Under construction. In corso d’opera
Ogni persona è un’opera che si sta realizzando, che cerca il suo compimento, che è in attesa e in azione. Incontrare l’altro con questa certezza nell’animo significa garantirgli delle possibilità e riempirlo di fiducia, quella che non gli diamo noi perché siamo bravi e pazienti e capaci di buone e sante intenzioni; semplicemente merita questo sguardo perché è un uomo.
Ligabue
Correggio (Reggio Emilia), 13 marzo 1960. Cantante. Autore.
Regista. Scrittore.
«Sono contento di sentir dire che le mie canzoni sono facilmente riconoscibili, sono canzoni che non stanno cambiando la musica, sono semplicemente la voce di uno che vuole dire delle cose. Sono nato in un appartamento di via Santa Maria, una strada del centro. È stato un parto a rischio. Fin dal principio io non ho scelto la via più facile per vivere… L’ostetrica che ha aiutato mia madre s’è accorta in ritardo che avevo il cordone ombelicale intorno alla testa, così sono nato cianotico. E poi mi hanno chiamato Lu…ciano.
Mia madre era una contadina, mio padre invece è sempre stato una testa libera. Non si è mai precluso niente e ha fatto mestieri molto diversi. Di base era un commerciante che ha venduto, casa per casa, dal riso alla frutta e verdura.
Poi ha cambiato genere e s’è lanciato nell’avventura di aprire un negozio: Ligabue tessuti e confezioni. Ma è stato anche il gestore di una balera e di un deposito per pellicce. Ricordo anche periodi in cui non lavorava o si dedicava a intermediazioni d’immobili. Appena sentiva il soffio della noia, cambiava aria.
A dodici anni ho capito che c’era qualcuno che poteva fare le canzoni in modo diverso, erano i cantautori. In particolare Theorius campus, di Venditti e De Gregori, ha cambiato la mia percezione.
Tre anni dopo, mio padre, che gestiva una balera coi gruppi di liscio e che per tutta la vita mi aveva detto: I musizéssta i én tótt murted fãm, i musicisti sono tutti morti di fame, contravvenne alle sue convinzioni e mi regalò una chitarra.
Poi la nascita delle radio libere, la consapevolezza che uno poteva far sentire la sua voce.
Quando Paolo Casarini, che era il mio prof di Lettere a Ragioneria, ci disse: “Ragazzi, se qualcuno di voi ha un’ambizione da coltivare questo è il momento”, io sentii che stava proprio parlando con me, ma poi per trovare la voce della mia voce ci ho messo dieci anni.
E ho debuttato nel 1987 con il gruppo Orozero. Prima di salire su un palco, sono stato metalmeccanico, ragioniere, bracciante agricolo, commerciante, consigliere comunale, promoter, dj. Mestieri che sono durati mesi, mai anni. Quello attuale dura, forse, grazie all’esperienza accumulata con gli altri. Giustamente i saggi del mio paese non lo considerano un mestiere. Dicono “quello canta invece di lavorare”.
Potersi esprimere e vedere e aver di fronte a sé qualcuno che ti dice “ricevuto” è il mio mestiere, è comunicare. Credo nel rock come espressione popolare, senza velleità di essere arte in senso assoluto. Il giudice è la gente che riconosce il senso di quel che dico o no».
(da Giorgio Dell’Arti, in Corriere della Sera.it)
Siamo Chi siamo è un singolo estratto dal fortunato e premiatissimo album di Ligabue, intitolato Mondovisione. È interessante soffermarsi sul videoclip, realizzato da Riccardo Guernieri, in cui siha l’occasione di scoprire un Ligabue inedito. Seduto dietro una scrivania, il rocker di Correggio offre al pubblico una serie di frame che lo ritraggono in diverse vesti: Luciano passa con disinvoltura da un basco alla Celentano a un boa alla Renato Zero, da una tuta alla Fabri Fibra a una pelliccia alla Lucio Dalla, mentre una serie di espressioni non verbali, tra gestualità e mimica facciale, ci trasmettono l’idea di un artista maturo che può permettersi di fare un bilancio e di invitare anche noi a fare un ragionamento simile nei confronti di noi stessi.
