N.04
Luglio/agosto 2017

Uno stile che interpella

Dialogo con gli esperti

Nel dialogo con gli esperti a conclusione del Seminario sono state evidenziate alcune domande emerse tra i partecipanti a partire dalla propria esperienza di accompagnamento vocazionale. Le risposte che hanno saputo offrire d. Luca Garbinetto, Donatella Forlani e Paola Bignardi non esauriscono le tematiche affrontate, ma delineano alcuni “sogni possibili” da riscrivere nelle diverse realtà pastorali.

1. Come può nascere la dinamica del sogno? Come può un giovane iniziare a sognare?
d. Luca Garbinetto – Il sogno è in qualche modo il rischio del futuro. È la capacità di riformulare in maniera nuova alcuni elementi della propria persona, della propria interiorità e anche della psiche per mettersi in gioco nella novità. Per rischiare il nuovo bisogna poter stare in piedi sulle proprie gambe e percepire di poter rischiare, a partire dall’esperienza della fiducia in se stessi che sostenga una sufficiente autostima. Molte volte i giovani che incontriamo sono profondamente feriti proprio nella dimensione della fiducia. Non è compito dell’educatore vocazionale affrontare le tappe evolutive non pienamente risolte, poiché non siamo chiamati ad essere tutti psicologi. Tuttavia l’esperienza di una relazione di fiducia può aiutare a sbloccare alcuni grovigli e a permettere al giovane di rischiarsi nell’arte di sognare. Accade in qualche modo come al bambino che può azzardarsi di esplorare il mondo esterno perché ha sperimentato un attaccamento sicuro alla madre, la quale rimane come presenza di sostegno pur favorendo la ricerca e la curiosità del figlioletto che si allontana da lei.
Inoltre un accompagnatore vocazionale è una persona che aiuta progressivamente a integrare le dimensioni del limite e del sogno, del desiderio. Di fatto, spesso le persone tendono a percepirsi e pensarsi a compartimenti stagni, separando la spiritualità dall’umanità.
Don Tonino Bello ripeteva invece: «Siate uomini fino in fondo!».
In questo senso, l’accompagnatore spirituale-vocazionale è fondamentalmente un uomo di Dio, capace di integrare pienamente la dimensione umana e quella spirituale. Si tratta di uno sguardo specifico con cui ci si approccia al giovane e non una meta di perfezione posta là davanti. Questa logica dell’integrazione tra scomodità e sogni, tra limiti e desideri, tra bisogni e valori, deve essere continuamente alimentata nel nostro cammino personale.

