N.05
Settembre/Ottobre 2015

Gesù compimento dell’uomo

1. L’annuncio: Gesù compimento dell’uomo
«Chiunque segue Gesù Cristo, uomo perfetto, diventa lui pure più uomo» (GS 41): un’iperbole affascinante e misteriosa che traccia una rotta sicura. Il frammento estrapolato dalla Costituzione pastorale Gaudium et spes (approvata il 7 dicembre 1965) è divenuto uno “slogan” celeberrimo. Il suo messaggio sintetizza uno dei temi principali della prima parte di GS: la visione cristiana dell’uomo, nel suo nucleo essenziale, il nesso tra cristologia e antropologia1.
A cinquant’anni dalla conclusione, il Concilio Vaticano II non smette di parlare, come hanno ribadito i pontefici, indicandolo come «la bussola per la Chiesa del terzo millennio» (NMI 17).
Il paragrafo 41 porta al cuore della lezione conciliare sull’uomo, declinata nei capp. 1-3 e sintetizzata nel cap. 4, La missione della Chiesa nel mondo contemporaneo. Vale la pena stare in ascolto almeno del paragrafo iniziale di questo numero in cui si esplicita: «L’aiuto che la Chiesa intende dare agli individui».
«L’uomo d’oggi procede sulla strada di un più pieno sviluppo della sua personalità e di una progressiva scoperta e affermazione dei propri diritti. Ma poiché la Chiesa ha ricevuto l’incarico di manifestare il mistero di Dio, il quale è il fine ultimo personale dell’uomo, essa al tempo stesso svela all’uomo il senso della sua propria esistenza, vale a dire la verità profonda sull’uomo. […] Soltanto Dio, che ha creato l’uomo a sua immagine e che lo ha redento dal peccato, offre a tali problemi una risposta pienamente adeguata e ciò per mezzo della rivelazione compiuta nel Figlio suo, fatto uomo. Chiunque segue Cristo, l’uomo perfetto, si fa lui pure più uomo”» (GS 41,§1446).
Il punto di partenza è l’istanza tipica della cultura moderna, segnata dalla svolta antropologica: l’affermazione dell’uomo, il suo pieno sviluppo. D’altro canto, il compito della Chiesa rimane squisitamente teologico: essa annuncia il “mistero di Dio”, rivelato in Gesù. Proprio svolgendo tale missione, «al tempo stesso svela la profonda verità sull’uomo»2. Si noti la sintonia con il celebre passo di GS 22: «In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. […] Cristo, che è l’Adamo definitivo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione».
Parlare di Dio risulta strettamente intrecciato al discorso sull’uomo. Teologia e antropologia sono legate l’una all’altra. Ecco perché il compito della Chiesa non la separa dalla vita degli uomini: al contrario, la pone in una profonda sintonia con le attese dell’uomo di ogni tempo (GS 1). L’annuncio di GS 41 – sintetizzando efficacemente il messaggio antropologico della costituzione (GS 3.10.12.22.38) – addita Gesù Cristo come via per la piena realizzazione umana.
In questo breve studio intendiamo stare in ascolto del testo per vedere come parli ancora oggi. In particolare, dovremo valutare cosa ha da dire alla sfida che si impone alla Chiesa italiana, invitata al prossimo Convegno Ecclesiale Nazionale a guardare «in Gesù il nuovo umanesimo»3.
«Chi segue Gesù, l’uomo perfetto, diventa lui pure più uomo»: con questa felice espressione sinteticamente il Concilio ci indica la meta (ossia la pienezza dell’umano), ne fondi la ragione (Gesù è l’uomo perfetto) e, infine, ne mostri la via (la sequela di Gesù). Insieme, con onestà, dovremmo dire pure che lascia trasparire luci e ombre ancora presenti nella proposta conciliare. Ciò è importante non solo per una lettura obiettiva del documento – che non si limiti a comodi “slogan” – ma anche per raccoglierne l’eredità e portare avanti responsabilmente il compito affidato alla Chiesa di oggi.

