Vita consacrata: slanci, sfide e speranze nei giovani
Esiste un’acqua dalla quale tutti nasciamo. Alla vita vera, quella senza tramonto. Nasciamo per non morire mai. È l’acqua del Battesimo. Ma impariamo giorno per giorno a vivere l’oggi con il gusto dell’eternità. Impariamo piano piano se qualcuno ha la pazienza di mettersi al nostro fianco e accompagnarci al compimento della nostra umanità. Bella, come quella di Cristo…
1. Sulle tracce di un sogno
Immagino così le giornate di un consacrato. Arrivare a sera, a notte, sapendo di aver regalato ad altri ciò che a te è stato donato per pura grazia: la vita di Gesù con i suoi. Vita spesa a cercare il volto del Padre al di là dei suoi silenzi, a raccogliere suppliche da gente che non sa più pregare o che pensa che la propria preghiera non valga niente, ad ascoltare confessioni e racconti di vita perché tutti si impossessano del tuo tempo, a raccogliere per via e nelle periferie corpi sfasciati dalla violenza e dall’abbandono, a cercare di restituire libertà alle donne vendute sui marciapiedi, a fare casa con tanti che non ce l’hanno. Credo che al cuore della vita consacrata oggi ci sia un sogno: quello della vita piena, della vita che sa di Vangelo, di dono, di missione e di preghiera fin nel cuore della notte, sogno di una vita nella libertà di dare tutto senza l’ansia di averne il tornaconto, vita nella gioia di sentirsi amati e basta, vita all’ombra della croce mentre vai a Dio nel dolore dei suoi figli, vita raccontata dai santi, quelli che abbiamo conosciuto e ci hanno incantato il cuore: Francesco, Chiara, don Bosco, Teresa di Calcutta, Daniele Comboni…
Ogni volta che mi capita di annunciare la Parola ai giovani, di evangelizzare, ritorno al cuore del dono che ho ricevuto. Perché dopo tanti anni quell’incanto di Vangelo è più vivo che mai. Cresciuto di Pasqua in Pasqua, segnato da stigmate che mi ricordano la povertà del mio peccato e l’eredità promessa da Gesù che sono le persecuzioni, oggi quel “primo amore” ha il gusto più forte della maternità. «Ecco eredità del Signore sono i figli, è sua ricompensa il frutto del grembo. Come frecce in mano a un guerriero sono i figli avuti in giovinezza. Beato l’uomo che ne ha piena la faretra: non dovrà vergognarsi quando verrà alla porta a trattare con i propri nemici» (Sal 127,3-5). Anche per chi si alza di buon mattino e va tardi a riposare, come dice il salmo, la visita del nemico arriva. E sono i figli a difenderci nell’ora della tentazione. Perché in certe notti della vita la fedeltà costruita sulla presunzione della propria coerenza o dei moralismi, addirittura a volte sulla stessa fede in Dio, non è sufficiente. È proprio allora che i volti dei figli, le loro attese, la loro fiducia ti vengono in soccorso. Perché puoi tradire Dio, puoi tradire anche te stesso. Ma tradire un figlio no. Perché «chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me gli conviene che gli venga appesa al collo una macina da mulino e sia gettato nel profondo del mare» (Mt 18,6). E lo scandalo che i giovani patiscono di più quando si accostano alla vita consacrata è l’assenza di vita vera, l’insignificanza, la tristezza, la banalità, la rigidità, la burocrazia.
Quali sono le attese e le speranze dei giovani per la vita consacrata?
Si aspettano che sia viva! Perché ciò che è consacrato, vino, pane o persona che sia, manifesta in maniera epifanica la sua “destinazione d’uso”: dedicato al Vivente, alla Vita, alla Risurrezione.
Ma nessuno si può dare la vita da solo, nemmeno un’ora, come ammonisce Gesù nel discorso della montagna (cf Mt 6,27). La vita la riceviamo in dono, anche noi, noi che l’abbiamo stesa sul pavimento nel giorno della professione solenne dei voti. E quindi l’abbiamo perduta. Noi più di tutti gli altri abbiamo bisogno che Dio ce la restituisca ogni giorno perché di nostro non abbiamo più nulla.
