N.05
Settembre/Ottobre 2015

Io sono grazie a te

Io grazie a te: dice già un “io” e un “tu” e una relazione. E quel “grazie” ci provoca ad essere capito e interpretato. Significa: io esisto solo grazie a te? Oppure significa: io (dico) grazie a te? E questo “tu” è minuscolo o maiuscolo, è l’altro o l’Altro?
C’è una parola francese molto bella, “reconnaissance”, che tiene insieme queste due sfumature: la riconoscenza e il riconoscimento. Esisto perché qualcuno mi ha desiderato; e perché qualcuno continua a tenermi in vita con il suo amore. “Riconosciuto” come amabile, divento capace di riconoscenza. Esistendo grazie a te, ti dico grazie. E, a mia volta, divento capace di amare, di mettere in “circolo” il dono di “grazie”.
Questo è il percorso che vorrei fare con voi in queste pagine. Ma per farlo ho bisogno di scandire alcuni passaggi: che sono “figure” storico-filosofiche (modelli antropologici), ma soprattutto modi d’essere, esperienze che ci abitano, inevitabilmente. Dal negativo all’ideale io-grazie-a-te: ideale di felicità, a cui tutti, consciamente e inconsciamente, tendiamo.

1. Io “contro” te: la deriva negativa del desiderio
I “teorici” la chiamano “antropologia negativa”, o modello hobbesiano. Tutti ricordiamo Hobbes: il filosofo dell’homo homini lupus. Perché l’uomo diventa lupo dell’altro uomo? Perché è desiderio, desiderio illimitato di potere1: di poter desiderare sempre; di non morire mai. E, proprio per questo, si ritrova in lotta con gli altri.
La descrizione di quello che Hobbes chiama “stato di natura” (la guerra di tutti contro tutti) è inquietante e insieme paradossalmente affascinante, perché descrive “esattamente” noi. Tutti. Nel profondo.
Immaginiamo2. Sono in un campo. E vengo attratto da una mela. È bella, buona; ho fame; la mangio. Ma – guarda caso! – qui intorno c’è un altro uomo. Forse verrà e prenderà anche lui una mela, forse tutte le mele. E quando io tornerò domani o tra un mese e ne vorrò un’altra, non la troverò. Allora, prendo una seconda mela; o, meglio, tolgo tutte le mele dall’albero. Anzi, faccio un recinto qui intorno, così l’albero diventa mio. Domani, magari, poi, allargo il recinto fino ad abbracciare tutti gli alberi della zona. E ci costruisco una casa, così posso controllare il campo, perché nessuno entri e rubi le mie mele. Ecco: ora va bene!
Va bene? E no; perché, fa notare Hobbes, se sei diffidente, non ti fermi lì. Stai sempre con le armi a portata di mano. Costruisci mura su mura. E poi inizi a non dormire più, perché… il ladro arriva sempre di notte. È inutile: non ti fidi. Probabilmente hai avuto molte “delusioni” in passato. Le persone ti hanno ferito. E ora pensi che sono tutte delle “fregature”. Allora… che fare? Bisogna farsi furbi.
Più furbi degli altri.
L’uomo è desiderio e ragione, dice Hobbes. E impara a giocare d’anticipo. Prima che gli altri possano ferirci e deluderci, prima che possano offenderci e derubarci, andiamo noi “contro” di loro. Come si suol dire: l’attacco è la miglior difesa.
Adesso basta. Quante volte stavo tranquillo e tu hai invaso i miei spazi e i miei diritti? Quante volte mi sono fidato e ho cercato di mettermi d’accordo con te e mi hai preso in giro? Quante volte ti ho rispettato, non ti ho aggredito e ho ricevuto solo dolore? E quante volte ho cercato la pace e ho trovato la guerra? Ora ho capito (il noto detto): si vis pacem, para bellum, se vuoi la pace, prepara la guerra.
Questo è lo stato di natura, questa è la nostra natura: dal desiderio e dalle ferite derivano la diffidenza, l’attacco, la lotta. Ma qual è il tarlo segreto di questo meccanismo? Hobbes lo sa: è la paura (e forse non è un caso che “qualcuno” abbia ripetuto costantemente ai suoi discepoli di non avere paura!).