2. «Diventa lui pure più uomo»: la meta
Anche per la Chiesa l’obiettivo è la pienezza umana. Annunciare il mistero di Dio implica indissolubilmente, come altro lato della medaglia, la rivelazione dell’uomo. Questo è l’orizzonte unitario della sua missione. Non la mortificazione o la cancellazione dell’umano, ma il suo compimento pieno e definitivo. Non è una chance preziosa per le sfide di oggi?
Forse nella storia non è sempre stato così. O quanto meno non in modo esplicito. Inevitabilmente il debito ai contesti culturali ha segnato la comprensione del Vangelo e il suo annuncio su Dio e sull’uomo. Ne è un indizio l’epoca dei grandi ateismi ideologici che hanno proposto la negazione di Dio al fine di poter affermare l’uomo4. Al di là della necessaria critica a tali impostazioni, una simile contrapposizione tra l’umano e il divino suggerisce una attenta valutazione del nostro modo di annunciare il Vangelo. Proprio Gaudium et spes (nn. 19-21) invita la Chiesa a una seria verifica, poiché «nella genesi dell’ateismo possono contribuire non poco i credenti, per aver trascurato di educare la propria fede, o per una presentazione fallace della dottrina, o anche per i difetti della propria vita religiosa, morale e sociale» (GS 19).
Nell’annuncio genuino del Dio di Gesù, invece, trova piena luce anche l’uomo. L’uno non è a discapito dell’altro. Siamo di fronte a un intenzionale passo in avanti: il Concilio, pur in ritardo, accoglie il meglio della “svolta antropologica”, per la sua genuina valorizzazione dell’umano, secondo il progetto di Dio.
Per questo dichiara che interesse centrale della GS «è l’uomo, ma l’uomo integrale» (GS 3,§1322), ossia tutto l’uomo; ma pure tutti gli uomini, poiché «la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina» (cf GS 22,§1389). Quel vertice del n. 41 esplicita la buona notizia della speranza cristiana: la piena realizzazione umana si raggiunge seguendo Cristo.
Un simile annuncio non incontra forse il desiderio di ogni uomo? Credenti e non. Che chance per la Chiesa! Non è un crocevia strategico per la nuova evangelizzazione? Non si tratta di cedimento alla logica del mondo né di compromesso. Per GS fa parte indissolubilmente dell’annuncio del Vangelo. Dire Dio implica dire l’uomo: Gesù, svelando il mistero di Dio quale Padre, rischiara il volto dell’uomo, pensato come figlio adottivo.
Ultimamente appartiene alla logica stessa della rivelazione: Dio stesso si è fatto uomo per dir-si. Dio dunque non si presenta come antagonista dell’uomo. Al contrario come il sole che lo rischiara. Non a caso, Giovanni Paolo II – che aveva partecipato alla stesura finale di GS – proclamerà «l’uomo via fondamentale della Chiesa» (Redemptor hominis, n. 14).

3. «Diventare più uomo»: sfida affascinante o malcelato problema?
Se la meta risulta attraente, lo slogan lanciato dal Concilio contiene un’iperbole suggestiva, ma, ad uno sguardo schietto, lascia emergere qualche dubbio: è mai possibile diventare “più uomo”? Che senso può avere?
Proprio la singolarità dell’immagine fa intravedere, in controluce, una certa fragilità del testo. Indubbiamente ha l’intento positivo di indicare la novità portata da Gesù Cristo, l’eccedenza del suo annuncio, che l’uomo non poteva darsi da solo. Del resto, ha sorpreso persino le aspettative secolari del popolo di Israele.
Tuttavia, il rischio è di insinuare una pretesa superiorità rispetto agli altri uomini o, persino, una visione negativa delle altre culture. Gli altri sarebbero, forse, “meno uomini”? Come si rispetterebbe la bontà dell’opera creatrice e l’azione universale dell’unico Spirito di Dio (GS 22,§1389)? O, più semplicemente: è possibile diventare “più uomini”?