Nemmeno la pretesa della verità. Eppure agli occhi dei giovani siamo tra quelli che conoscono la Via. E noi lo sappiamo: per pura misericordia.
Perché magari ci siamo persi mille volte, ma non abbiamo mai disperato del perdono. E siamo tornati a Casa. Per questo, fin dai primi secoli, in oriente e in occidente, chi si nascondeva nel deserto e gettava i semi di una storia meravigliosa scritta da uomini e donne che nella Chiesa hanno risposto al “seguimi” del Maestro, veniva chiamato semplicemente abbà, padre. Padre di sapienza, di misericordia, di pazienza.
Cosa si aspettano i giovani dalla vita consacrata? Che sia paterna, che sia materna. Cioè che sia capace di stare di fronte alla loro libertà in modo adulto, senza eludere le domande. Si aspettano di trovarti quando dopo una lunga fuga stremati tornano indietro. E con i cocci di esperienze devastanti chiedono di depositare il cuore senza essere giudicati. E così scopri che Dio ti ha consacrato per giustificare, cioè per dare a ciascuno secondo giustizia, quella giustizia che nel Vangelo è tutto l’amore che può riempire il vuoto scavato dal peccato e dalle ferite della vita.
2. Consacrati con i debiti: l’urgenza di pagare
Credo che la vita consacrata abbia un doppio debito nei confronti dei giovani. Debito che possiamo restituire in due modi: evangelizzando e servendo questo mondo nella carità. Il primo debito si chiama figliolanza. È la radice di ogni vocazione, la roccia sulla quale costruire la casa. Non importa se questa casa sarà un bilocale con giardino o un convento. Ciò che è certo è che non può esserci né sposo né sposa, né frate né suora se prima non c’è il figlio. «Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo Abbà, Padre. Lo Spirito stesso, insieme al nostro Spirito, attesta che siamo figli di Dio» (Rm 8,14-16). Essere consacrati non significa automaticamente essere uomini e donne spirituali. L’uomo spirituale, cioè chi ha lo Spirito del Risorto “attivo”, attraverso l’incontro, la catechesi, l’accompagnamento aiuta i giovani a riconoscere le schiavitù, che come afferma Paolo apostolo sono la radice di ogni paura. E per chi vive e lavora con i giovani è esperienza di tutti i giorni toccare con mano che dietro tante fatiche e dipendenze non ci sono altro che paure: paura di non valere niente, paura del domani, paura di non sapere amare, paura di non essere amati e neppure amabili, paura di fare sul serio, paura di non essere capaci, paura di non essere degni, paura che il passato ritorni, paura di credere. Paura anche di Dio. E la paura di Dio è il più grande inganno quando si affronta un percorso di ricerca vocazionale. Alcuni giovani non arrivano mai a decidersi perché al fondo di tutto c’è una grande bugia stampata sul volto di quel Dio in cui credono di credere e che a volte certe guide spirituali rinforzano: il Dio della coerenza, del “tu devi…”, il Dio che offre “un posto al sole”, soprattutto se poi diventi sacerdote. La vocazione di ogni persona è l’Amore. Quello goduto perché figli. Quello restituito perché grati.
Allora se siamo figli, tutti, va servita e accompagnata la vocazione di tutti. Rimarranno con le reti vuote quelli che vanno a caccia di candidati per il proprio seminario o la propria congregazione. I giovani annusano l’inganno. E se casomai nella rete rimane qualcuno, e in fretta lo tiriamo sulla riva dell’anno propedeutico o del postulato, ben presto ci accorgeremo che non è pesce per convento.