L’uomo diventa lupo solo perché è ferito, impaurito: impaurito davanti a se stesso, agli altri, al mondo. «La vita dell’uomo è solitaria, povera, sofferta, brutale e breve» – scrive Hobbes. E l’uomo ha paura della solitudine, della povertà, della sofferenza, della brutalità, della brevità dell’esistenza. E dietro ogni angolo è nascosta la minaccia che può rubarci la nostra fragile vita. E ogni occasione va sfruttata per difenderla e conquistarla. E questa è la deriva negativa del desiderio: io contro te.

2. Io riconosciuto da te: desiderare di essere desiderati
Esiste, però, un altro modo di pensare la relazione io/tu. Un modo che non elimina la “lotta”, le “crisi”, le difficoltà (perché il negativo ci abita: non riconoscerlo significa rimuoverlo; il che è pericoloso per lo meno come scaricarlo sugli altri).
C’è tutto un filone della filosofia tedesca e francese contemporanea3, molto interessante, che, partendo da Hegel, esplora la dimensione del “riconoscimento” insita nel desiderare. «Io» significa «colui il quale ha bisogno di essere riconosciuto come io»4. Nessuno può esistere, può trovare la propria identità, se un altro non lo riconosce come tale.
E il primo riconoscimento, dice Hegel, è quello che avviene in famiglia. Già il fatto di nascere ci ricorda che non ha ragione Hobbes; la vita non è “solitudine”, perché nasciamo da altri. Persino quando rifiutati dai nostri genitori, questo può avvenire solo perché c’è un legame che viene negato. Mi piace qui richiamare la Traccia per il cammino verso il 5° Convegno Ecclesiale Nazionale: In Gesù Cristo il nuovo umanesimo:
«La relazione non si aggiunge dall’esterno a ciò che siamo: noi siamo di fatto relazione. Lo siamo prima ancora di sceglierlo o di rigettarlo consapevolmente, perché non veniamo da noi stessi, ma ci riceviamo da altri, (…) il nostro esistere è un “esistere con” e un “esistere da”: impensabile, impossibile senza l’altro. L’essere generati è al fondo di ogni nostra possibile e necessaria autonomia. (…) Una vera relazione s’intesse a partire dal riconoscersi generati, cioè figli»5.
«Maschile e femminile – aggiunge il filosofo Paul Ricoeur – sono tra le invarianti che strutturano il nostro essere-al-mondo secondo il modello familiare: ciascuno di noi è nato dall’unione di un uomo e una donna»6.
Proviamo a pensare al nostro albero genealogico. Parte dall’alto, come se paradossalmente le sue radici fossero in cielo; con una doppia provenienza, un doppio ramo: la linea materna e quella paterna. E dai genitori, ai nonni, fino agli avi degli avi, arriviamo all’uomo e alla donna da cui discendiamo. Un albero con le origini che si perdono nella storia stessa dell’umanità. E, come frutto e come eventuale futuro nuovo ramo, il mio nome. Anzi, innanzitutto il mio cognome, la mia identità, istituita anche “civilmente”, che mi ricorda che sono “figlio di, figlia di”7.
E questa è la mia prima e indiscutibile forma di identità. Posso non essere padre, non essere madre, non essere fratello o sorella.Ma mai nessuno potrà togliermi il mio essere figlio/figlia, un «inestimabile oggetto di trasmissione»8.
Hannah Arendt, che sicuramente non possiamo definire una filosofa credente, lo chiamava «miracolo della nascita»9. In questo senso, dicevo, il primo riconoscimento, quello dei genitori, è decisivo10. Ma, ovviamente, la logica del “grazie a te” non è solo questa. In senso lato e ampio, ogni forma d’amore è una forma di riconoscimento.
«Gli individui sono l’amore. (…) Il loro essere l’uno per l’altro è l’inizio di ciò. (…) Il riconosciuto è riconosciuto come avente immediatamente valore, mediante il suo essere(…). Nell’amore l’uomo viene necessariamente riconosciuto ed è necessariamente riconoscente»11. È Hegel. E ci ricorda che per essere riconosciuti bisogna essere amati.