Gli studi del testo, da tempo, hanno ormai approfondito ricchezze e limiti di GS. Un documento ricco, ma pure figlio del suo tempo5. Per non equivocare la portata del messaggio – pur senza entrare nei dettagli del dibattito – occorre almeno ricordare che qui riecheggia la prospettiva neoscolastica preconciliare che il Concilio voleva superare, ma di cui, in parte rimaneva prigioniero6. Si tratta del cosiddetto modello del “duplice ordine” o del “duplice fine”. Utilizzando il linguaggio di Tommaso si era introdotta una separazione netta tra una comprensione naturale dell’uomo (conoscibile dalla ragione e dalla filosofia) e quella soprannaturale (raggiungibile solo attraverso la rivelazione e la fede). Ad esse corrispondevano due distinti fini: la felicità (naturale) e la visio beatifica (il fine soprannaturale).
Ecco perché pareva pacifico parlare di un “di più” dato dal cristianesimo: il “sopra-naturale”, che rimane aldilà sia delle conoscenze sia delle possibilità dell’uomo.
Se la conclusione è suggestiva e sembra tutelare la singolarità cristiana, in realtà lo faceva in modo parziale e, persino, illusorio. Infatti, tale modello aveva come scopo di tutelare la gratuità del soprannaturale. In qualche modo, potremmo dire, voleva salvaguardare la novità inedita del dono di Dio in Gesù, che supera ogni aspettativa umana. Evidentemente tale dato non può essere perso. Tuttavia, il rischio sottile era di rendere il “sopra-naturale” un super-additum, qualcosa di sopraggiunto. Ossia, la novità cristiana risulterebbe “un di più”, che si aggiunge “dopo” alla comprensione dell’uomo. Indubbiamente “superiore”, ma proprio per questo non lo riguarda intimamente e, alla fin fine, non necessario alla sua felicità. Paradossalmente, l’uomo risultava definibile anche a prescindere dal soprannaturale – che interveniva solo in seguito – e, dunque, anche senza riferimento a Cristo. Evidentemente, tale esito non era voluto, ma era insinuato in quell’impostazione.
La teologia ha già dibattuto a sufficienza per smascherare questo modello interpretativo. Del resto, già San Tommaso, pur coniando il linguaggio, aveva una visione antropologica unitaria, entro cui “distingueva” i due aspetti del fine dell’uomo, senza però “separarli” né giustapporli.
L’iperbole di GS 41, per quanto suggestiva, deve richiamare alla memoria questi possibili rischi. Ogni volta che pensiamo il dato “cristiano” come “un di più”, aggiuntivo all’“umano”, può essere che, illudendoci di difendere la superiorità del Vangelo, in realtà lo si renda estraneo e non necessario all’uomo per comprendersi e per essere pienamente se stesso. Più che di “superiorità” occorre fondarne la singolarità!
Altrimenti, come la visione cristiana dell’uomo avrebbe ancora qualcosa da dire a tutta l’umanità? Come Gesù potrebbe essere il compimento dell’uomo stesso? Avvertiti di questo rischio possibile, si può apprezzare la forza esuberante dello slogan conciliare e cercare il fondamento della sua pretesa e la via per la sua attuazione oggi.

4. «Gesù Cristo, l’uomo perfetto»: il fondamento
Chiarita la pretesa cristiana, occorre renderne ragione: perché proprio Gesù rende pienamente uomini? È un impegno interno all’annuncio (1Pt 3,15), come pure un’esigenza culturale urgente
nella società plurale e multietnica. Globalizzazione e frantumazione della societas christiana, tracce della secolarizzazione, non vanno semplicemente temute come smarrimento delle sicurezze passate. Perché non coglierle come un Kairòs, un’occasione stimolante che la Chiesa riceve per dire ancora e in modo nuovo la bellezza del Dio di Gesù Cristo?
GS 41 addita Gesù riconoscendolo «l’uomo perfetto», homo perfectus.
Il latino indica in lui la verità dell’umano, la persona pienamente realizzata7. La ragione può essere trovata in precedenza, nel passo di GS 10 – forse meno studiato del più celebre 22 – che sviluppa l’annuncio cristologico in un crescendo progressivo.