2. Che rapporto c’è tra sogni, bisogni, desideri? Sono semplicemente sinonimi?
Donatella Forlani – A volte i termini sogno, desiderio e ideale sono usati come sinonimi per indicare un oltre auspicato per sé e per altri. Rimanendo in un senso generale possiamo dire che gli ideali possiedono generalmente una caratteristica di oggettività (come ad esempio gli ideali evangelici), la parola desiderio richiama maggiormente la componente soggettiva (“mi piacerebbe”, “sarei contento se…”) e il sogno è abitualmente legato ad un’aspirazione, ad una speranza. In questo contesto li abbiamo considerati come sinonimi per indicare un cammino bello, positivo nel nome del Signore.
Solitamente tendiamo a identificare i desideri e gli ideali come buoni, mentre i bisogni come cattivi. Ma non è proprio così. Noi nasciamo con diversi bisogni che in loro stessi non sono né cattivi né buoni e non sono da eliminare, piuttosto da educare perché – diciamo così – diventino “collaboratori della nostra gioia”.
I desideri, i sogni, gli ideali – in un’unica parola la vocazione – noi li formiamo successivamente. Rappresentano qualcosa che riceviamo, mediato dall’annuncio che qualcuno ci ha fatto, di qualcosa di grande, bello, importante per cui vivere.
Quando San Francesco ascolta il brano evangelico in cui Gesù manda i discepoli ad annunziare il Regno, con mansuetudine di agnelli, senza provviste di viaggio, senza borsa… esulta e dice:
«Questo voglio, questo è ciò che chiedo, questo bramo di fare con tutto il cuore!». Certamente quell’annuncio aveva toccato anche i suoi bisogni affettivi.
Il desiderio incontra, orienta e, se necessario, redime il mio bisogno – perché questo può avere anche una caratteristica egocentrica.
Bisogni eventualmente più autocentrati e ideali liberi sono intrecciati.
Pensiamo a tante storie vocazionali le cui motivazioni iniziali sono “miste” e grazie alle esperienze, al confronto con la Parola, all’accompagnamento, divengono consapevoli. Il bisogno si purifica nel cammino ed è la direzione che si dà al bisogno che fa sì che questo partecipi alla lotta spirituale.
Pensiamo ad un bisogno di aggressività: certamente non diremmo immediatamente che è in sintonia con gli ideali evangelici. Eppure questo bisogno dice la presenza di tante energie nella persona: riconoscerlo, comprenderne le radici e assumerlo nella propria libertà – non senza lotta – lo rende un grande aiuto per raggiungere gli obiettivi evangelici (per i quali servono energie appunto).
L’essere al centro delle attenzioni altrui, essere visto e ascoltato è chiamato bisogno di “esibizionismo”. Possiamo pensare a don Tonino Bello: in fondo era al centro dell’attenzione di mezzo mondo, tutta la Puglia parlava di lui e anche noi siamo qui in questi giorni a metterlo al centro delle nostre attenzioni. Lui però ha usato questa capacità di attirare, ha usato la sua umanità, la sua capacità estetica e poetica per annunciare il Vangelo e coinvolgere altri in questo annuncio. Le sue parole ci comunicano e contagiano l’umiltà.

3. Come Chiesa rischiamo di parlare molto dei giovani, ma di non saper stare con loro. Chi oggi intercetta i giovani e i loro sogni?
Paola Bignardi – I luoghi di vita dei giovani sono abbastanza identificabili.
Sono quelli della famiglia, sempre meno significativi, comunque sempre importanti. E poi la scuola, dalla quale fino a una certa età passano quasi tutti i giovani. Poi vi sono i luoghi informali, molto significativi per i giovani, ma un po’ impenetrabili per gli adulti. Credo che è in questi contesti che bisognerebbe riuscire a mettersi in ascolto del mondo giovanile.
Penso alla scuola, all’università, luoghi di giovani, ma in cui il protagonismo è molto più quello della generazione adulta. È difficile riuscire a capire cosa c’è di importante, di provocatorio, di vivo in quello che le nuove generazioni stanno sperimentando. Questo rende difficile l’entrare in comunicazione. Ma senza questo ascolto è altrettanto difficile capire cosa si sta preparando nella nostra società.
Credo sia importante cambiare atteggiamento nei confronti dei giovani. Prima di dire che cosa dobbiamo dire loro, come dobbiamo educarli, dobbiamo cercare di capire questa umanità nuova che ha dei tratti così inediti e così caratteristici da risultare a volte impressionante.
Accade così che il mondo adulto, siccome si trova di fronte ad una realtà troppo diversa dalla propria, sia portato non dico a squalificarla, ma comunque a giudicarla e a ritenerla negativa.
I giovani sono invece portatori di esperienze, di vita, di sogni, di potenzialità. I giovani sono consapevoli di essere per la società una risorsa non sufficientemente valorizzata. E dunque se non ci mettiamo al loro ascolto, perdiamo questa ricchezza. È necessario un dialogo nel quale si costruisce insieme l’umanità di ciascuno.
Anche la comunità cristiana dovrebbe valorizzare di più i luoghi non convenzionali. I luoghi della formazione dei giovani di oggi non sono l’oratorio, la parrocchia, il mondo associativo, preziosissimi, ma che intercettano un numero di giovani sempre più ridotto.
Occorre incontrare i giovani là dove loro vivono: penso soprattutto alla scuola e all’università.
Per mettersi in comunicazione con i giovani bisogna sintonizzarsi non solo sul linguaggio, ma anche sulla cultura. Bisogna mettersi in ascolto e avere l’umiltà di farsi compagni di viaggio: questo mi pare che sia il modo più significativo di interpretare la forma dell’educazione per questo tempo.

