N.01
Gennaio/Febbraio 2016

Nutrire gli affamati

L’opera della misericordia
C’è un’educazione concreta alla misericordia che passa dallo sguardo. Saper vedere, concedersi al vedere, aprire gli occhi è un primo passo, ma essenziale per provare a fare della misericordia il caso serio della vita cristiana. Scorrendo lungo questo anno le opere di misericordia, vorremmo gettare lo sguardo precisamente sul loro agire, sul loro accadere, qui, davanti a noi, tra le pieghe di questa società liquida, sfuggente e frantumata, impaurita e, a tratti, inerme, nuda, eppure così carica di segni di speranza e dell’opera di Dio.
Come indicato da Papa Francesco nella bolla di indizione del Giubileo, prestare attenzione alle opere di misericordia «sarà un modo per risvegliare la nostra coscienza spesso assopita davanti al dramma della povertà e per entrare sempre di più nel cuore del Vangelo, dove i poveri sono i privilegiati della misericordia divina. La predicazione di Gesù ci presenta queste opere di misericordia perché possiamo capire se viviamo o no come suoi discepoli».
Di quanto leggiamo nel celebre discorso del giudizio finale (cf Mt 25,31-46) impressiona sempre che Gesù chiami giusti coloro che hanno compiuto queste opere d’amore, mentre costoro, come i malvagi del resto, si stupiscono di non essere stati in grado di riconoscere il Signore, anche se, forse, tale è stato l’intento che ha in qualche modo accomunato le esistenze di entrambi. Dal Vangelo comprendiamo che la ricerca e l’incontro col Signore non accadono mai “come se”, quasi che il rimando alle immagini di uomini feriti contenute nel racconto fosse soltanto un modo per dire, una sorta di espediente letterario per alludere o rimandare a un non precisato “altrove” del rapporto con Dio. Al contrario, è tramite essi che ne va della qualità della vita ora e del suo compimento definitivo, alla fine dei tempi. Parimenti, non c’è altro modo per incontrare il Signore che disporsi al “fare” proprio della misericordia che coincide con l’operare proprio di Dio.
Essa, allora, diviene via per l’incontro reale e non fittizio col Signore Gesù. Come è vera la carne della sua Incarnazione, riconosciuta nella grazia della Parola ascoltata e nel Pane spezzato, così non è una finzione la carne dei poveri, degli uomini feriti. Verità di Dio e cura nei confronti dell’uomo ferito costituiscono un legame indissolubile nell’orizzonte della vita cristiana come vita teologale.
Certo, i giusti come i malvagi riconoscono di non aver visto che una persona concreta, nient’altro che una folla di affamati e assetati, nudi ed esuli, malati e carcerati. Pertanto, la loro sorpresa è comprensibile: «Quando mai ti abbiamo visto?». Eppure, Gesù si identifica proprio con loro, con gli affamati, gli assetati, i forestieri, gli ignudi, i malati, i carcerati in ogni forma di ristrettezza. «In ognuno di questi “più piccoli” – prosegue Papa Francesco nella bolla di indizione dell’Anno santo – è presente Cristo stesso. La sua carne diventa di nuovo visibile come corpo martoriato, piagato, flagellato, denutrito, in fuga… per essere da noi riconosciuto, toccato e assistito con cura».
Vivere l’opera della misericordia significa anche vivere nel cuore della storia, senza fughe o astensioni, senza amnesie o cedimenti verso ciò che appare semplice, ma non è altro che una semplificazione ed è meno degno dell’umanità. Nel mezzo della bufera algerina degli anni Novanta, non troppo lontana da quanto vissuto recentemente a Parigi, così pregavano i monaci trappisti di Tibhirine: «Signore, disarmali! Signore, disarmaci!». Il più giovane di loro, Christophe Lebreton, aveva scritto nel giorno della sua professione solenne nell’abbazia di Tamié la radice della condivisione futura: «Un giorno di Ognissanti ho firmato sul foglio ufficiale il tuo “ti amo”».
Quando, nel monastero algerino dell’Atlas, sentirà avvicinarsi la possibilità del martirio, ripeterà la stessa intuizione: «Fammi sino alla fine servitore del tuo “ti amo”, nient’altro mi attira in realtà di grandezza o di onore». Ecco, è da questo “ti amo”, riconosciuto e corrisposto, che fluisce l’opera della misericordia.