«Ecco, la Chiesa crede che Cristo, per tutti morto e risorto, dà all’uomo, mediante il suo Spirito, luce e forza perché l’uomo possa rispondere alla suprema sua vocazione; ne è dato in terra un altro nome agli uomini in cui possano salvarsi» (GS 10,§1351).
Anche qui, Gesù è presentato come la risposta alle domande dell’uomo, perché è colui che dà “luce e forza” per comprendere e realizzare la vocazione dell’uomo, ossia la sua identità ultima. Non solo: la verità di Cristo non riguarda solo la libertà umana, ma il senso della storia: Lui è «la chiave, il centro e il fine di tutta la storia umana» (GS 10,§1351). Evidente la centralità di Cristo nell’annuncio cristiano. Ma dove si fonda tale ruolo?
Al culmine di quel paragrafo, con un’efficace citazione di Paolo (poi ripresa anche al 22), i padri concludono: «Inoltre la Chiesa afferma che al di sotto di tutti i mutamenti ci sono molte cose che non cambiano; esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo, che è sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli. Così nella luce di Cristo, immagine del Dio invisibile, primogenito di tutte le creature (Col 1,15), il Concilio intende rivolgersi a tutti per illustrare il mistero dell’uomo e per cooperare nella ricerca di una soluzione ai principali problemi del nostro tempo».
Cristo, è l’imago Dei, prima e più ancora dell’uomo. Per questo è il primogenito di tutte le creature. La novità portata da Gesù approfondisce in maniera inedita il messaggio dell’AT secondo cui l’uomo è imago Dei (Gen 1,26-28; cf GS 12). Originariamente l’imago Dei è Gesù, il Figlio (Col 1,15; Ef 1,9; cf GS 22) e, di conseguenza, gli uomini sono creati a sua immagine, quali figli adottivi.
Ecco perché Gesù è la verità dell’uomo. Coerentemente ne è il “compimento”, perché prima di tutto né è il “fondamento”. Ecco la ragione delle pretesa cristiana e il motivo per cui non mortifica nulla di tutto ciò che è umano. Solo in Gesù si comprende chi siamo. Per questo la Traccia del Convegno ben conclude: «Veramente riconoscere il volto di Dio manifestatosi umanamente in Gesù Cristo ci permette di capire a fondo il nostro esser uomini, con le sue potenzialità e responsabilità» (57).
E commenta con una splendida pagina di Romano Guardini: «Comprendiamo ora l’umile e pur così eccelso nome che il Messia porta: “il Figlio dell’Uomo”. Nessuno è così intimamente, così sapientemente, così altamente uomo come lui.
Per questo egli ci conosce. Per questo la sua parola va alla sostanza delle cose. Per questo l’uomo è radicalmente compreso nella parola di Gesù più di quanto egli stesso non sia in grado di comprendersi. Per questo l’uomo può riporre la sua fiducia nella parola di Cristo più profondamente che in quella dei più grandi sapienti» (Il Signore, cit. in Traccia, nn. 56-57).

4. «Chiunque segue Gesù»: la via
Se Cristo è il fondamento e, per questo, la meta della pienezza umana, la strada per realizzarlo consiste nella sua sequela. «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Seguire Gesù diventa la via per un “nuovo umanesimo”.
Come si può declinare tale percorso? Gesù è una persona, non una dottrina né un trattato di antropologia. Cosa implica dunque tale via? La storia della spiritualità cristiana è un patrimonio ricco che ha mostrato come la figura di Gesù abbia plasmato la vicenda umana in forme molteplici, secondo il luoghi e le culture del tempo. Meriterebbe osservare la varietà delle spiritualità che sono nate nella storia e il loro legame con le società: da quelle contemplative dei padri del deserto ai monasteri medievali, dalle forme di vita attiva a quelle caritative e missionarie…
Rimanendo, però, in ascolto del testo del Concilio, ci pare che una lezione possa essere di particolare attualità in vista del Convegno di Firenze, per annunciare l’umanesimo cristiano anche oggi. Per evitare l’estraneità o la semplice aggiunta del cristianesimo alle visioni umane, GS articola un metodo di lavoro: il discernimento8.
