N.02
Marzo/Aprile 2016

Dar da bere agli assetati

Mi chiedo che cosa veramente significhi aver sete ed essere dissetati.
Quale fatto di misericordia esso racchiude? Quale esperienza di Dio? Certamente non ci è difficile ricordare qualcosa di simile, ma raggiungerne la profondità, coglierne il cuore per meglio abitarlo, non è così agevole. In qualche modo ne abbiamo l’intuizione, ma ad essa, però, si accompagna anche la percezione di un irritante ritardo, se non proprio di un certo svuotamento delle parole che dovrebbero esprimerla, interpretarla, riconoscerne la sostanza. Chi in fondo non ricorda, dopo un lungo e faticoso viaggio, la gioia di una fonte o l’attenzione ospitale di qualcuno che si è accorto della nostra fatica e ci è venuto incontro con un semplice bicchiere d’acqua o un gesto di attenzione capace di toglierci l’arsura? Già qui si intravede una traccia promettente: l’offerta di qualcosa da bere è sempre di più di un ristoro fisico. Il valore aggiunto dell’attenzione e dell’ospitalità, in una parola della cura, conservano una straordinaria capacità di placare la sete dal cuore dell’uomo.

Il “di più” di una cronaca
Uno dei ritratti più intensi di questa opera di misericordia la ritrovo nelle pagine straordinarie di Terra degli uomini di Antoine de Saint-Exupéry. Nel 1935, durante il raid aereo Parigi-Saigon, il pilota Antoine de Saint-Exupéry e il suo meccanico Prévot, a bordo del loro Caudron Simoun C-630, si schiantarono sulle sabbie della Libia, dopo aver urtato il ciglione di un altopiano. La vita pareva aver trovato lì il suo salto ultimo. Invece, dopo giorni di terribile erranza, in balia della fame e della sete, i due furono miracolosamente raccolti da una carovana di beduini del deserto.
Il ricordo rimarrà indelebile nel cuore dello scrittore. Qualche anno dopo, infatti, nel 1939, li fisserà nel suo romanzo con lirica grandezza. Lo schianto e il suo salvataggio sono di più di una cronaca: nel suo innato bisogno di viaggiare per divenire, Saint-Exupéry lo sapeva bene. In ogni caso, così narra del ruvido impatto al terreno, simile ad una paralisi, come del resto accade ad ogni schianto della vita: «Bruscamente provammo un senso di rotazione, un urto che lanciò fuori dal finestrino le nostre sigarette, polverizzando l’ala destra, poi niente. Solo gelida immobilità… Che si sia vivi, è inspiegabile». Chi nella vita sperimenta, in qualche modo, la paralisi della «gelida immobilità», meglio d’altri sa cosa significhi veramente la sete, come il miracolo dell’esistenza. È qualcosa che si comprende meglio nel tempo, con sempre maggiore lucidità.
Conosceva bene questa sete la donna di Samaria (Gv 4) del Vangelo di Giovanni, così attenta ad evitare ogni incontro per non gettare sale sugli schianti della sua vita. La paralisi del cuore le pesava ad ogni incontro e, per questo, se ne guardava bene di lasciare che ne accadessero di nuovi, portando, tuttavia, sempre con sé il fardello senza nome della sua sete. Nell’ora più calda del giorno essa aumentava a dismisura, inutilmente alleviata da un’altrettanto dolorosa solitudine, pur cercata con ostinata determinazione. La svolta fu quella di un appuntamento inatteso, ma nel fondo del cuore sempre desiderato. Sappiamo dal racconto come Gesù seppe far riconoscere alla donna la sua vera sete e la sorgente dell’acqua che zampilla per la vita eterna (Gv 4,14).
Ma come descrivere oltre la paralisi dello schianto della vita questo incanto della sete placata? Sempre Saint-Exupéry ce ne offre uno splendido ritratto.
«Quanto a te che ci salvi, beduino della Libia, ti cancellerai tuttavia per sempre dalla mia memoria. Non ricorderò mai il tuo volto. Sei l’Uomo, e mi appari col volto di tutti gli uomini insieme. Non ci hai nemmeno guardati in faccia e ci hai già riconosciuti. Sei il fratello benamato. E, a mia volta, ti riconoscerò in tutti gli uomini. Mi appari illuminato di nobiltà e di benevolenza, gran signore che hai il potere di dare da bere. In te, tutti i miei amici e i miei nemici camminano verso di me, e non ho più un solo nemico al mondo».
Chi è l’Uomo che appare col volto di tutti gli uomini insieme?
Qual è la sua opera? Quale il suo potere di dissetare fino infondo e quale il frutto di questo gesto così semplice, eppure così essenziale per mantenere in vita?
Senza troppa fatica, per rispondere alla prima domanda, vengono in mente le parole della nota parabola: «Ho avuto sete e mi avete dato da bere» (Mt 25,42) come altri passaggi di Colui che ha il potere di dissetare ogni viandante, attendendolo lungo la sua via. Samaria, Gerico, Cafarnao, Emmaus si rivelano così quali originali crocevia di questa singolare geografia della sete. In essi appare che il potere di dare da bere è molto di più che sedare l’arsura di un corpo. È rimettere in piedi una vita restituendole il senso, facendole riconoscere il suo valore, la sua inviolabilità e la sua destinazione.
Il frutto raro, invece, è quello della fraternità che supera le facili e inevitabili contrapposizioni tra amici e nemici, tra gente di casa e stranieri, tra vicini e lontani.

