N.04
Luglio/agosto 2016

Gesù, epifania del volto misericordioso del Padre

Gesù, percorrendo tutte le città e i villaggi, insegnava nelle loro sinagoghe, annunciava il vangelo del Regno e guariva ogni malattia e infermità. Vedendo le folle stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore provò per loro un sentimento di tenerezza materna. Allora disse ai suoi discepoli: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!»1.
L’inizio di questa piccola pericope è una sorta di sommario di quanto Gesù faceva nella sua attività missionaria, nel suo ministero del Regno dei Cieli (cf Mt 4,23). Il versetto 35 costituisce una sintesi di tutto il suo lavoro, espressa con quattro verbi: percorreva, insegnava, annunciava, guariva. Un quartetto d’opera nel concerto del Vangelo di Gesù!
Il primo suono è quello dei piedi che procedono senza stancarsi, quasi “avvolgendo” (periàghein: condurre, portarsi su, avvolgere) “tutte” (pàsas) le città e i villaggi; piedi che girano attorno ad un terra sacra che è, allo stesso tempo, promessa e straniera.
Il secondo suono è quello della bocca (didàskein: fare scuola, insegnare, trasmettere e far assorbire una conoscenza) da cui escono le parole, i consigli, la pedagogia, la testimonianza.
Il terzo suono è quello del cuore che grida per condividere l’annuncio ricevuto (kerùssein: annunciare, gridare una grande gioia, una novità che trasforma la morte in vita). Una forza che non si può trattenere, ma che si deve inevitabilmente passare ad altri, contagiare al mondo.
Il quarto suono è quello delle mani che toccano la ferita dell’altro e nell’amore che portano con sé riescono a guarirlo (therapeùein: risanare, riportare all’integrità, sciogliere il dolore).
Tutta l’opera terrena di Gesù si riassume in queste quattro azioni e si può mettere in parallelo con quanto accadde a Mosè sul monte Sinai (cf Es 3,1-11).
Vedendo un roveto che bruciava senza consumarsi Mosè si tolse i sandali e a piedi nudi gli girò intorno come si fa rispetto a un luogo sacro. Esso era, in effetti, teatro della presenza di Dio. In quel luogo, iniziò, poi, un lungo tempo di parole tra la Voce che veniva dal fuoco e la bocca di Mosè: Dio gli parlava e Mosè non capiva. Mosè faceva domande e Dio rispondeva. Così pian piano maturò in Mosè una prima conoscenza di Dio. Poi venne il momento dell’annuncio: «Qual è il tuo Nome?» chiese Mosè. «Io sarò quel che sarò» rispose la Voce dal fuoco mettendo il suo Nome nel cuore del più grande profeta di Israele.
Infine il Signore, il Dio del Sinai, inviò Mosè a guarire il suo popolo schiavo in Egitto, concedendogli di operare segni e prodigi: «Il Signore gli disse ancora: introduci la mano nel seno! Egli si mise nel seno la mano e poi la ritirò: ecco, la sua mano era diventata lebbrosa, bianca come la neve. Egli disse: Rimetti la mano nel seno! Rimise nel seno la mano e la ritirò fuori: ecco era tornata come il resto della sua carne» (Es 4,6-7). La mano di Mosè avrebbe fatto meraviglie: avrebbe guarito Israele dal “male” della schiavitù e l’avrebbe risanato e reso un popolo libero.