«Per svolgere questo compito, è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in un modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto» (GS 4,§1324).
La proposta è nota. Ma merita di essere studiata e applicata ancora. Il metodo, che rielabora il ritmo della JOC – vedere-giudicare-agire – è dettagliato anche nell’efficace numero 11. Il punto di partenza consiste nel riconoscere negli avvenimenti quotidiani «i veri segni della presenza o del disegno di Dio» (cf GS 11). Lo sguardo sulla realtà – il “vedere” – implica già “l’occhio della fede” (come lo chiamava Rousselot). Non ci si limita a una lettura sociologica o a una semplice registrazione statistica degli episodi. Piuttosto, si tratta di sapervi cogliere le tracce di Dio. È un inizio già teologico. Per questo esige “la luce del Vangelo” al fine di poterli interpretare. Il successivo “giudicare” richiede nuovamente il criterio della fede, per condurre, alla fine, a «rispondere ai perenni interrogativi degli uomini» (GS 4).
Rispetto a tale metodo, possiamo rileggere i primi tre capitoli di GS come un tentativo di declinare questo percorso, proprio sulla questione antropologica. Infatti, secondo la chiave di lettura di L. Sartori9, ci offrono un esempio di come il Concilio abbia cercato di far dialogare l’antropologia cristiana con gli umanesimi dell’epoca. Concretamente si misura con tre figure dell’antropologia: la persona (cap. 1), la comunità (cap. 2) e il lavoro o il rapporto dell’uomo col mondo (cap. 3). Per Sartori dietro questi snodi stanno i grandi umanesimi dell’epoca moderna: rispettivamente quello liberale illuminista, quello collettivista del marxismo e quello più recente della tecnica e della scienza.
In quest’ottica, i tre capitoli appaiono come un’attuazione del discernimento indicato all’inizio. La Chiesa si apre al dialogo coi grandi umanesimi dell’epoca contemporanea, non in un atteggiamento di contrapposizione né di condanna (Giovanni XXIII). Quest’ascolto educa a uno stile nuovo: non si tratta di ascolto acritico, ma di un’accoglienza che parte riconoscendo “i valori” (GS 11,§1353) presenti nei modelli antropologici. Di certo, ha cura di “purificarli”, lì dove siano “distorti”, ma ancor più di approfondirli, portando la luce della Rivelazione cristiana che li riconduce «alla loro divina sorgente», ossia al loro “fondamento” ultimo che è Cristo. La lezione di metodo di GS 4 e 11 rimane ancora attuale e merita forse di divenire uno stile ecclesiale diffuso e condiviso.
Del resto, ci pare l’esigenza avanzata anche dalla Traccia del Convegno. Alcuni passaggi si apprezzano ancora di più alla luce della lezione conciliare.
Anche il testo della CEI riconosce che il tema del Convegno potrebbe risultare “problematico” per la pretesa di avanzare un “nuovo umanesimo”. L’intenzione è di “evitare teorie prescrittive e astratte” (p. 13), così come “un modello monolitico” (p. 17). Coerentemente, si propone di «partire dall’ascolto del vissuto: una via questa, capace di riconoscere la bellezza dell’umano “in atto”, pur senza ignorarne i limiti» (p. 13). Non è forse l’attitudine al discernimento a cui il testo dedica un’ampia sezione (pp. 42-43)?
La Chiesa non esita a misurarsi con le ricchezze e le contraddizioni della cultura odierna. Rispetto ai grandi umanesimi con cui si trovava a confrontarsi il Vaticano II, oggi si assiste ad una molteplicità di prospettive. Anzi, allo smarrirsi dell’umano: «Nel modo di vivere, prima ancora che sul piano teorico, si diffonde la convinzione che non si possa neppure dire cosa significhi essere uomo e donna. Tutto sembra liquefarsi in un “brodo” di equivalenze» (p. 24).
In questo orizzonte, l’annuncio di Cristo quale via perché ciascuno possa essere “più uomo”, ossia «un’esperienza di umanizzazione senza precedenti o paragoni» (p. 42) non appare un’illusione o una pretesa.