L’uomo è un essere bisognoso. Ma di cosa ha bisogno primariamente? Dell’altro. «Essere se stessi in un estraneo» – dice Hegel. E questo lo capiamo facilmente se pensiamo, in negativo, alle situazioni di “misconoscimento”, non-riconoscimento. Se l’altro (l’amico, l’amante) mi “umilia”, si “ritrae”, mi “rifiuta”, colpisce il mio essere. «Privato di approvazione è come se non esistessi»12. Se allontani da me il tuo sguardo desiderante, il prezioso e fragile cristallo della mia identità comincia già ad incrinarsi.
Evidentemente, però, questa visione è molto pericolosa, se presa alla lettera. Il rischio è quello di cadere in una relazione-prigione. Pensiamo ai genitori che, sì, riconoscono il figlio in quanto figlio, ma lo legano a questo riconoscimento; non gli danno la libertà di esprimersi nella sua autonomia. O pensiamo ad un amico, un amante che riconosce l’amato, ma lo soffoca in questo legame, impedendogli il volo.
Axel Honneth coniuga, su questo tema, Hegel con Freud13. Non solo rispetto ai figli bisogna saper rompere il “legame libidinale di natura fusionale”, il cordone ombelicale, ma rispetto ad ogni relazione. Il desiderio maturo è quello che libera e lascia liberi: non perché mi sei indifferente, ma perché ti amo.
Pensiamo alle pagine stupende dell’autocoscienza desiderante della Fenomenologia dello spirito di Hegel, da cui hanno preso spunto poi tanti pensatori francesi14. Il primo livello del desiderio è quello della fame. Prima, con Hobbes, facevo non a caso l’esempio della mela. Ma, dopo che ho preso l’oggetto, l’ho mangiato, l’ho fatto mio, ho di nuovo fame. Questo desiderio oggettuale, passando di oggetto in oggetto, non sfama, ma lascia vuoti. È l’esperienza di tanti adolescenti, ma oggi purtroppo anche di tanti bambini (e tanti adulti rimasti bambini o adolescenti) che hanno tutto e non hanno niente; perché un desiderio sempre appagato perde il mordente del desiderare.
Ma ecco che l’autocoscienza, dice Hegel, ad un certo punto vede uno sguardo. Uno sguardo che non è quello delle cose da mangiare, della palestra, del ballo e dello sballo, è uno sguardo che mi guarda: e, in quello sguardo, colgo un desiderio. Sento di essere desiderabile. La mia fame viene sollecitata in maniera insolita, potente. Corro verso quello sguardo che voglio mangiare, quel desiderio che desidero.
Ma, fa notare Hegel, anche questo in fondo non appaga. Succede che prima o poi anche questa brama resta delusa, perché capisco che l’altro è altro; che non è mio, che non sono io. Che non lo posso mangiare, nemmeno con tutti i miei baci, i miei abbracci, i miei sensi.
E allora le vie che si aprono sono due: una è quella che hanno descritto meravigliosamente Mozart e Kierkegaard, la via del Don Giovanni, del seduttore. Quello che prima facevo con le mele, con i cellulari, con i vestiti di marca, ora lo faccio con le donne (o con gli uomini, per par condicio). Ho fame e prendo. Eros, consumo, mangio. Ho di nuovo fame? Di nuovo consumo e mangio. Ricordate il famoso “catalogo” delle conquiste del Don Giovanni, nell’opera di Mozart? “Purché porti la gonnella”, va bene. Ma, fa notare Kierkegaard, qui siamo davanti, in realtà, ad un desiderio prigioniero: Don Giovanni non sceglie: è “costretto” a prendere. È schiavo della sua stessa fame. Perciò poi si trova sempre di nuovo svuotato15.
Oppure? Pare ci sia un’alternativa. Scelgo di fermarmi. Con un uomo, con una donna, in un legame (magari in una famiglia). Eppure, anche in questo caso, per un po’ va bene. Ma poi (prima o poi)… torna Hobbes, in Hegel; torna la “lotta”.
Hegel la chiama la lotta delle autocoscienze16. E sono pagine giustamente famose. Non voglio rinunciare a te, ma non voglio e non posso nemmeno farmi schiacciare. E quindi nasce il contrasto. Il mio desiderio di impossessarmi di te contro il tuo desiderio di impossessarti di me. Ho bisogno di te, ma ho anche bisogno di essere libero. E quindi la lotta. Interiore. Esteriore. E tante volte, la morte. Perché le relazioni che non sanno attraversare la “dialettica del negativo presente” in ogni desiderio muoiono.