4. Quando usare e come usare il linguaggio non verbale nel dialogo di accompagnamento?
Donatella Forlani – Sappiamo bene che è impossibile non comunicare, il nostro corpo “parla” sempre. Penso sia buono collocare la domanda nel contesto in cui ci muoviamo che è quello dell’accompagnamento vocazionale (che è diverso dalla direzione spirituale o da un accompagnamento psicologico).
Mi pare bello ricordare quanto sottolinea il documento Nuove vocazioni per una nuova Europa: «Il registro comunicativo tipico dell’accompagnamento vocazionale non è quello didattico o esortativo, e neppure quello amicale, da un lato, o del direttore spirituale, dall’altro (inteso come chi imprime subito una direzione precisa alla vita d’un altro), ma è il registro della confessio fidei. Chi fa accompagnamento vocazionale testimonia la propria scelta o, meglio, il proprio essere stato scelto da Dio, racconta – non necessariamente a parole – il suo cammino vocazionale e la scoperta continua della propria identità nel carisma vocazionale, e dunque racconta anche o lascia capire la fatica, la novità, il rischio, la sorpresa, la bellezza» (n. 34).
Credo cioè che, in un accompagnamento vocazionale, il nostro primo e necessario linguaggio non verbale debba essere di natura carismatica. Per spiegarmi mi riferisco a un bel testo di p. Herbert Alphonso. Egli scrive ne La vocazione personale che per i Gesuiti ci sono quattro livelli della vocazione: quella del battezzato, del religioso, del sacerdote e del gesuita. In questi quattro livelli c’è la vocazione personale, che non coincide con uno di questi quattro, né costituisce un quinto livello. La vocazione personale è lo stile con cui vivono il religioso, il gesuita, il sacerdote, il cristiano. In ogni vocazione c’è un dono di Dio, come uno svelamento di un Suo segreto personale che illumina e informa i livelli della vocazione.
E attraverso il quale diventare e rimanere “libero” dentro qualsiasi esperienza umana. Credo che questo “segreto” sia la vera comunicazione non verbale, ciò che deve “uscire” da noi, come dice il documento non necessariamente a parole.
Accanto a questo linguaggio non verbale “carismatico” c’è poi quello non verbale “pedagogico”, specifico per questa persona. È difficile, se non impossibile, entrare in un casistica dei linguaggi non verbali. Ci può aiutare ricordare che comunichiamo sempre con una persona concreta: con Mirko, Agnese, Giovanni, Mattia…
Ognuno di loro interpreterà il linguaggio non verbale (che ha sempre una valenza simbolica) con i personali schemi cognitivi ed affettivi che noi dobbiamo conoscere perché la comunicazione non verbale possa essere buona, cioè nella direzione del vero bene per questa persona.