Infatti, «il male del quale il nostro tempo sembra soffrire è l’autoreferenzialità» (p. 26), quella frammentazione dell’umano che porta a perdersi. Paradossalmente, ci rende più acuto il bisogno di relazione, di comunione, «vera matrice della nostra libertà» (p. 30).
A tale esigenza, la Chiesa ha di nuovo in Cristo la risposta liberante.
Anzi, la fragilità del postmoderno accentua ancor di più la novità dell’annuncio biblico: Gesù, il Figlio unigenito, rivelando il volto di Dio come Padre, svela che l’uomo è per Dio figlio adottivo e fratello di tutti. È il disegno originario descritto da Paolo: «Quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli» (Rm 8,28-29). In Cristo trova fondamento teologico la struttura relazionale dell’uomo, creato in una comunione non meno che filiale con Dio stesso e fraterna con tutti gli uomini.
Ecco la “pretesa” cristiana, la singolarità e bellezza. Non rimane dialogante con tutte le altre sincere ricerche umane?
L’originalità del Vangelo affida alla nostra Chiesa una sfida affascinante non per difendere le proprie mura, ma per incontrare tutti gli uomini. Anzi, proprio la condizione di oggi si svela un’occasione favorevole per l’annuncio.
Sarà questo anche un modo per non fare solo una commemorazione del Concilio, ma per riviverne lo spirito, che è stato efficacemente sintetizzato da Paolo VI nell’omelia conclusiva (07.07.1965): «Tutta questa ricchezza dottrinale è rivolta in un’unica direzione: servire l’uomo. L’uomo, diciamo, in ogni sua condizione, in ogni sua infermità, in ogni sua necessità. La Chiesa si è quasi dichiarata ancella dell’umanità, proprio nel momento in cui maggiore splendore e maggior vigore ha assunto, mediante la solennità conciliare, sia il suo magistero ecclesiastico, sia il suo pastorale governo: l’idea di ministero ha occupato un posto centrale» (Hodie concilium, n. 460).
Ecco la collaborazione che, ancora oggi, la Chiesa può dare ad ogni uomo.

Note
1 F.G. Brambilla, «Il Concilio Vaticano II e l’antropologia teologica», in «La Scuola Cattolica» 114 (1986), pp. 663-676; G. Colzani, «Cristocentrismo e umanesimo cristiano nella ‘Gaudium et spes’», in «Rivista del Clero Italiano» 75 (1994), pp. 339-354; P. Coda, «L’uomo nel mistero di Cristo e della Trinità. L’antropologia della “Gaudium et spes”», in «Lateranum» (1988), pp. 164-194.
3 F. Scanziani, «L’antropologia sottesa a Gaudium et Spes. Invito alla lettura», in «La Scuola Cattolica» 135/4 (2007), pp. 625-652 (con bibliografia).
3 CEI – Comitato preparatorio, In Gesù Cristo il nuovo umanesimo. Una traccia per il cammino verso il 5° Convegno Ecclesiale Nazionale, EDB, Bologna 2015.
4 Cf H. De Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo, Morcelliana, Brescia 2013 (or. fr. 1944).
5 A. Riva, «Attualità della “Gaudium et Spes”», in «Rivista del Clero Italiano» LXXXIII/5 (2002), pp. 342-358.
6 G. Colombo, «La teologia della “Gaudium et Spes” e l’esercizio del magistero ecclesiastico», in «La Scuola Cattolica» 98 (1970), pp. 477-511.
7 Cf L. Ladaria, «L’uomo alla luce di Cristo nel Vaticano II», in Vaticano II. Bilancio e prospettive. Venticinque anni dopo: 1962-1987, Ed. Cittadella, Assisi 1987, pp. 939-951.
8 F. Scanziani, «In Gesù Cristo il nuovo umanesimo». Indicazioni di stile dalla Gaudium et Spes», in «Rivista del Clero italiano» XCVI/2 (2015), pp. 122-137.
9 L. Sartori, La Chiesa nel mondo contemporaneo. Introduzione alla “Gaudium et spes”, Ed. Messaggero di Padova, Padova 1995.