Ma come trovare un equilibrio tra legame e libertà? Hegel ha anche qui un’intuizione fantastica, che proverò ad attualizzare. Nei manuali di filosofia si chiama la dialettica servo/signore. Che cosa succede? Succede che, ad un certo punto, nella dialettica inevitabile delle relazioni, se la relazione non si spezza, c’è qualcuno che cede. Pensiamoci. È così più o meno in tutti i nostri rapporti: familiari, lavorativi, comunitari, di amicizia, d’amore: c’è sempre uno più forte e uno più debole. Hegel dice “un signore e un servo”. Quello che in casa ha i pantaloni (e non sempre è l’uomo…). Uno che prende le decisioni e uno che si fa trascinare. Spesso per carattere. Alle volte perché uno dei due si sottomette. Magari per evitare di litigare sempre, di tirare sempre la corda. Perché altrimenti la relazione muore. Il servo, dice Hegel, è quello che ha paura della morte. E quindi forse è anche quello che desidera di più la vita; desidera di più tenere in vita la relazione. Allora cede. Meglio lasciar correre. Meglio lui signore, io serva (oppure al contrario: lei signora e io servo).
Evidentemente, però, nemmeno questo livello di relazione desiderante, nemmeno questo livello di riconoscimento è maturo. Ci vuole un ulteriore passaggio: dalla sottomissione alla consapevolezza del proprio valore. Storicamente questo è avvenuto. Pensiamo a tutte le rivoluzioni, in cui un popolo aggiogato si è reso conto della propria dignità e ha rovesciato il ruoli, i sistemi di riferimento.
Il servo della gleba, per esempio: lavorava la terra mantenendo i signorotti del castello. Ad un certo punto si è chiesto: chi è il vero servo? È il signore del castello che dipende da me; se io non lavoro, il padrone non mangia.
Ora spostiamo tutto questo sulle relazioni. Chi è il vero “forte” nella relazione? Chi deve vincere sempre o chi sa anche accettare alle volte di sottomettersi, di perdere, di farsi da parte? Chi è il vero signore della relazione, chi è che la sor-regge, che le consente di andare avanti? Forse proprio chi in apparenza è il debole, lo sconfitto, il servo.
Un “desiderio” cristiano, poi, potrebbe colorare queste intuizioni hegeliane con il tema del servizio ( “eccomi, sono la tua serva”; “si fece servo”; “amatevi come io vi ho amato”).
Credenti o non credenti, però, credo che abbiamo trovato l’apice, il massimo a cui tendiamo (nel desiderio di riconoscimento reciproco): due desideri desideranti, che si fanno l’uno servo dell’altro. E, proprio per e in questo, scoprono di essere e poter essere entrambi signori. In una dialettica difficile, ma fondamentale, in cui la lotta per il riconoscimento non va rimossa, ma affrontata, e in cui il negativo non va eliminato, ma attraversato. Nel fragile equilibrio che di volta in volta cerca di tenere insieme il proprio bene e il bene dell’altro, il legame e l’autonomia, la propria libertà e la libertà dell’altro.
Modello, in questo, è l’icona dell’amicizia presentata da Simone Weil.
«Ci sono due forme dell’amicizia, l’incontro e la separazione. Sono indissolubili. Esse racchiudono il medesimo bene, il bene unico, l’amicizia (…). Gli amanti, gli amici, hanno due desideri insieme: uno è il desiderio di amarsi a tal punto da compenetrarsi a vicenda, per diventare un unico essere; l’altro è il desiderio di amarsi a tal punto che se fossero separati dalla metà del globo terrestre la loro unione non soffrirebbe alcuna diminuizione»17.
«Gli amanti, gli amici», dice la Weil: perché l’amicizia è il fondamento di ogni forma di legame affettivo maturo, per cui anche l’amore erotico maturo non è che una forma particolare di amicizia.