4. È imprescindibile lavorare su se stessi per aiutare altri a conoscere la propria vocazione? Come posso usare la mia storia personale di fronte alla storia del giovane?
d. Luca Garbinetto – Il lavoro su se stessi è realmente imprescindibile.
Per questo, se si vive seriamente il ministero di accompagnamento, esso necessita di notevoli energie spirituali, psichiche, fisiche, di tempo. Questo lavoro costante ha diverse finalità.
Innanzitutto, ci aiuta a prendere coscienza delle precomprensioni, cioè dei modi di percepire la realtà e quindi l’altro, che scattano dentro di noi prima ancora che ce ne rendiamo conto. Esse ci vengono dalla nostra storia, dal nostro modo di essere, dalla nostra esperienza e orientano la nostra prospettiva di fronte alla realtà.
I nostri sentimenti e le nostre emozioni sono una delle finestre più significative per accedere a questo nostro mondo interiore. Riconoscere quello che proviamo nella relazione di accompagnamento, quindi, ci permette di scoprire alcune cose di noi che non potremmo vedere se non appunto attraverso una relazione. Nel vivere un’esperienza di ascolto, dunque, riceviamo un dono per noi stessi, in quanto ci aiuta a fare verità su noi stessi. Questa relazione ci permette di fare un’alleanza più autentica non solo con l’altro, ma anche con noi stessi, scoprendo qualcosa di più di chi sono. Alcune scoperte che facciamo su di noi sono dolorose, ma possiamo fare alleanza anche con questo.
Un esercizio di concretezza per lavorare personalmente su questa dimensione di autenticità di noi stessi, per esempio, può essere il fermarsi dopo un colloquio per capire cosa sia accaduto durante l’incontro e prendere qualche annotazione. Quanto scrivo sarà prezioso anche per confrontarmi con qualcuno in una supervisione per questo servizio di accompagnamento. Sempre di più, poi, può diventare uno stile di vita: un essere presenti a se stessi in ciò che sto vivendo e mentre accade ciò che sto vivendo. Questo lavoro permette anche di acquisire uno sguardo diverso sulla persona, gestendo in maniera più matura le mie reazioni interiori e scegliendo di aderire a ciò che riconosco maggiormente orientato ai valori della mia vita e della mia vocazione, piuttosto che a ciò che è alimentato solamente dai bisogni che nutrono una mia inconsistenza.
Infine, può accadere che il racconto di sé del giovane mi tocchi in alcune dimensioni della mia storia personale, a volte anche con un’eccessiva identificazione, per cui non si capisce bene se quello che sto sentendo è legato a qualche mio vissuto interiore o effettivamente appartiene alla dinamica della persona che ho di fronte.
L’attenzione ai miei movimenti emotivi mi permette di avere uno sguardo più oggettivo anche sulla mia soggettività, per distinguere ciò che è mio da ciò che è proprio della persona accompagnata.

5. Quali provocazioni danno a noi accompagnatori vocazionali la realtà di quei giovani che vivono più ai margini dei nostri contesti ecclesiali?
Paola Bignardi – Quando mi è stata chiesta la relazione che ho proposto, ho provato a fare un passo indietro nella mia storia: io lavoro nell’ambito del disagio giovanile, con persone che hanno l’etichetta di marginali, che vivono quotidianamente alle prese con gravi difficoltà. Spesso sono persone che hanno alle spalle storie difficili, ferite non rimarginabili, che non hanno niente da perdere e per questo assumono anche posizioni molto provocatorie e dure.
Mi sono chiesta quali sono le provocazioni che nella mia vita mi sono venute da questi incontri, da questi dialoghi, da queste storie di vita, spesso durissime.
Credo che queste storie mi abbiano insegnato a non avere un atteggiamento giudicante nei confronti delle persone. Non che sempre ci sia riuscita o ci riesca, però davanti ad una provocazione cerco di chiedermi: «Ma cosa c’è dietro?». E quindi cerco di raccogliere la provocazione come un invito a guardare l’umanità, la storia complessiva della persona che mi sta di fronte. Non è una scuola facile.
Di fronte ad alcune storie di vita, guardate in superficie, scattano le nostre precomprensioni e la tentazione di giudicare.
La generazione adulta si sente lontana dai giovani e tentata di giudicarla. La condizione di solitudine nella quale i giovani di oggi vivono, anche nelle nostre comunità cristiane, è molto forte. I giovani lasciano i riferimenti che li hanno accompagnati e costruiti in maniera significativa, alle soglie delle grandi domande della vita, li lasciano prima dell’adolescenza. Il percorso dell’iniziazione cristiana finisce prima che le domande importanti emergano. E nel momento in cui queste domande si affacciano, nella confusione dell’attuale contesto, un giovane non ha punti di riferimento, non ha figure adulte alle quali appoggiarsi, con le quali scambiare pensieri, interrogativi, inquietudini. Non ha qualcuno che gli si metta a fianco e alimenti la sua fiducia nella vita. Nel mondo dei cosiddetti marginali, dei ragazzi che vivono nel disagio, questi elementi sono maggiormente evidenti. In fondo i “giovani marginali” sono persone che hanno dovuto affrontare o sopportare con maggiore difficoltà questo incontro con la vita e con esiti molto più problematici: chi si mette in ascolto della loro umanità provata spesso è aiutato a guardare agli altri con maggiore comprensione e senso di vicinanza.