L’annuncio vocazionale è per la Chiesa. Che è bella e i giovani sono chiamati a costruirla insieme a noi sia che si sposino sia che si consacrino, sia che il Signore li chiami a servirlo per quel talento speciale che gli ha regalato, sia che li associ a sé come agnelli nella via della sofferenza. I giovani si aspettano che un consacrato li sappia amare gratuitamente. Tutti pretendono qualcosa da loro. Noi proviamo ad insegnare loro, con la prossimità e la libertà nell’accompagnamento, che più di ogni altra cosa ci sta cuore la persona, la sua gioia, la forma del suo cuore. Non è più il tempo di cercare vocazioni per tenere in piedi gli istituti. Servono otri nuovi per il vino nuovo. E probabilmente questi otri non saranno banalmente nuove strategie organizzative, nuove tecniche di pastorale vocazionale, rimpasti camuffati di vecchi schemi ecclesiali, ma una mentalità nuova, una conversione della visione ecclesiale, di ciò che siamo come comunità cristiana, come Corpo Vivente del Risorto. Di ciò che siamo come Chiesa.
Il secondo debito infatti è regalare ai giovani, e soprattutto ai giovani religiosi in formazione, una mentalità ecclesiale. Tutti siamo chiamati ad essere fratelli per fare fratelli, cioè per rigenerare, attraverso relazioni redente, la comunità dei figli di Dio. I giovani si aspettano dai religiosi che sappiano essere costruttori di fraternità.
E chiedono di imparare a loro volta. Il rinnovamento della pastorale, anche quella ordinaria e tanto più quella vocazionale in senso specifico, sarà profezia di uomini e donne capaci di tenere insieme le diversità. In una parola: capaci di fare fraternità. Diversi non significa necessariamente separati e le comunità di consacrati, regolari o secolari che siano, da sempre sono impegnate in questa scommessa squisitamente evangelica. Perché i fratelli ci sono dati.
In dono, secondo la testimonianza di Francesco d’Assisi. I fratelli ti vengono dati quando nessuno ti dice che cosa devi fare. «Ma lo stesso Altissimo me lo rivelò» e la fraternità diventa nell’esperienza evangelica di Francesco ermeneutica della volontà di Dio per lui. In fraternità lui comprende la lavanda dei piedi, il mandato missionario agli apostoli, le beatitudini, il mistero dell’incarnazione, i racconti della passione del Signore e la sua risurrezione. Comprende la Parola con la quale Dio alla Porziuncola l’ha chiamato. E tra questi esegeti donati vi sono i poveri, i lebbrosi. Perché la fraternità non è un concetto escludente, ma un’esperienza di inclusione. Nella Chiesa non c’è la selezione. È come sull’arca di Noè: c’è posto per ogni genere di animale. I giovani si aspettano dai religiosi che sappiano stare con tutti.
3. Il coraggio della predicazione
La Chiesa sta riscoprendo, grazie soprattutto ad alcune esperienze di evangelizzazione diretta, la potenza della Parola predicata.
«Come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci?» (Rm 10,14). La fede è strettamente legata all’annuncio. I giovani cercano una parola per la loro vita, perché attraversati gli anni dell’adolescenza e magari della prima giovinezza, quando ritornano a pensare e a sentire senza eludere le domande e le paure, quando l’amore reclama e il sesso isolato dai sentimenti appare chiaramente come una promessa mancata, hanno bisogno di qualcuno che con pazienza, come il Risorto con i due di Emmaus, spieghi loro ciò che è accaduto attraverso le Scritture.
Per questo l’evangelizzazione si fa con il Vangelo! Affermazione apparentemente banale. Eppure le riviste e i sussidi per la pastorale giovanile e vocazionale sono pieni di testi di canzoni, indicazioni per i cineforum, disegni, giochi, cacce al tesoro. Nell’esperienza di questi anni sempre mi ha sorpreso quanto ai giovani dia gusto la Parola di Dio. Perché comprendono che la Parola legge la vita. La loro vita. E, da accozzaglia di esperienze spesso slegate tra loro, la trasforma in una storia di salvezza. I giovani chiedono di sapersi salvati. Chiedono di imparare a vivere da risorti, perché a vivere da morti ci hanno già provato da soli.