Chi ama sorpassa sia la soglia dell’indipendenza sia la soglia della dipendenza; non dice senza di te non esisto; ma non dice nemmeno: non sei necessario alla mia esistenza. Libertà: perché, se non so sopportare la mancanza, dipendo da te, e tu dipendi da me. E nella dipendenza non si vola. Ma, insieme, fiducia, potentissima. Che nessuna lontananza potrà ridurre l’affetto che ho per te, né quello che tu hai per me.
Ha ragione Hobbes nel dire che siamo soli e nessuno può sottrarci la fatica di dovere, nella solitudine, gestire la nostra libertà. Ma ha ragione Hegel nel ricordarci che – anche nella più solitaria delle nostre solitudini – non siamo mai talmente separati da chi amiamo da non poter vivere comunque l’esperienza del “noi”, l’esperienza del “grazie a te”.
«Si può parlare in tal senso – scrive Paul Ricoeur – di una dialettica di connessione (liaison) e sconnessione (déliaison), propria (…) dell’amore. La sconnessione esprime la sofferenza dell’assenza e della distanza, la prova della disillusione; e la connessione esprime la forza d’animo che si incarna nella capacità di stare da soli»18.
Liaison è un termine francese stupendo e intraducibile che rimanda alla potenza del legame: legamento, unione. Potremmo tradurre così: dialettica dello staccato e del legato, di un legame che stringe, ma non costringe. Ancora Simone Weil: «Accettare pienamente di essere due e non uno; rispettando la reciproca distanza creata dal fatto di essere due creature distinte. (…) È il miracolo per il quale un uomo accetta di guardare da lontano e senza accostarsi un essere che gli è necessario come il nutrimento»19.
Amore è mancanza. Una mancanza che va abitata. Non riempita: altrimenti l’altro viene fagocitato. Ma neanche rimossa: perché con essa si rimuoverebbe l’amore stesso.
Posso passare, così, all’ultimo modello: dal desiderio come fame, al fragile equilibrio del desiderio, a quello che con il pensatore francese che ho citato già più volte (Paul Ricoeur) possiamo chiamare l’ottativo della mutualità.

3. Io grazie a te, e tu grazie ad un tu: desiderare mutualità e libertà
L’ottativo è il modo verbale del desiderio nella lingua greca. È espressione «di quella modalità che non è né descrittiva né normativa»20, ma appunto solo desiderativa. Amami!, non è un comando, è un desiderio. Io ti amo: mi piacerebbe che anche tu possa amarmi.
E, anzi, ancora più radicalmente, l’amante non dovrebbe dire nemmeno: «Amami!»21. Ma dovrebbe dire: «Ama!», là dove l’accento è sul tu e non sull’io. Perché il desiderio, se è veramente libero e gratuito, non è nemmeno “che tu possa amare-me”. Ma che tu possa amare ed essere felice. Anche se magari non dovessi essere io l’oggetto del tuo amore e del tuo “grazie”. Questo è l’amore libero e gratuito.
E, però, nel mio “ottativo”, non può non rimanere, nascosta, non invadente, la speranza: che io possa mancarti come tu mi manchi; che tu possa, con il tuo desiderio, rispondere al mio; che anche la tua gratuità possa essere rivolta verso il mio desiderio di te. In questo senso, l’eventuale reciprocità non sarebbe un “do ut des”, ma un mutuo riconoscimento: mutualità.
L’autentica mutualità è la dissimmetria di una duplice gratuità. L’amore come dono gratuito, infatti, non si scambia mai sullo stesso livello, ma ogni volta cade da un dislivello, dall’Altezza del senza prezzo. Che cosa significa tutto questo? Significa che, se l’amore è dono (è un dono “primo”, un «primo dono»22), chi risponde mutualmente all’amore non fa una specie di “restituzione”, di ricambio del dono. Non: io do per primo una cosa a te; e tu dai di risposta, per secondo, una cosa a me. Il desiderio di chi risponde mutualmente all’amore non è secondo al primo, ma sovrabbondante, come ogni origine. “Secondo”, magari, solo dal punto di vista temporale: ma dal punto di vista qualitativo, è gratuito come il mio; libero, originario e “primo” come il mio. Ricoeur dice che è «un secondo “primo dono”». Quando accade, raro come l’amore autentico, questo scambio di desideri è la mutualità. Una mutualità libera e perciò semplicemente ottativa.
