’odio e della violenza, questo è un messaggi di grande attualità e di significato molto concreto». Purtroppo le vicende di questi ultimi mesi, segnate dalla barbara uccisione di numerosi cristiani, costituiscono una conferma drammatica di tutto ciò.
3 Evangelii gaudium, n. 1.
4 Ivi, n. 3.
5 Ivi, n. 8.
6 Ivi, n. 19.
7 Lumen gentium, n. 8. La Gaudium et spes pone in questo amore che condivide e si fa servizio il criterio che deve guidare la Chiesa nel suo rapportarsi al mondo: «Nessuna ambizione terrena spinge la Chiesa; essa mira a questo solo: continuare, sotto la guida dello Spirito consolatore, l’opera stessa di Cristo, il quale è venuto nel mondo a rendere testimonianza alla verità, a salvare e non a condannare, a servire e non ad essere servito» (n. 3).
8 Lumen gentium, n. 41; cf S. Majorano, La “vocazione alla santità”: un cantiere aperto, in G. De Virgilio (a cura di), “La vocazione alla santità”. Prospettive nel 50° della Lumen gentium, Rogate, Roma 2014, pp. 107-122.
9 Lettera a tutti i consacrati in occasione dell’anno della vita consacrata, n. II/1, in «L’Osservatore Romano», 29 novembre 2014, p. 4.
10 Lumen fidei, n. 30.
11 Gaudium et spes, n. 19.
12 Sant’Alfonso, Condotta ammirabile della Divina Provvidenza, in Opere, 8, Marietti, Torino 1857, p. 788.
13 Sant’Alfonso, Pratica di amar Gesù Cristo, cap. I, n. 3, in Opere ascetiche, 1, 2.
14 Lettera ai consacrati…, cit., n. I/2, p. 4.
15 Prendo l’espressione da una delle opere che Sant’Alfonso dedica alla preghiera: Modo di conversare continuamente e alla familiare con Dio (Opere ascetiche, 1, CSSR, Roma 1933, pp. 313-314). Già San Tommaso parlava della vita cristiana come «conversatio fidelium» che non deve essere appesantita da prescrizioni o obblighi non indispensabili (I-II, q. 107, a. 4).
16 Lettera ai consacrati…, cit., n. I/2, p. 4.
17 Prendo anche questa espressione dalla raccomandazione che Sant’Alfonso faceva ai confessori, mettendoli in guardia dalla poca accoglienza di alcuni nei riguardi dei penitenti più problematici: «Non fanno così i buoni confessori: quando si accosta un di costoro, se l’abbracciano dentro il cuore» (Pratica del confessore per ben esercitare il suo ministero, cap. 1, § 1, n. 3, Casa Mariana, Frigento (AV) 1987, p. 6).
18 Evangelii gaudium, n. 169.
19 Gaudium et spes, n. 17.
20 Lumen gentium, n. 9.
21 Evangelii gaudium, n. 269.
22 Gaudium et spes, n. 4.
23 Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, Il servizio dell’autorità e l’ubbidienza, n. 1.
24 Vita consecrata, n. 90.
25 Gaudium et spes, n. 69. Papa Francesco specifica: «Il possesso privato dei beni si giustifica per custodirli e accrescerli in modo che servano meglio al bene comune, per cui la solidarietà si deve vivere come la decisione di restituire al povero quello che gli corrisponde. Queste convinzioni e pratiche di solidarietà, quando si fanno carne, aprono la strada ad altre trasformazioni strutturali e le rendono possibili. Un cambiamento nelle strutture che non generi nuove convinzioni e atteggiamenti farà sì che quelle stesse strutture presto o tardi diventino corrotte, pesanti e inefficaci» (Evangelii gaudium, n. 189).
26 Evangelii gaudium, n. 53.
27 Ivi, n. 187.