1. Un Dio misericordioso?
Restiamo nella storia di Mosè per conoscere il Volto del Dio della Misericordia. Iniziamo con una domanda che potrebbe sembrare provocatoria: ma il Volto di Dio – nella storia dell’Esodo – è sempre misericordioso? Per rispondere a questa domanda dobbiamo seguire il racconto del cammino di Israele nel deserto del Sinai (cf Es 19-40).
Una volta arrivati alle falde del monte, gli Ebrei ricevettero dal Dio che li aveva fatti uscire dall’Egitto, «sollevandoli su ali di aquile» (cf Es 19,4), una proposta: stipulare con Lui un’Alleanza. Diversi erano i diritti e i doveri in questo Patto che rendeva pari i due contraenti: il Signore si impegnava a condurre Israele nella terra promessa, mentre Israele si impegnava ad «ascoltare la sua Voce e a custodire la sua Alleanza» (cf Es 19,5).
L’ascolto della voce del Signore consisteva nella fiducia in Lui che si manifestava anche attraverso la sequela di Mosè; il custodire la sua Alleanza chiedeva un amore vero e sincero da parte di Israele e contemplava anche l’osservanza delle sue leggi, prime fra tutte quelle del Decalogo (cf Es 20,1-17). A tale proposta tutto il popolo di Israele disse “sì”, impegnandosi solennemente verso Dio e verso la sua Legge, dapprima con la parola (cf Es 19,8: «Tutto il popolo rispose insieme e disse: quanto il Signore ha detto noi lo faremo») e poi con un rito di sangue (cf Es 24,6-8: «Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l’altra metà sull’altare. Quindi prese il libro dell’Alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: Quanto ha detto il Signore lo eseguiremo e vi presteremo ascolto. Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: Ecco il sangue dell’Alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole»).
Un patto di sangue, dunque, coinvolge ed impegna sia Dio, sia Israele, quindi una “questione di vita o di morte”! Sul piano relazionale, infatti, sia l’uno, sia l’altro contraente acquistano il potere sulla vita o sulla morte dell’alleato. Se Israele non osserva la Legge, Dio potrà metterlo a morte, venendo meno al suo impegno di condurlo sino alla terra promessa. Ma anche Israele potrà disfarsi di Dio, quando lo vorrà, sostituendolo con un altro “dio”. È quanto farà molto presto Israele, dimenticandosi del Signore e fabbricandosi un vitello d’oro da adorare al posto di Yhwh (cf Es 32).

2. L’infedeltà di Israele
Il Patto di Alleanza aveva avuto bisogno di un “mediatore”: Mosè. Chiamato da Dio (cf Es 3-4), il figlio di Amram, che era stato allevato a casa della figlia del Faraone (cf Es 2), era diventato l’uomo del Signore del Sinai. A lui Yhwh aveva rivelato il suo nome pur di persuaderlo a diventare il liberatore del popolo schiacciato in Egitto (cf Es 3,14).
E Mosè, con accanto suo fratello Aronne, aveva, infine, accettato un compito così bello e gravoso. Sulle spalle della fede e della fedeltà di Mosè, Yhwh caricò la missione di far sì che l’Alleanza con il suo popolo non venisse mai meno, portandosi via anche la speranza di un luminoso destino. Mosè si legò a doppio filo in questo impegno: sarà lui a mediare la stipulazione dell’Alleanza, ma anche a difenderla una volta suggellata.
Questo compito non fu facile perché Israele si rivelò presto incapace di restare fedele a quanto aveva formalmente giurato. Yhwh aveva detto: «Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai» (Es 20,4-5).
Ma pochi giorni dopo aver proclamato la sua ubbidienza, gli Ebrei si fabbricarono un vitello d’oro: l’idolo di un animale! Quando il Signore si accorse di ciò, chiamò Mosè e gli disse: «Si sono fatti un vitello di metallo fuso, poi gli si sono prostrati dinanzi, gli hanno offerto sacrifici ed hanno detto: Ecco il tuo Dio, Israele, colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto!» (Es 32,8-9).
La fedeltà di Israele è avventizia come un «sogno al mattino, come l’erba che germoglia; al mattino fiorisce, germoglia, alla sera è falciata e dissecca» (Sal 90,5-6); un popolo appena uscito dalle condizioni della schiavitù non riesce a gestire la libertà.
Non sa ancora che ci può essere un Dio che non opprime, non sottomette, non chiede sacrifici. Non si capacita che Dio possa essere un alleato, un compagno, uno che si coinvolge con la sua causa e la sua miseria senza chiedere nulla in cambio, se non la fede. La strada della libertà è, innanzitutto, interiore. Per questo Israele, che era nato e cresciuto con la mentalità dello schiavo, vorrebbe credere nella possibilità e nel dono della libertà, ma rischia, purtroppo, di ricadere nella logica del dovuto, del mercato, dell’idolatria.

3. L’ira di Dio
Come reagisce Yhwh dinanzi a questa prima, grande defezione di Israele? Forse non come ci aspetteremmo. Egli, infatti, si rivolge a Mosè e gli dice: «Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te, invece, farò una grande nazione» (Es 32,10).  Sentiamo i toni violenti, intravediamo il Volto ottenebrato di Dio, che vuole “divorare” il suo popolo. Non c’è misericordia!C’è coerenza con quanto nel patto era stato stabilito. Però Dio si rivolge a Mosè e non direttamente agli Ebrei che sono alle falde del Sinai. Sembra quasi chiedere al suo profeta che gli permetta di fare ciò che vorrebbe («…lascia che la mia ira…»).
Mette, addirittura, in imbarazzo il suo uomo di fiducia quando gli propone di fare con lui un’altra “nazione”. Dio mette alla prova Mosè, nel giorno in cui vuole punire il suo popolo.