Per questo, ogni amore autentico dell’altro è un “rischio”23. Si assume il rischio di essere rifiutato, di non essere riconosciuto, di non essere accettato, apprezzato. Si consegna alla possibilità della misconoscenza e dell’ingratitudine.
Per questo, ogni amore autentico è un’attesa. Un’attesa che resta sempre aperta alla possibilità “di una sorpresa”. La sorpresa di un desiderio che, liberamente, risponda alle attese del mio. Per questo, ogni amore autentico ha un carattere “festivo”. Di sospensione della ferialità. Di eccezionalità. «Il festivo che può abitare i rituali dell’arte di amare, nelle sue forme erotiche, amicali e societarie, (…) così come i gesti di perdono»24: è poesia, non prosa quotidiana, dice Ricoeur25. Per questo, ogni autentico amore è gratuità che evoca gratitudine. E gratitudine che chiama nuova gratuità. Reconnaissance. Ecco il termine che abbiamo trovato all’inizio.
Il riconoscimento desta riconoscenza. E solo perché, come abbiamo visto, qualcuno “prima” ci ha amati, riconosciuti, desiderati, solo “dopo” anche noi diventiamo capaci – a nostra volta – di gratuità.
C’è, allora, un colpo di scena! Un risvolto paradossale della logica del dono di “grazie”. Che non va, come poteva sembrare in apparenza, dalla gratuità alla gratitudine, ma dalla gratitudine alla gratuità. Perché si tratta di un’osservazione importante, di un colpo di scena? Perché, se viene prima la gratitudine – se prima devo poter dire “grazie” a te (…che mi hai riempita, amata), e solo dopo posso a mia volta riempire, amare, donare ad altri – allora questo significa che io non posso mai essere il “primo” a riconoscere ed amare.
Significa che io sono sempre secondo. C’è sempre una gratuità che “prima” mi ha riempito e preceduto. Io non sono mai un primo donatore, un primo desiderante assoluto. C’è sempre qualcuno che ci precede. Ogni desiderio d’amore è sempre risposta, sempre un “secondo primo dono”.
Nasce, allora, inevitabilmente una domanda, che in termini tecnici si direbbe “metafisica”. Qual è l’Origine del desiderio? Come è possibile che nasca (o che si sia nato, originariamente) un desiderio d’amore, se è vero che siamo sempre secondi? Qui si apre l’enigma dell’origine del desiderio. E su questa soglia, credo, si biforchino, anche la filosofia e la teologia26.
La strada dell’antropologia francese contemporanea (che ho cercato di ripercorrere) va nella direzione del “grazie a te” (un tu con la lettera minuscola). E qui si arresta, riconoscendo i limiti del pensiero umano.
Oltre i desideri umani, c’è anche un Altro desiderio? Credo che qui si aprano degli spazi affascinanti e anche inediti nel dialogo tra filosofia e teologia.
Forse è possibile rileggere la genesi come questo desiderio desiderante del Padre: che diventa donazione originaria di esistenza. Primo dono.
Forse è possibile rileggere la kenosis del Figlio e il comandamento dell’amore verso i nemici come il vertice discendente di questo servizio d’amore, dell’amore come desiderio che si fa impotenza, per lasciare all’altro la libertà dell’amare. Primo/secondo dono.
Forse è possibile rileggere l’intera storia della creazione e della redenzione come dono e desiderio di libertà e liberazione: come la storia di quello Spirito che si fa sorgente d’acqua viva, per dissetare la sete del desiderio, per liberare i nostri deserti dalla sete; per riconoscere che non c’è «non ci sono situazioni che la Novità di Dio non possa cambiare»27.
Forse è possibile ripensare l’escatologia come la possibilità di risveglio delle promesse incompiute della storia, dei desideri incompiuti, come il luogo in cui nulla si perde e tutto rinasce, nelle mani di Chi ha desiderato e amato ogni parte di noi: ogni cellula, ogni atto e anche ogni in-azione, ogni errore, ogni mancanza della nostra vita.
«In tal modo, il Dio della speranza e quello della creazione sono, alle due estremità dell’economia del dono, il medesimo Dio»28. Ma questo Dio non è mai dicibile fino in fondo nella prosa umana. Appena afferrabile forse dai balbettii dell’esegesi e della teologia. Assolutamente impensabile per le fragili maglie, nelle fragili maglie della ricerca filosofica.