Annunciare la Parola è compito soprattutto del profeta. E nella Chiesa la profezia, fino a prova contraria, il fuoco del carisma, dello Spirito creativo, è parte integrante della consacrazione. Maschile e femminile. Le suore non sono sollevate dall’incarico perché tanto ci pensano i padri. Predicare significa esporsi. Anche le donne consacrate oggi sono chiamate a correre questo rischio. Dalla Parola il consacrato, uomo o donna, è stato chiamato e per rendere immediatamente visibile la Parola veste un abito, porta una croce, vive in fraternità, non possiede nulla di proprio, nemmeno la volontà. Vive obbediente. Tutti i giorni, nel silenzio di una cappella o nel caos di un viaggio in metropolitana, vi si immerge. Parola nella liturgia, Parola nella preghiera comunitaria, Parola nella lectio personale, Parola nella condivisione della Parola. I giovani si aspettano da noi una forte familiarità con la Parola, si aspettano che la abitiamo, che siamo di casa con lei. Che la conosciamo a memoria. Non perché ce la ricordiamo tutta, ma perché quando ci raccontano la vita sappiamo ritrovarla nelle pagine della Scrittura. E semplicemente li aiutiamo a fare i nessi.
«E come lo annunceranno, se non sono stati inviati?» (Rm 10,15). La domanda dell’apostolo va girata oggi ai superiori e a quei fratelli e sorelle che nelle congregazioni o nei movimenti ecclesiali hanno responsabilità di governo. Le opere cedono oggi il passo all’opera per eccellenza, l’opera per la quale il Figlio stesso è stato consacrato e noi con Lui: «Per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità» (Gv 17,19). E «che cos’è la verità?» (Gv 18,38). La verità è che siamo figli, che siamo amati, che questa vita è un cammino verso Casa. La verità è che stiamo a cuore al cuore del Padre.
Ecco perché la verità nel Vangelo che predichiamo coincide con la volontà del Padre, che non è un’altra cosa dall’Amore. Serve che il Vangelo, questo Vangelo, sia predicato. Ma non da singoli battitori liberi. Ma dalle fraternità. Perché la prima Parola di questo Vangelo che noi predichiamo è «amatevi» (Gv 15,12). I giovani hanno bisogno di vedere il Vangelo che ascoltano.
4. Un progetto di evangelizzazione e pastorale vocazionale giovanile
Un aspetto del nostro agire pastorale che spesso rende inefficaci tante belle proposte per giovani sta nel dividere ciò che nel Vangelo è unito. È interessante notare che Gesù non ha distribuito compiti pastorali tra i dodici. Tutti incontravano tutti, imparando a dare loro una parola come a distribuire pane. Noi invece abbiamo smembrato la missione ai giovani per creare incarichi, poltrone, uffici. Di pastorale s’intende, ma pur sempre uffici. Il risultato è che molti giovani contattati attraverso eventi che molti istituti definiscono di “pastorale giovanile”, non si travasano poi nelle proposte degli incaricati della pastorale vocazionale, i quali sono costretti a rastrellare tra i giovani parrocchiosi e tra i chierichetti. Se va bene, a volte tra quelli “segnalati” dal parroco. Inoltre alcune esperienze, preparate magari molto bene, con schede fotocopiate ad hoc, video e quant’altro, pur richiedendo un grande dispendio di energie, finiscono per raccogliere i soliti pochi iscritti. Perché molti animatori vocazionali tornano con le reti vuote? Senza scavalcare il buon Dio, che evidentemente avrà le sue ragioni, noi possiamo provare a fare un paio di considerazioni.
Innanzitutto serve riportare al centro del cammino con i giovani, i giovani. I consacrati oggi che servono questi poveri così speciali sono chiamati a intrecciare con loro relazioni fondate sul nostro dovere di evangelizzare e il loro diritto di ascoltare, sulla bellezza della paternità e maternità spirituale, vero cuore di ogni consacrazione.
Non è possibile continuare a pensare a tavolino attività e contenuti.
Solo un ascolto lungo e serio dei giovani fornisce a chi li incontra pagine di Scrittura pedagogicamente efficaci, esempi per attualizzare la Parola, risposte alle domande reali e il coraggio di affrontare i temi scottanti dell’esistenza. Allora un progetto unitario di evangelizzazione e pastorale vocazionale giovanile trova il coraggio di slegarsi dalla logica degli incarichi per ritornare all’esperienza di una fraternità che evangelizza. Consacrati che intercettano la vita dei giovani lì dove realmente si trovano e da lì iniziano con loro un cammino.
