Visitare i carcerati
Oltre il timore e l’indifferenza
L’esperienza spirituale si costruisce attraverso l’accadere di momenti particolari che, non senza sorpresa, né, talvolta, senza sofferenza, aprono nuove stagioni e compongono ritmi ancora sconosciuti della felice relazione con Dio. Ciascuno conosce i suoi ed è precisamente radunandoli e componendoli in unità che ci si dispone a ripercorrere il racconto della propria esistenza spirituale. Essi sovvertono spesso o, per altro verso, soltanto rischiarano di nuova luce ciò che già intendevamo. Continuamente, con grande nostra sorpresa, vie ordinarie e straordinarie si intrecciano nella nostra vita, secondo la fantasia dello Spirito, e dischiudono, se non proprio una diversa profondità, almeno una nuova consapevolezza delle grandi parole che interpretano e danno consistenza reale alla vita cristiana.
Accostare, anche per breve tempo, la realtà drammatica di un carcere costituisce senza dubbio uno di questi singolari orizzonti. Ci si accorge, in fretta, che esso è un microcosmo nel quale occorre entrare con pazienza. I timori e le diffidenze più superficiali, legate all’obiettiva singolarità del luogo e alle più o meno fervide immaginazioni attorno alla sua variopinta popolazione, si sciolgono anche presto.
Piano piano, visitando questa realtà, secondo l’opera di misericordia, si è condotti altrove, in uno spazio più ampio del quale spesso sfugge un’adeguata comprensione. I racconti di vita incrociati aprono a visioni più articolate e sofferte che lasciano talvolta una pesante sensazione di impotenza. Alcuni estremi, ampiamente disseminati nell’esistenza ordinaria degli uomini, si percepiscono con particolare intensità: la sofferenza e l’indifferenza, la carità sincera e l’egoismo più ostinato, il bisogno di offrire e ricevere perdono.
Così, ogni volta che si lasciano alle spalle i cancelli e ci si avvia verso casa, richiamando alla mente i volti e le storie incontrate, i pensieri si affollano, si mescolano, spesso si aggrovigliano tra il dramma, l’impotenza e, per fortuna, qualche pregevole punta d’ironia, senza mai escludere, in verità, pagine di vera consolazione. Inevitabilmente da essi sorgono nuove domande e le stesse grandi parole dell’esistenza cristiana risuonano con originale tonalità. È quanto ricordo personalmente da una piccola stagione di ministero vissuta tra questa oscurata, ma vera, parte di umanità.
Insoliti vicini di casa
Obbedendo al comando di Gesù («Ero in carcere e siete venuti a trovarmi», Mt 25,36) e alla fantasia dello Spirito, molte esperienze di vicinanza sono nate. Il Girasole è una di queste. Si tratta di un’associazione di volontariato penitenziario che opera soprattutto sul territorio, all’esterno degli istituti di pena (per saperne di più: www. associazioneilgirasole.org).
È nata all’interno della parrocchia di San Vittore al Corpo di Milano, a due passi dal carcere omonimo. Chi frequenta la parrocchia dice sempre che anche i detenuti di San Vittore sono parrocchiani. Luisa Bove, giornalista e scrittrice, ne è tra i soci fondatori e presidente: «Io abito da sempre vicino a San Vittore e per me il carcere è sempre stato una grande provocazione. Fin dagli anni Settanta, e forse anche da prima, si parlava del trasferimento del carcere dal centro città alla periferia. Ricordo che il card. Martini ha sempre richiamato l’importanza invece della sua collocazione nel cuore di Milano. L’attenzione ai detenuti risale, per me, agli anni del catechismo e dello scoutismo (frequentavo il gruppo scout in parrocchia), perché fin da piccoli raccoglievamo carta da lettera e francobolli da donare ai detenuti. Un piccolo gesto che mi è sempre rimasto nel cuore. Come pure il desiderio di fare qualcosa di più una volta diventata adulta. Lo spirito di servizio con cui sono cresciuta attraverso i valori dello scoutismo e la voglia di fare qualcosa per questi “vicini di casa” mi ha spinto a rimboccarmi le maniche.
Sollecitata dallo stesso parroco, dieci anni fa siamo andati insieme dal direttore di Caritas Ambrosiana e abbiamo parlato anche con i responsabili della Segreteria carcere. Mi sono state date due indicazioni: creare un’associazione ad hoc e occuparmi anche dei familiari. Tornata a casa ho fatto un giro di telefonate a qualche amico scout per proporre l’idea: tutti hanno accolto la sfida e insieme abbiamo fondato “Il Girasole”».
Un fiore che insegue la luce
L’atto di costituzione è del 18 novembre 2016. Partita in sordina, è cresciuta in modo esponenziale, sia come numero di soci e volontari, sia a livello di attività e servizi offerti ai detenuti e ai loro familiari. «Il nome è stato scelto – spiega Luisa – dai soci fondatori con il desiderio di avere un nome “laico”, ma che avesse anche un suo significato, come pure il logo (che simboleggia una spirale in uscita…). Il girasole, lo sappiamo, è un fiore che segue il sole e ruota per inseguirlo: così l’associazione vuole riconoscere nella sua origine e nel suo modo di operare una “luce” dall’alto (per i credenti sarà Dio) e nel suo ruotare l’associazione coglie le necessità intorno a sé. Effettivamente è stato così, perché i servizi che man mano si sono aggiunti nel corso degli anni nascevano sempre da una sollecitazione esterna, da un bisogno o da un’esplicita richiesta. Non per questo ci improvvisiamo nel modo di operare, ma cerchiamo sempre di prepararci, anche attraverso incontri di formazione e aggiornamento, per rispondere al meglio». L’approccio tentato, infatti, non è quello assistenzialistico, ma di rispetto della persona che si ha di fronte, riconoscendo sempre la sua dignità. «Le storie che incontriamo ci fanno spesso capire che il disagio, le difficoltà della vita, la povertà umana, culturale, non solo materiale, le ha condotte a volte su strade sbagliate, mentre, nel caso dei familiari, ci troviamo di fronte a persone che subiscono le conseguenze della carcerazione di un loro caro, non solo gli adulti, ma anche i figli, spesso piccoli».