«Forse il filosofo in quanto filosofo – scrive Ricoeur –, deve confessare che egli non sa e non può dire se questo Altro, è un altro che io possa guadare in faccia, o i miei antenati, (…) o Dio – Dio vivente, Dio assente – o un posto vuoto. Su questa aporia dell’Altro si arresta il discorso filosofico»29.
All’origine c’è un Desiderio che possiamo chiamare “Dio”? È il Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe, il Dio di Gesù Cristo? La filosofia si ferma su questa domanda-soglia. Una certezza solamente ci consegna, ed è quella che abbiamo ripercorso in queste pagine: bisogna sentirsi desiderati per poter imparare a desiderare. Bisogna sentirsi amati per sentirsi riconosciuti e diventare riconoscenti. Siamo secondi. Sono “grazie” a te, grazie a dei “tu”.
Oltre questo dato, si apre l’enigma dell’Origine, enigma che è quello stesso della nascita e della vita. Miracolo della natalità che, nella sua insondabilità e indicibilità, rende comunque ogni uomo un “senza prezzo” degno di lode. Miracolo della gratuità del desiderio d’amore che offre, nell’ottativo della mutualità, lo spazio della salita verso l’Altro e verso l’Alto. E, sulla soglia, può farsi domanda…
Tu: se ci sei, se mi ascolti, se mi desideri, Tu… chi sei Tu? Se sono grazie a Te, se sono perché amato, destinatario del Tuo dono d’essere, inestimabile oggetto di trasmissione d’eternità, dall’eternità, figlio nel Figlio, amore nell’Amore… perché non sono sempre capace di desiderarTi e amarTi a mia volta, e dirTi grazie? Se la felicità è nella mutualità, e se il Tuo ottativo di libertà mi cerca, da sempre… perché non sempre “il Tuo volto, io cerco?”, perché non sempre “mi mostri il Tuo volto”?
Arrendersi, forse, anche in questo caso, potrebbe essere la via. Con l’anca rotta, smettere di lottare. Riconoscere e stupirsi: forse anche “Tu grazie a me”? Bestemmia?
Forse anche Tu desideri essere desiderato, ti giochi nel rischio della mia misconoscenza e ingratitudine, attendi il mio dono (una sorpresa!), che renda il Festivo ancor più festivo? Eresia? Reconnaissance: io grazie a Te. Tu grazie a me. Poesia.

Vivi di noi. Sei
La verità che non ragiona.
Un Dio che pena
Nel cuore dell’uomo30.

Nonostante la sua grandezza immensa, la sua infinitudine, questo Dio che ti nullifica per la sua grandiosità, ha bisogno di te. Da qui nasce la tua vocazione: perché Dio ha bisogno di te! Dio ha bisogno degli uomini! (…) Perché ognuno di noi è un “proprio momento di Dio” sulla terra. Questa (…) è la storia di ogni vocazione, della tua vocazione, storia di due bisogni: Dio che ha bisogno degli uomini e gli uomini che hanno bisogno di Dio31.

NOTE
¹ Cf T. Hobbes, Leviatano, Laterza, Roma-Bari, 1989, p. 78. Dal cap. 13 sono tratti i riferimenti seguenti, che evito di citare per non appesantire il testo. Per un approfondimento dei modelli presentati in queste pagine, con richiami precisi ai testi e alla letteratura secondaria, mi permetto di rimandare al mio libro: Io e tu. Una dialettica fragile e spezzata. Percorsi con P. Ricoeur, Stilo, Bari 2009.
² Si tratta di una presentazione “strumentale” e semplificata, che agli addetti ai lavori non potrà che sembrare banalizzante; ma l’obiettivo è seguire il “modello” e non l’Autore.
³ In questa e nelle pagine seguenti, seguirò sostanzialmente l’interpretazione hegeliana di Jacques Taminiaux, Axel Honneth e soprattutto di Paul Ricoeur.