In secondo luogo, vanno pensati cammini catechetici che partano da Carran e arrivino fino a Canaan. Perché tutti i giovani, anche quelli bravi e inseriti nei gruppi, partono da lontano. Tutti sono pagani. Come Abramo prima di ascoltare la voce di Dio. Ma tutti, anche se non lo sanno, hanno in cuore il sogno di una promessa che, come per Giacobbe, coincide con una terra da abitare, un lavoro con cui santificare i giorni e un amore per cui benedire Dio. Corsi e percorsi dunque, dove alle esperienze forti si alternano tempi di paziente e graduale lavoro su di sé. Colloqui, tanti colloqui, nella fedeltà a un itinerario che punta a svelare il volto di Dio e il proprio vero volto.
Farsi carico dei giovani e non lasciarli a metà, anche se loro a volte lo fanno. E cercare di portarli alla grande scelta della vita, insegnando loro a non rimanere impigliati nelle illusioni di amori che non sono Amore e a fare discernimento seriamente. Un progetto di evangelizzazione e pastorale vocazionale giovanile che li aiuti a distinguere il bene dal male. Ma soprattutto che li sostenga nella capacità di rinunciare al bene per dire di sì al meglio. La vocazione è questo meglio, ovvero la forma d’amore nella quale lo Spirito del Risorto ci dona di portare più frutto. Per questo non esiste un meglio “in assoluto”. C’è un meglio per ciascuno. Ed è a questa originalità che lo Spirito non rinuncia. E noi con Lui. Questo comporta, per chi annuncia e accompagna, che con ciascuno si debba ricominciare da capo. L’umano non sopporta le catene. Nemmeno quelle di montaggio.
5. Costruire insieme la bellezza di un Sì
Imparare a vivere da risorti è la grande eredità del nostro Battesimo. Perché risorti lo siamo già, ma “attivare” tutta la potenza della risurrezione di Cristo in noi è la scommessa che ci impegna lungo tutto il cammino della vita. Un cammino che non possiamo fare da soli e che comunque non si improvvisa. Nel servizio di annuncio, accompagnamento e condivisione con i giovani è importante non dimenticarci i pezzi per strada. Senza la pretesa di esaurire l’argomento penso sia utile, al termine di questa condivisione, poter indicare quelli che in questi anni di esperienza sul campo sono diventati i temi fondamentali del servizio di evangelizzazione e accompagnamento dei giovani. Dimensioni dell’umano e della vita cristiana da investire, sviscerare e far crescere con la catechesi, la condivisione, la preghiera, la vita fraterna, il servizio vissuto insieme.
a. Innanzitutto bisogna ripartire dalla dimensione creaturale della persona umana. Che siamo creati perché amati è il grande tabù che ferisce la fiducia dei giovani. Che al cuore della nostra esistenza c’è una volontà buona, un desiderio, questo va riannunciato con forza. Per strappare i giovani dallo scetticismo e dalla sfiducia, dalla rassegnazione di esistere per caso e dal non senso. Creati il sesto giorno tra l’altro, quindi creati con nel cuore il desiderio del compimento, perché attratti dalla bellezza del settimo. Svelare ai giovani che quel vuoto non è limite, ma possibilità: questa è una delle grandi sfide della pastorale vocazionale giovanile.
b. Alla creazione, nella Scrittura, segue il racconto della caduta.
Il cammino di guarigione della memoria è la seconda dimensione importante di questo cammino con loro. Chiamare per nome il male, le schiavitù, gli idoli, le bugie, le ferite della vita, i sentimenti mortiferi: i giovani si aspettano una parola chiara e anche se fa male spesso ti dicono finalmente! Ma dobbiamo fare attenzione, soprattutto in questa fase del percorso, ad entrare nei loro sepolcri come ha fatto il Padre per risuscitare il Figlio. Con amore. Ogni caduta è un’occasione per crescere, come lo sono le crisi e perfino i peccati. Spesso i giovani, anche se non sei il confessore, ti fanno accedere al foro interno della coscienza. Devastanti possono risultare i moralismi e i giudizi. Serve uno sguardo pedagogico sulla fragilità, un’intelligenza formativa. Il frutto della memoria guarita è la riconciliazione.