4. Il Volto di Mosè
Ma Mosè non acconsente. Egli resiste alla tentazione di iniziare un’altra storia e abbandonare – definitivamente – gli Israeliti al loro destino. Quanto già li aveva sopportati egli stesso! Avevano iniziato a lamentarsi non appena il Mar Rosso si era ritirato e il deserto era apparso ai loro occhi. Da quel giorno in poi non avevano mai smesso di mormorare e protestare contro di lui, di accusarlo di averli portati nel deserto a morire, di contristargli l’animo con la querela della sete, la fame e l’incredulità (cf Es 15,22-17,7).
Ma Mosè ama il suo popolo. Non meno di quanto non ami Dio stesso. E la sua reazione alle dure parole di Yhwh è sorprendente: «Mosè supplicò il Signore suo Dio e disse: Perché, Signore, si accenderà la tua ira contro il tuo popolo che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto con grande forza e con mano potente? (…) Convertiti, Signore, dall’ardore della tua ira, pentiti (“cambia scelta”) rispetto al male verso il tuo popolo, ricordati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi ai quali hai giurato per te stesso, dicendo: renderò la loro posterità numerosa come le stelle del cielo» (Es 32,11-13).
La domanda di Mosè («Perché?») è dialettica: non vuole sapere la ragione dell’ira divoratrice di Dio, perché essa gli è ben chiara! Mosè conosce benissimo gli obblighi dell’Alleanza da pochi giorni celebrata (cf Es 24,1-8). Il suo è un “perché” di contrasto all’intenzione – pur scontata! – di Dio. Se nel Codice era scritto che l’infedeltà dovesse essere punita con la morte, Mosè si ribella proprio a questa “giustizia” che sentenzia la fine della speranza per gli Israeliti. «Convertiti» dice Mosè a Dio, «torna indietro» da questa decisione!
Se pur meritino che Tu li divori, non farlo, Signore! Le parole di Mosè sono toccanti e spregiudicate, accorate e impudenti. «Pentiti rispetto al male verso il tuo popolo» incalza ancora, chiedendo a Dio di cambiare la sua ira in compassione (dall’ebraico: nicham ‘al: indica la possibilità di revocare un procedimento di condanna, cf Ger 18,8.10).
Mosè supplica Dio di non fare il male al suo popolo! Considera la sentenza di condanna per l’idolatria una decisione cattiva, di male. Insinua la misericordia nel circuito della giustizia, mostrando che la giustizia senza misericordia può diventare un “male”, a dispetto di quanto si potrebbe pensare (cf Dt 30,15ss).
Tale cambiamento di rotta, tale decisione contrapposta a quella espressa da Yhwh, Mosè la chiede in nome della memoria del Suo giuramento che ha fatto a Israele, in nome, insomma, del suo amore verso di lui. «Ricordati di Abramo», implora Mosè il Signore del Sinai, non dimenticare quanto amore hai messo nelle sue viscere fin dall’inizio e per tutte le generazioni scaturite dai suoi lombi! Ricordati dei tuoi figli, dice Mosè a Dio!
Triplice è la supplica, assoluta l’intensità con cui Mosè la rivolge, finché non ottiene quanto invoca ed implora: «Il Signore si pentì di tutto il male che aveva minacciato di fare al suo popolo» (Es 32,14). Potenza della voce del profeta, grandezza dell’amore di lui presso il cuore di Dio: Mosè riesce a “convertire” Dio e a far sì che le tavole della Legge vengano riscritte, dopo essere state distrutte dall’infedeltà di Israele. Mosè spinge Dio a credere ancora nel suo popolo ingrato e idolatra. E Yhwh si lascia persuadere e gli dice:
«Taglia due tavole di pietra come le prime (…) Il Signore, Dio misericordioso, pietoso, lento all’ira, ricco di amore e fedeltà, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, che conserva il suo amore per mille generazioni» (Es 34,6-7).
Il primo grande atto di tradimento di Israele è stato l’occasione perché il Signore facesse conoscere la sua misericordia, rivelando un Volto ancora non del tutto evidente di sé, quello più intimo e profondo, da cui il suo popolo ricevette il perdono e la vita di nuovo.
Perché ciò accadesse furono necessarie la persona e l’opera di Mosè, il suo cuore sedotto da due amori: quello verso Dio e quello verso il popolo. Un profeta che si fece intreccio di queste due innamorate distanze: il Dio del cielo e un pugno di migranti che attraversava il deserto del Sinai.