4 P. Ricoeur, Percorsi del riconoscimento, Cortina, Milano 2005, p. 197.
5 CEI – Comitato preparatorio del 5° Convegno ecclesiale nazionale, In Gesù Cristo il nuovo umanesimo. Una traccia per il cammino vero il 5° Convegno Ecclesiale Nazionale, Ed. San Paolo, Milano 2014, pp. 27-30. Ci permettiamo, per una lettura “antropologica” della Traccia, di rimandare al nostro saggio (che uscirà nel prossimo numero di «Presbyteri»), C’è bisogno di un umanesimo “nuovo”. Spunti di riflessione a partire dalla Traccia del 5° Convegno Ecclesiale Nazionale.
6 P. Ricoeur, Percorsi del riconoscimento, cit., p. 216.
7 Ivi, p. 218.
8 Cf P. Legendre, L’inestimable objec de la transmission. Ètude sur le principe généalogique en Occident, Fayard, Paris 1985.
9 P. Ricoeur, Percorsi del riconoscimento, cit., p. 216. Il riferimento di Ricoeur è al testo arendtiano Vita activa, Bompiani, Milano 1989.
10 Questo ovviamente, potremmo dire, vale anche per i figli adottati. Anzi, in realtà «ogni nascita accettata è un’adozione, dal momento che (…) il padre, la madre (…) ha accettato o scelto di tenere “quel” feto diventato “suo” figlio e di farlo nascere» (ivi, p. 218).
11 G.W.F. Hegel, Filosofia dello spirito jenese, Laterza, Roma-Bari 1984, pp. 100-103. Citata da P. Ricoeur, Percorsi del riconoscimento, cit., pp. 205-206.
12 Ivi, p. 216.
13 Cf A. Honneth, Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, Il Saggiatore, Milano 2002.
14 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, Rusconi, Milano 1995, pp. 261ss. Per la ripresa in chiave esistenziale-fenomenologica, penso in particolare alle pagine sullo sguardo di J.P. Sartre, L’essere e il nulla, Saggiatore, Milano 2002, pp. 303ss; e a quelle sulla carezza di E. Levinas, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1977, pp. 265ss.
15 Cf S. Kierkegaard, Don Giovanni. La musica di Mozart e l’eros, Mondadori, Milano 1976; Id., Il diario del seduttore, in Enten-Eller, III, Adelphi, Milano 1978.
16 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, cit., pp. 279 ss.
17 S. Weil, Attesa di Dio, Rusconi, Milano, 1972 (citato anche da P. Ricoeur, Percorsi del riconoscimento, Cortina, Milano 2015, p. 215).
18 P. Ricoeur, Percorsi del riconoscimento, cit., p. 215.
19 S.Weil, Attesa di Dio, cit., p. 160.
20 P. Ricoeur, Percorsi del riconoscimento, cit., p. 273.
21 Cf P. Ricoeur, Amore e giustizia, Morcelliana, Brescia 2000, pp. 13ss. Il discorso di Ricoeur parte da quello che egli chiama «lo sconcertante impiego della forma imperativa» nel Decalogo (amerai il Signore tuo Dio… amerai il tuo prossimo come te stesso).
22 P. Ricoeur, Percorsi del riconoscimento, cit., pp. 270ss.
23 Cf ivi, p. 271.
24 P. Ricoeur, Percorsi del riconoscimento, cit., p. 273.
25 Sul tema della poesia e delle arti in Ricoeur, rimandiamo al numero monografico (a cura di A. Caputo) della rivista on-line “Logoi.ph”, I, 2, 2015: Paul Ricoeur e la sinfonia delle arti.
26 Anche se, dovremmo dire, seguendo Ricoeur, forse la ricerca teologica e quella filosofica possono “incontrarsi” proprio sul tema del dono. Cf M. Chiodi, Amore, dono e giustizia. Teologia e filosofia sulla traccia del pensiero di P. Ricoeur, Glossa, Milano 2011.
27 Papa Francesco, Omelia della Veglia di Pasqua 2013.
28 P. Ricoeur, Amore e giustizia, Morcelliana, Brescia 2000, p. 34.
29 È il noto finale di Id., Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993, p. 473.
30 D. M. Turoldo, O sensi miei. Poesie 1948-1988, Rizzoli, Milano 2002, p. 53.
31 Id., Chiamati ad essere. La vocazione: http://web.tiscali.it/smomcagliari/meditazioni/vocazione. htm.