Sullo sfondo, intanto, scorrono le foto di alcune delle più significative frasi trovate sui muri d’Italia, perle di vita vissuta che Luciano propone al pubblico: «Diffida dai libri, leggi sui muri», «Non accettate sogni dagli sconosciuti»; «Attenti, sono ancora vivo»; «Non prendere la vita troppo sul serio tanto non ne uscirai vivo»; «Non è mai troppo tardi per farsi un’infanzia felice»; «Voi ridete perché io sono diverso, io rido perché siete tutti uguali». Su tutte svetta: «Il sistema non sistema», un riferimento diretto e immediato alla politica, una critica, ma anche uno stimolo a reagire e a smuovere la nostra esistenza, un incentivo alla partecipazione attiva all’interno della società.
«Di tutte quelle strade averne presa una, per tutti quegli incroci nessuna indicazione… Di tutte quelle strade trovarsi a farne una, qualcuno ci avrà messi lì… Siamo Chi Siamo», canta Ligabue. E poi ancora: «Di tutte quelle strade, saperne solo una. Nessuno l’ha già fatta, non la farà nessuno. Per tutti quegli incroci, tirare a testa o croce… qualcuno ci avrà messi lì…».
Ligabue è riuscito a rendere il senso di smarrimento, l’incertezza, la confusione, l’ignoranza, la paura di mettersi in gioco e rischiare, ma anche la voglia di impiegarsi, di dirsi e darsi in una vita che è sempre tutta da costruire, che è solo nostra, unica, non percorribile da altri.
«Conosco le certezze dello specchio e il fatto che da quelle non si scappa e ogni giorno mi è più chiaro che quelle rughe sono solo i tentativi che non ho mai fatto». Siamo Chi Siamo: non c’è miglior presupposto per prendere in mano le redini della nostra vita.
Dice lo stesso Liga, nella sua pagina Facebook, commentando la canzone: «Siamo Chi Siamo è una canzone luminosa con una musica molto aperta. L’intenzione è trasferire una sensazione positiva e leggera su uno dei grandi temi su cui ci si interroga: “Sì, ma chi siamo?”.
E non c’è mai una risposta definitiva e azzeccata se non “Siamo Chi Siamo”.
Ogni uomo si chiede chi è, e la risposta più ovvia è che siamo chi siamo. Questo basta».
Un’imperfezione piena di promessa
Tutti vorremmo essere perfetti: vorremmo amare profondamente e con gratuità; vorremmo che il nostro pensiero e la nostra vita viaggiassero integrandosi in armonia; vorremmo pronunciare parole sintoniche con il nostro cuore, vorremmo trovarci nel posto giusto, al momento giusto con le parole e le azioni giuste.
Vorremmo da noi stessi continuità, coerenza, corrispondenza.
Invece cozziamo costantemente contro la nostra terribile durezza, il nostro prevedibile limite, il nostro imbarazzante comprometterci. Essere consapevoli di questa condizione è fondamentale per capire la nostra vita e per viverla bene. Siamo in una condizione di incompiutezza: la nostra vita è mancante e dunque è perfettibile!
La scrittrice O’Connor dice che il bene, spesso, è rappresentato in maniera dolce, tenera, delicata. E invece la sua realtà è di essere in corso d’opera – under construction, e dunque incompiuto. Esso dunque può avere un look non del tutto piacente e gradevole. Così, quando guardiamo in faccia il bene possiamo trovarci di fronte a una faccia come quella di Mary Ann, piena di promessa. Sì, la faccia deturpata della piccola malata è full of promise (cf F. O’Connor, Il mistero di Mary Ann).
È necessaria una grande fede per accettare questa sfida. Che cosa vuol dire vivere fiduciosi quando si sperimenta l’incompiutezza?