Il primo servizio dell’Associazione si svolge sulla soglia tra il “dentro” e il “fuori”, nella sala d’attesa colloqui di San Vittore con i parenti che si recano in carcere per incontrare il loro familiare. «Lo abbiamo chiamato “Sportello San Vittore” – continua Luisa – e funziona così: tutte le mattine due volontari si recano in sala d’attesa per aiutare i familiari, soprattutto stranieri, a compilare i documenti necessari al colloquio, per spiegare che cosa è ammesso portare in carcere e come confezionare il “pacco” da consegnare (cibo, vestiti, libri…), per dare informazioni rispetto alla realtà carceraria, per ascoltare i drammi delle persone e consolarle…».
La seconda attività che si svolge una volta alla settimana è quella dello “Sportello Girasole”, in cui i volontari distribuiscono pacchi viveri a ex detenuti, a detenuti ammessi alle misure alternative, a parenti di reclusi in difficoltà…
Dal 2011 in poi, attraverso donazioni private, è stato possibile ristrutturare alcuni locali e appartamenti nella parrocchia di San Vittore per accogliere persone ammesse alle misure alternative, in particolare in affidamento ai servizi sociali. «Si tratta – spiega Luisa –, di detenuti che finiscono di scontare la pena fuori dal carcere e vengono da noi per 6 mesi o un anno. A volte hanno già un lavoro, ma in ogni caso vengono aiutati da due operatrici del Girasole (educatrici, psicologhe…) nel loro percorso di reinserimento sociale e per prendere contatti con i servizi del territorio (Asl, Aler…). È un lavoro molto delicato che richiede figure professionali, ma che vengono affiancate da alcuni volontari soprattutto per attività di socializzazione o del tempo libero. Tutto deve portare alla piena autonomia della persona: abitativa, lavorativa, esistenziale, affettiva…».
Un’oscurità da attraversare
Certo, giudizi e pregiudizi rimangono e questa opera di misericordia, oltre che difficilmente alla portata di tutti, è occasione di rifiuto. Il carcere rimane pur sempre uno specchio negativo ma realistico di quanto affligge l’umanità e, più profondamente, del mistero del male e del peccato. Nella sua oscurità, dalla quale ci si vuole separare, c’è in fondo qualcosa della nostra oscurità di cui non vogliamo renderci conto. Non è facile per questo trovare una via di presenza. «Occuparsi dei detenuti significa dedicarsi a una delle categorie di persone tra le più emarginate della società perché hanno commesso errori, anzi reati. C’è chi ritiene che debbano perdere ogni diritto (“buttiamo via la chiave”). Invece, bisogna conoscere direttamente le persone e le drammatiche situazioni che vivono, per arrivare a capire che al loro posto noi avremmo fatto lo stesso e forse anche peggio. Molti detenuti non hanno ricevuto nulla dalla vita, oppure solo frustrazioni, cattivi esempi, poco amore e cura, pochi e sbagliati valori… Difficile crescere bene a certe condizioni. Noi non facciamo altro che piegarci verso questi fratelli per curare le loro “ferite” e offrire qualche opportunità migliore».
Abitare la luce che c’è
Ciò che è veramente decisivo non è occuparsi o preoccuparsi immediatamente delle tenebre che stanno per calare, ma abitare tutta la luce che c’è, anche se, talvolta, appare agli occhi così flebile da impedire una visione chiara attorno alle vicende della vita e del mondo. Abitare la luce che c’è, anche nella confusione del momento significa mettersi nella condizione giusta per accorgersi del pianto, segreto di Dio sull’uomo; è un modo, forse l’unico, per vegliare, affinché il gregge del Signore non subisca l’onta della deportazione.
Incrociando le biografie in carcere, talvolta la luce pare davvero poca e la vita diventa quasi incomprensibile. Eppure si veglia soltanto chiedendo di abitare tenacemente la poca luce, invitando a riconoscerla: di qui si apre lo spazio per ascoltare la parola del perdono, restituirla e ricostruire con pazienza la fraternità.
Abitare tutta la luce che c’è significa non spegnere la dignità di quel crepuscolo di fede che si manifesta in ogni buona volontà, benché debole. Ogni falso ostacolo viene allora tolto all’opera di misericordia della grazia, tenendo sempre conto del monito impegnativo di Gesù: «Fate attenzione, guardatevi dal lievito dei farisei e dal lievito di Erode» (Mc 8,15). Allora la vita ritorna possibile, persino dai recessi più oscuri come quelli di cui parlava il premio Nobel I. Kertesz: «E mentre lascio vagare il mio sguardo sulla piazza che riposa tranquilla nella luce del tramonto, sulla strada provata dal temporale eppure piena di mille promesse, già avverto crescere e lievitare in me questa disponibilità: proseguirò la mia vita che non è proseguibile. […] non esiste assurdità che non possa essere vissuta con naturalezza e sul mio cammino, lo so fin d’ora, la felicità mi aspetta come una trappola inevitabile. Perché persino là, accanto ai camini, nell’intervallo tra i tormenti c’era qualcosa che assomigliava alla felicità»1.
NOTE
1 I. Kertész, Essere senza destino, Feltrinelli, Milano 2002, p. 220