L’Associazione Kayrós
Cercando fatti di misericordia, di schianti sorretti dalla cura e rimessi per via, ci imbattiamo questa volta nell’avventura di Kayrós. L’Associazione, fondata da don Claudio Burgio, prete della diocesi di Milano, nasce nel 2000 a Lambrate, un quartiere periferico della grande città. Si tratta di una comunità che accoglie ragazzi adolescenti tra i 14 e i 20 anni, che generalmente hanno commesso reati.
Dopo un periodo passato nel carcere minorile Beccaria essi hanno la possibilità di fare un percorso attraverso un cammino comunitario nell’Associazione. Attualmente essa è composta da diverse comunità, in cui sono presenti persone e famiglie legate alla parrocchia di Lambrate, luogo della prima esperienza pastorale di don Claudio.
La comunità, tuttavia, ospita anche ragazzi stranieri, tecnicamente detti “non accompagnati”. Si tratta di giovani soli e che chiedono un aiuto. Vengono spesso rintracciati per strada dalle forze dell’ordine e poi collocati in comunità per disposizione della Magistratura.
«L’obiettivo del percorso comunitario è che il ragazzo possa diventare autonomo non solo dal punto di vista lavorativo formativo, ma anche dal punto di vista della personalità: ragazzi capaci di stare in piedi da soli senza dover ricorrere a nuovi reati».
Il termine Kayrós in greco significa «tempo opportuno, momento favorevole», ad indicare che neppure lo schianto del reato o della solitudine genera una paralisi cronica dell’esistenza. La sete di ripartire merita sempre di essere accolta e dissetata. «Entrare in comunità, così come entrare in carcere minorile – ci ha spiegato don Claudio – è sempre un tempo di crisi: nessun ragazzo arriva in comunità contento di questo fatto, anche perché alcuni sono stati portati a forza dalle autorità competenti, e talvolta anche all’improvviso! Si comprende, perciò, come l’impatto non sia sempre facile. Tuttavia, la convinzione, confortata da una serie di esiti buoni, è che questa esperienza, se vissuta bene, possa essere veramente un kayrós, una opportunità, appunto, un’occasione di crescita da non trascurare».
Tra queste storie buone, tra fatiche e riprese, don Claudio ci racconta quella di Mattia. «È con noi, racconta, da quando aveva dieci anni e oggi ne ha ventitré. Da poco è stato assunto, finalmente, a tempo indeterminato. La sua è una storia bella, si spera ancora, iniziata tanti anni fa, quando aveva 10 anni, dopo la morte di sua madre: il padre non potendo riuscire da solo ad occuparsi della famiglia ha chiesto aiuto ai servizi sociali, e tutti e tre i fratelli maschi sono arrivati in comunità».
Mattia è il più piccolo dei tre fratelli. Durante l’adolescenza ha rischiato molto, ma oggi è capace di pensare in maniera autonoma, di impegnarsi nelle sue attività e di gestire i suoi spazi. Attualmente vive in una delle case per l’autonomia insieme ad un altro. «Quando i due erano piccoli, Mattia era il bullo e l’altro la vittima. Abbiamo scelto con loro di provare questa esperienza di convivenza tra “il bullo” e “la vittima”, e devo dire che è riuscita molto bene: il primo ha aiutato il secondo ad essere più attento e, viceversa, la “vittima” ha insegnato un po’ di umiltà al “bullo”. Queste esperienze spesso permettono ai ragazzi di conoscersi, di conoscere i propri aspetti di debolezza e perfino di valorizzarli. La storia di Mattia, come quella di tanti altri, è stata veramente un’occasione di crescita importante».
Ma cosa permette di superare la paralisi e provare il piacere di una vita rimessa in piedi?
«È chiaro, anzitutto, che lavorare nell’ambito della giustizia minorile significa essere in un contesto di regole e di norme: è perciò necessario educare un ragazzo al fatto che esistono dei limiti». Ma questo è soltanto un aspetto. Il “di più” dell’acqua che zampilla per la vita eterna e che si manifesta dentro l’umile cura per l’uomo ferito, appare nella misericordia. Essa infatti è eccedente, mostrando al tempo stesso la qualità dell’amore di Dio e dell’uomo. Come diceva abba Macario nei suoi Detti: «Se rimproverando qualcuno ti lasci trascinare all’ira, soddisfi una tua passione. Per salvare un altro, infatti, non devi perdere te stesso».
«Il tema della misericordia – continua don Claudio – ci permette di capire che non basta un’adesione formale alla regola, soprattutto quando si educa. La misericordia spinge a un rapporto educativo che vada oltre essa, o meglio, che permetta di interiorizzare la regola stessa. La giustizia dell’uomo è infatti sempre imperfetta e la misericordia, dal canto suo, spinge ad avere uno sguardo che sappia raggiungere anche l’ingiustizia e il male, che sappia guardare la persona come capace di compiere nuove avventure».