5. Il Volto del Padre nella tenerezza del Figlio
Del Volto di questo Dio misericordioso e ricco di amore, uno specchio perfetto è il Volto di Gesù. Tornando al testo di Matteo riprendiamo i quattro verbi della sua attività terrena: percorreva, insegnava, annunciava, guariva.
La sintesi di essi è resa nel verbo: “provò tenerezza” (esplanchnísthe). Un verbo che indica il sentire del grembo, della parte più intima e bassa degli organi interni del corpo: ta splánchna che vuol dire “utero”, se si tratta del corpo femminile, oppure “viscere”, se si tratta del corpo maschile. Quel membro, diverso nella donna e nell’uomo, dove risale o si adagia la vita nascente.
Tutta la missione di Gesù, espressa con la voce, con la bocca, con il cuore, con le mani, nasce e viene dalle sue viscere, dal suo istinto di dare la vita, riscattandola, risanandola, salvandola, facendola risorgere.
Questa è la misericordia! Quel “morso” che prende l’intimo del nostro corpo – sia di donne, sia di uomini – e pretende di dare, ridare, far rifiorire la vita, restituirla alla dignità, alla salute, alla libertà, alla bellezza.
Oltre ad essere specchio del Volto del Padre, di quel Dio sensibile e stupendo che sul Sinai si mostrò in tutta la sua clemenza e la sua grazia, Egli è anche la “misericordia” stessa del Padre. L’espressione ta splánchna viene anche usata, infatti, nel greco ellenistico, per indicare il “figlio” (cf Fm 12). Gesù, nella sua stessa persona, nel suo stesso corpo, è “viscere” di Dio.
E tutto l’amore con cui attraversava città e villaggi, guarendo e consolando il corpo e il cuore della gente, era “grembo” di una nuova creatura che i lombi del Padre stavano generando.

6. La messe è molta
L’esempio di Mosè ci dice quanto sia importante la figura di un profeta, di un mediatore, di un anello che tenga unita l’Alleanza tra Israele e Dio. L’esempio di Gesù ci dice quanto sia importante la Persona del Figlio, perché le viscere di Dio diventino feconde di salvezza per tutti i poveri, i malati, i maledetti, i disperati. «La messe è abbondante – dice Gesù – ma gli operai sono pochi» (Mt 9,37). La “messe” dei bisognosi di misericordia è molta, occorre mettersi in gioco perché a tutti possa arrivare la vitale tenerezza del grembo dell’amore gratuito, asimmetrico, infinito e sconcertante di Dio.
È indispensabile che anche noi ci mettiamo in mezzo: come supplici e come levatrici della vita che viene dall’Amore senza condizioni, l’amore che non fa i conti del “dare e avere”, fresco e dimentico come la brezza del mattino.
Una maestra di supplica è la donna pagana che abitava nella regione di Tiro (cf Mc 7,24-30). Ella «aveva una figlioletta posseduta da uno spirito impuro» e quando seppe che Gesù passava di là andò a gettarsi ai suoi piedi, supplicandolo di liberare la sua creatura. Conosciamo la risposta dura di Gesù che volle ricordare la corsia preferenziale dei Giudei rispetto al diritto sul suo “pane”, di fronte a ciò che spettava ai pagani. Ma la donna non si fermò ed ebbe il coraggio di contestare la convinzione di Gesù, similmente a come Mosè aveva contestato l’ira di Yhwh verso il suo popolo. «Signore anche i cagnolini sotto la tavola mangiano le briciole dei figli» (Mt 7,28) ella obiettò con ansia e concretezza. Come a dire: tu hai ragione, Signore, che siano i figli ad avere il diritto di mangiare il pane alla mensa, ma c’è qualcosa che va oltre l’ordine e la giustizia, il diritto e la tradizione: è il bisogno di vivere! Anche i cani ce l’hanno e pertanto è lecito spostare i paletti del diritto, fosse anche quello biblico e quello divino!
La misericordia, anche in questo racconto, è quella ragionevolezza che va oltre gli schemi e le gerarchie di ciò che è giusto e ciò che è ingiusto; ciò che è lecito e ciò che è illecito, per servire concretamente la vita. Solo l’Amore genera vita e futuro. Occorre crederci come quella donna che, pur essendo straniera («era di lingua greca», Mc 7,26), conosceva ciò che soltanto può dare pace all’umanità: la “giustizia” dell’Amore.
«Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!» (Mt 9,38) conclude il testo di Matteo nelle parole di Gesù. I Dodici entreranno nel campo di questo grande impegno (cf Mt 10,1-42). Facciamolo anche noi.

NOTE
1 Traduzione di R. Manes, I Vangeli tradotti e commentati da quattro bibliste, Ancora, Milano 2015.