6. Si è accennato al tema della metafora. È possibile qualche suggerimento in più?
Donatella Forlani – Non sempre riusciamo a spiegare bene quello che pensiamo, viviamo… allora viene in aiuto una metafora, un’immagine. Don Tonino è stato un maestro in questa arte. Pensiamo alla famosa espressione: Ho letto da qualche parte che gli uomini sono angeli con un’ala soltanto… È l’esempio di una comunicazione analogica che permette di riconoscere con semplicità una profonda verità dell’uomo.
In generale le metafore permettono di riconoscere se stessi, i momenti di consolazione, le difficoltà e le possibili nuove alternative in modo meno minaccioso, perché indiretto. Un autore dice che una metafora è come lo zucchero e il colorante per meglio mandar giù una pillola amara, ma utile. In altre parole, la metafora è come la carta d’incarto di un pacchetto che nasconde un contenuto che potrebbe essere difficile da accettare, magari ancora non consapevole alla persona. Non per forza deve essere un contenuto “brutto”; anche un dono può essere difficile da accettare.
Non è raro che questo avvenga anche da parte della persona accompagnata per descrivere ad esempio il proprio rapporto con Dio.
«Vivo la preghiera come se facessi una passeggiata con Dio», era per un giovane l’espressione di un dubbio vocazionale, di una chiamata ad una intimità più profonda con il Signore: bello, ma difficile da ammettere… “che capiti proprio a me”.
Molto spesso, cioè, queste immagini possono illuminare la lotta, la dialettica, che la persona sta vivendo (fosse anche quella di accogliere una vocazione): parlare di una cosa nei termini di un’altra può portare luce su quanto si cerca di descrivere.
Altre volte come accompagnatori possiamo offrire una metafora con la quale rispecchiare la situazione della persona, in modo più discreto e delicato. L’immagine poi, essendo sintetica per sua stessa natura, permette di essere memorizzata meglio, può tornare più facilmente al pensiero.
In ogni caso dobbiamo lasciare alla persona accompagnata il compito di “guardare” questa immagine e di riconoscersi in essa. La forza della metafora sta nel fatto che la persona può scegliere da sola su quali parti soffermarsi e così scoprire qualcosa di nuovo di sé oppure permettersi di guardare alcune emozioni o vissuti difficili.
Lo spieghiamo con una metafora appunto: scegliendo autonomamente alcune parti dell’immagine e facendo lei il lavoro dell’interpretazione della sua interiorità è come se le chiedessimo di andare in mare aperto con un buon salvagente.

7. Come aiutare i giovani, all’interno di un cammino spirituale, a fare esperienza dell’incontro personale con Dio?
d. Luca Garbinetto – È necessario innanzitutto avere l’umile consapevolezza che Dio è Dio e quindi è libero di fare ciò che vuole.
Nessuno può programmare l’incontro con Dio nella propria vita o in quella di chiunque altro. Questa consapevolezza non è una scappatoia per distoglierci dal nostro impegno, ma ci aiuta a comprendere che l’esperienza di Dio è una cosa seria. L’incontro con Dio è ciò che vi è di più importante nella vita di una persona. Possiamo comunicare questa serietà solo se la viviamo. Per questo, è innanzitutto necessario domandarsi continuamente: «Io ho incontrato Dio? E se io ho incontrato Dio, vivo seriamente questo mio rapporto con Dio?». A partire da questa consapevolezza, indico tre tracce che possono aiutarci nel pensare un cammino serio rivolto ai giovani.
La prima è la traccia della bellezza. Si tratta di avere cura del bello: dell’ambiente in cui ci si incontra, del tempo in cui si sta insieme, del modo di rapportarsi. Avendo cura della bellezza esteriore, aiutiamo i giovani a scoprire la bellezza anche dentro di sé, con quella capacità di sorprendersi che a volte hanno smarrito.
La seconda traccia è la narrazione. Dio, per venire incontro a noi, si è narrato. Sono così interpellato a mettere in gioco anch’io la mia capacità di narrare il mio incontro con Dio. Non si tratta di costringere il giovane a percorrere il mio stesso sentiero, né di esporsi ai ragazzi in maniera esibizionista, ma di saper cogliere dalla mia esperienza gli elementi che possono aiutarlo, compresi gli spazi di fragilità, perché in essi io ho già fatto l’esperienza di sentirmi amato.
La terza traccia è la presenza. Intendo sottolineare l’importanza di esserci per un accompagnamento che permetta una rielaborazione, una rilettura di quello che il giovane ha vissuto. Infatti non c’è bisogno soltanto di vivere diverse esperienze, ma, soprattutto, di essere aiutati a interpretare quanto ha vissuto. Presenza vuol dire allora aiutare una persona a rileggere un’esperienza perché possa coglierne gli elementi di verità e su questi costruire la sua relazione con Dio e con gli altri.