«Che la mia sete diventi sorgente»
Di qui emerge come la misericordia sia un tema centrale anche per chi è educatore, provocando ad avere uno sguardo che non sia semplicemente normativo, ma che sia uno sguardo di compassione.
«Il vero educatore è colui che è disponibile “a soffrire con” e perciò vive la compassione in maniera reale». Accompagnare i ragazzi in un periodo così difficile della loro vita e della loro crescita significa soprattutto avere questo sguardo: «Non si può pretendere di essere educatori perché facciamo eseguire un ordine, piuttosto che una misura cautelare o una normativa giuridica, no! Nei rapporti umani non basta il legalismo: molto spesso si pensa che anche il rapporto tra genitori e figli debba essere improntato alla regola, alla norma.
In realtà, senza disattendere questo aspetto, la norma in se stessa non ha valore fino a quando non viene inserita dentro un contesto di compassione. Si educa ad avere uno sguardo ampio sulla vita, sulla fede». È in questo sguardo ampio che si comprende l’opera del dar da bere agli assetati. Nel suo esercizio si assiste spesso commossi al generarsi di altre storie di desideri dissetati. Sete e sorgente si richiamano a vicenda, senza dimenticare di essere sempre un’invocazione.
Proprio come pregava Thomas Merton in una sua poesia: «Che la mia sete diventi sorgente».