Anzitutto significa credere che esiste la Vita in pienezza. Esiste il Bene, esiste la Verità, non siamo sospesi nel vuoto, c’è una realtà che non possiamo cogliere se non a piccoli frammenti, ma è la Roccia su cui siamo fondati. La fiducia-fede è un percorso di accoglienza dei frammenti di vita che nella storia ci è dato l’opportunità di interiorizzare.
Dietro un’imperfezione umana c’è un’incompiutezza che resta assurda, monca, tronca, se non intesa come luogo di una promessa di pienezza.
Tutte le necessarie azioni umane, tutti gli sforzi ricevono luce all’interno di questa prospettiva lunga e ampia. La realtà umana, vista così, assume una grande plasticità e un forte dinamismo. Ma questa visione è possibile soltanto per lo sguardo profetico che diventa il vero e radicale criterio per leggere ciò che ci accade sotto gli occhi.
«Uno sguardo di tenerezza. Ciò che incanta e attrae, ciò che piega e vince, ciò che apre e scioglie dalle catene non è la forza degli strumenti o la durezza della legge, bensì la debolezza onnipotente dell’amore divino, che è la forza irresistibile della sua dolcezza e la promessa irreversibile della sua misericordia (…). È necessario uno sguardo capace di riflettere la tenerezza di Dio. Siate di sguardo limpido, di anima trasparente, di volto luminoso. Non abbiate paura della trasparenza. Uno sguardo che sappia intercettare la domanda che grida nel cuore della gente. (…)
Uno sguardo capace di tessere. I disegni di Dio non sono condizionati dai colori e dai fili, bensì sono determinati dalla irreversibilità del suo amore che vuole tenacemente imprimersi in noi. Siate capaci di imitare questa libertà di Dio scegliendo ciò che è umile per manifestare la maestà del suo volto. (…)
Uno sguardo attento. Occorre imparare che c’è qualcosa di irripetibile in ciascuno di coloro che ci guardano alla ricerca di Dio. Tocca a noi non renderci impermeabili a tali sguardi.
Custodire in noi ognuno, conservandolo nel cuore, proteggendolo» (Papa Francesco, incontro con i vescovi del Messico, Città del Messico, 13 febbraio 2016).
Una casualità non casuale
La canzone di Ligabue è un inno alla casualità non casuale della vita: tante strade, tanti incroci… Di tutte quelle strade, trovarsi a farne una perché qualcuno ci avrà messi lì! Nell’incrocio di traiettorie molteplici, essere proprio lì ha un senso che merita d’essere cercato, scoperto, intuito e anche costruito.
Qualcuno lo ha voluto! C’è un disegno, c’è un artista!
La fede è la certezza che Dio, dal di dentro, ci alimenta e ci sostiene perché possiamo giungere alla vita piena. Ogni situazione è l’occasione per accogliere la forza vitale che ci è offerta e che è esattamente quella che attendevamo. Dunque non si tratta di cercare le condizioni ideali per dare concretezza ai nostri desideri, bisogna che ci facciamo convinti che ogni casualità non è casuale: è anzi la condizione in cui crescere, in cui collocare la propria mancanza e ritrovare una ulteriore e nuova pienezza.
In tutti i pezzi della nostra quotidianità possiamo esprimere potenza di vita; possiamo accoglierla e donarla: esserne mietitori e seminatori.
In questo flusso siamo costituiti viventi e siamo condotti alla pienezza della vita. Perché noi siamo realmente in processo: esistere non è semplicemente sviluppare ciò che siamo, ma diventare ciò che ancora non siamo mai stati!
Di che è mancanza questa mancanza,
cuore,
che a un tratto ne
sei pieno?
di che?
Rotta la diga
t’inonda e ti sommerge
la piena della tua indigenza…
Viene,
forse viene,
da oltre te
un richiamo
che ora perché agonizzi non ascolti.
Ma c’è, ne custodisce
forza e canto
la musica perpetua ritornerà.
Sii calmo.
(Mario Luzi, da Sotto specie umana, Garzanti)