Dividere per moltiplicare
Soffermandoci sulla prima opera del settenario, dar da mangiare agli affamati, viene alla mente la grande occasione, vista da vicino, di Expo 2015. Il titolo, infatti era accattivante, al di là delle promesse mantenute dai diversi Paesi intervenuti, raccontando qualcosa di sé: nutrire il pianeta, energia per la vita. È chiaro che insieme ad uno stomaco in protesta c’è sempre un cuore che si interroga sulla giustizia e su quanto può placare la fame dell’anima. Che cosa nutre la vita è stata, in tal senso, una delle domande essenziali da affrontare e non dimenticare.
Caritas Ambrosiana ha provato a rispondere. Di quanto messo in campo merita raccogliere un’immagine e un’opera. Entrambe ci permettono uno sguardo concreto di misericordia, in grado di offrici buoni motivi di riflessione. Chi è passato per il padiglione di Caritas, posto all’inizio del percorso espositivo, quasi a suggerire una pista unitaria di lettura di quanto, attraverso code interminabili, si sarebbe visto lungo il decumano e il cardo, ricorderà la provocazione attraverso l’opera dell’artista Wolf Vorstell. Tedesco, di origine ebraica, scomparso nel 1998, Vorstell, con le sue stravaganti installazioni si è sempre interessato ai temi sociali. Nella curiosa installazione Energia (1973) scelta da Caritas, si vede una vecchia Cadillac circondata di pane avvolto in giornali. È il simbolo di un benessere privo di criteri, fasciato, tuttavia, da un bisogno primario, insuperabile, di pane e di parole, quale opportuna insuperabile critica e proposta di elementi correttivi ad un equilibrio interiore smarrito.
La condivisione e la parola sono capaci di ridare orientamento a ciò che, dileguandosi tra i mille rivoli dell’amore di sé, ha perso il suo senso.
La via da ritrovare è antica e sempre nuova, come il motto scelto da Caritas: dividere per moltiplicare.
In esso si riconosce una rilettura della parabola evangelica, secondo uno spunto offerto da Papa Francesco: «La parabola della moltiplicazione dei pani e dei pesci ci insegna proprio questo, che se c’è volontà quello che abbiamo non finisce, anzi, ne avanza e non va perso».