In questa fase del cammino i sacramenti non sono un optional. Sono l’esperienza fisica di incontro con la Grazia.
c. A questo punto il giovane è pronto per ricevere il kerygma, il racconto della nostra salvezza, la testimonianza della Pasqua. E per questo serve una catechesi forte, come il terremoto che ha aperto le tombe a Gerusalemme il venerdì santo. I giovani iniziano così a comprendere che quel Gesù che è risuscitato dai morti è il primogenito di una grande fraternità, quella dei figli del Padre. Fanno esperienza che quella testimonianza che i Vangeli consegnano riguarda la vita e, come è accaduto per i discepoli, comprendono che la Pasqua è la cifra dell’esistenza. Nella Pasqua, in maniera mistagogica, si illuminano tutti i passi di vita già vissuta.
d. La Pasqua non illumina solo il passato. I giovani scoprono che dà sapore anche al presente. E l’oggi è il tempo del discepolato. Ecco una quarta dimensione da nutrire. Prima di avventurarsi verso il futuro, quindi in una qualsiasi scelta vocazionale, l’esperienza mi ha insegnato che è fondamentale per un giovane imparare a dire di sì a Gesù e al suo Vangelo nell’anonima quotidianità che già vive.
Tra la conversione e la vocazione c’è la tappa del discepolato, quel tempo della vita dove si impara a portare gli oneri della sequela senza gli onori. Nessun abito, nessun colletto, nessuna talare. Essere Gesù in famiglia, con la fidanzata e gli amici, in università e con i colleghi, nello sport e nel servizio: semplicemente essere come il Maestro. E vivere tra le pieghe della storia l’avventura della testimonianza. Allora i giovani raggiungono la libertà del cuore davanti alle vocazioni perché hanno imparato ad obbedire alla vocazione che è l’Amore. Questo è il tempo nel quale sanare definitivamente i rapporti familiari, educare corporeità e sessualità alla luce del Vangelo, sperimentare l’autonomia e la presa in carico di se stessi, concludere ciò che si è incominciato, imparare le regole della vita spirituale e del discernimento, mettere al centro la Parola e l’Eucarestia, lasciare che lo Spirito accenda il cuore per i poveri, diventare costruttori della fraternità ecclesiale.
e. I giovani sono pronti per affrontare il futuro, cioè la domanda vocazionale specifica, quando davanti alle vie attraverso le quali l’Amore s’incarna, si trovano nella libertà del cuore che sinceramente tutto sa apprezzare. La quinta dimensione allora di un cammino di annuncio e accompagnamento dei giovani è dunque quella dell’annuncio vocazionale specifico. Il cuore di ciascuno ha una forma e posto che il Signore è il primo in qualsiasi genere di chiamata, bisogna verificare se casomai non sia anche l’unico. Cosa significa amare nella coppia e cosa significa amare nella consacrazione: in fondo la differenza è tutta qui. Oggi le vocazioni, a differenza del passato, hanno contorni più sfumati. Molti laici fanno quello che prima facevano solo i preti. E così molte suore fanno quello che prima facevano solo i padri. Ma anche i padri si trovano ad inventare esperienze di condivisione diretta nella scommessa di fare casa con i giovani e con i poveri. Non è nel fare ma nell’amore che tutti siamo chiamati alla perfezione. Nel sacramento del matrimonio o nella verginità. Ed entrambe queste vocazioni hanno come fondamento il mistero pasquale, la certezza della Risurrezione. Per questo noi consacrati possiamo annunciare: sposatevi, perché amare così ne vale la pena! Se Cristo è davvero risorto voi non consegnerete i vostri figli alla morte ma alla Vita. E le famiglie annunciano a noi: vivete vergini! Perché nella fraternità ecclesiale siete il segno che non c’è bisogno di mettere al mondo figli per rimanere dopo la morte.
Siete il segno che ricorda a tutti che rimanere per sempre, rimanere nell’Amore, non è conquista ma dono. È dunque la Chiesa tutta intera, fraternità di vocazioni diverse, che svela al mondo la grazia del mattino di Pasqua.