La nuova via di Refettorio ambrosiano
Refettorio ambrosiano è l’opera nata da questa intuizione evangelica, propria del dar da mangiare agli affamati. Don Giuliano Savina, parroco a Greco, un quartiere di Milano dove l’iniziativa ha preso radici, ce ne ha raccontato la storia, partendo dal contesto del quartiere, fatto anzitutto di ferrovia e di spirito di accoglienza. «Una delle caratteristiche di Greco, ci ha spiegato, è la ferrovia. La presenza del treno è la colonna sonora di chi vi abita. Il treno non smette mai di andare. In Chiesa celebri un matrimonio… e il treno va, un funerale… e il treno va». Proprio qui, sotto due arcate buie della Stazione Centrale di Milano, aveva preso il via, la notte di Natale del 1979, il celebre Rifugio di fr. Ettore Boschini, che raccoglieva il fiume di poveri che si riversavano nella notte per le vie della città.
In questo quartiere di viaggio come la vita ha preso piede l’idea di Refettorio ambrosiano, una bella eredità misericordiosa di Expo.
L’idea è nata dallo chef stellato Massimo Bottura che, di fronte allo spreco alimentare, ha voluto realizzare qualcosa capace di cambiare passo: «Se riusciremo – ha detto – a far vedere alla cultura che cosa possiamo fare con un pane secco, una buccia di patata, una carcassa di pollo, noi daremo un grande esempio. Questo messaggio sta già germogliando nel mondo». In sintesi, questa l’idea: prendere il cibo che viene buttato e preparare dei piatti straordinari proprio a partire dalla povertà e servirlo per i poveri.
Il direttore artistico Davide Rampello ha poi raccolto e realizzato questa idea, con l’aiuto del Politecnico di Milano, ristrutturando il vecchio teatro della parrocchia degli anni ’30. Su questo singolare palcoscenico, dove un tempo andava in scena il teatro, ora si rappresenta, senza finzione, il dramma della vita e di come ci si possa prendere cura di essa. Molti gli attori, chiamati da Bottura a recitare, con particolare interesse per l’iniziativa: «I migliori chef del mondo – afferma don Giuliano –, dalle Americhe, dall’Australia all’Europa, hanno scelto di venire al Refettorio Ambrosiano e cucinare l’eccellenza per i poveri con lo scarto alimentare». Per conoscere i loro nomi e le loro storia basta dare un’occhio al sito www.refettorioambrosiano.it .
È sempre don Giuliano a riferire dei racconti vissuti in questo singolare teatro della vita. «Qui si aprirebbe un capitolo lunghissimo – racconta. Dei poveri, anzitutto, che hanno, di fatto, trovato un ambiente bello, in grado di coniugarsi bene con la solidarietà». La bellezza dell’ambiente non ha a che fare con la ricchezza e il lusso, ma è quella bellezza che ti invita a riscattarti. «In questa cura, a ciascuno di loro è stato detto qualcosa di importante: la tua vita è preziosa e se vuoi puoi trovare riscatto!». Del resto, la parola refettorio indica proprio questo, il verbo latino reficere significa infatti rifocillarsi, riscattarsi, rimettersi in piedi, non cadere in quella depressione da cui, superata la soglia, diviene difficile tornare indietro.
Un’altra storia meriterebbero i volontari che vi hanno aderito. «Abbiamo avuto 146 richieste di volontariato selezionate dalla Caritas – ci dice ancora don Giuliano – per giungere a 90 volontari effettivi.
Alla porta della Caritas continuano ad arrivare richieste ed è interessante che si tratta per lo più della risposta data per il 90% dal territorio che, tra l’altro, risponde a diverse realtà: credenti, non credenti, giovani, anziani, adulti singoli, coppie di giovani sposi e coppie di sposi maturi, separati, divorziati che da anni non frequentavano più gli ambienti attorno alla chiesa e che, per questa particolare iniziativa, si rifanno vedere».

Un cuore che si spende
Ma in che senso questa iniziativa è un adempimento dell’opera di misericordia dar da mangiare agli affamati? «La cosa che colpisce di più – commenta don Giuliano – è il linguaggio universale della proposta.
In questo senso vedo un adempimento dell’opera di misericordia, perché si tratta di un’iniziativa che ha un linguaggio nuovo, capace di toccare il cuori di molti e parlare al cuore di molti. Nutrire gli affamati è ritornare all’uomo, come ha fatto Gesù: passando vide un uomo (Gv 9,1). Credenti e non credenti si riconoscono, anzitutto, nell’umanità, nell’aver compassione che genera tenerezza». Qui si trova la radice preziosa di una vocazione comune. Come diceva don Primo Mazzolari, «se non abbiamo roba, abbiamo del cuore, e ognuno ne può prendere quanto vuole, perché il cuore cresce spendendosi, si arricchisce spogliandosi. E se le nostre ferite aumentano è perché abbiamo imparato ad amare come Te, che abbiamo trafitto, per Te che, nelle nostre ferite, ci rendi buoni».