8. Come mi devo comportare con il giovane che accompagno quando lo incontro fuori dal contesto del nostro incontro?
Paola Bignardi – Mi viene semplicemente da dire: comportati normalmente! La dimensione della normalità della relazione è un aspetto molto importante da recuperare… È una caratteristica che nella comunità cristiana, oggi, dovremmo tornare a valorizzare molto. Nei racconti che i giovani fanno della loro esperienza ecclesiale, in genere quello che rimproverano alla Chiesa, alla comunità nella quale sono vissuti, è l’astrattezza, il carattere dottrinale degli insegnamenti che hanno ricevuto, ma soprattutto l’anonimato, la freddezza e la mancanza di relazioni. Mi pare che siano cose che devono farci riflettere per rivedere anche l’impostazione della nostra pastorale costruita su iniziative, su attività, su cose che interpellano alcuni gruppi di persone, o alcune categorie di persone, ma non rivolti alla singola persona. C’è un clima di comunità da creare che valorizza le persone, le fa sentire a casa, dà alla comunità quello stile di calore, di umanità, di accoglienza, che è lo specchio della nostra personale umanità. Allora relazioni vuol dire calore, vuol dire umanità, vuol dire accorgersi delle persone una ad una; vuol dire anche possibilità di prendersi delle responsabilità. I giovani fanno un’anticamera infinita per entrare nella vita adulta.
Ed è un’anticamera che da una parte è legata alla lentezza della loro maturazione, dall’altra è legata al fatto che per diventare autonomi bisogna che l’autonomia sia riconosciuta. A livello ecclesiale, se vengo sempre trattato da bambino non diventerò mai una persona adulta. In fondo la responsabilità è una delle cose che si imparano solo vivendola. Finché nessuno mi dà responsabilità e mi dice che devo essere responsabile, io non capisco che cosa vuol dire… Credo che questa sia un’esperienza che riguarda i rapporti tra le generazioni a molti livelli, non solo nella comunità cristiana. Allora relazioni vuol dire possibilità di prendere parte, di essere qualcuno nella comunità, di avere un ruolo, di poter portare la mia novità. Perché nessuno è la fotocopia delle generazioni che lo hanno preceduto.
L’accompagnamento vocazionale, con il suo tratto così fortemente personale e di vicinanza, in qualche modo dovrebbe diventare il segno di un naturale stile pastorale.

9. Una parola scomoda presente nel servizio di accompagnamento è “fallimento”. Come vivere, come fare, cosa comporta, come gestire il fallimento educativo?
d. Luca Garbinetto – Il fallimento è un’esperienza dolorosa.
Poterselo dire è già un primo passo importante per comprendere poi che il dolore è un’esperienza inevitabile che fa parte della vita.
Mi sembra importante riconoscere che quando viene un giovane da noi, abbiamo delle aspettative su di lui, come anche lui ha le sue. Quando queste aspettative rimangono deluse, si vive il senso di fallimento. Accade che un progetto, che in qualche modo ho elaborato, non vada come avevo pensato e questo mi genera frustrazione e sofferenza.
C’è però un’esperienza di fallimento ancora più sottile ed importante da sottolineare: quella che si sperimenta quando il sogno si realizza. Don Bosco diceva che quando un educatore diventa inutile ha realizzato il suo scopo educativo. Nel momento in cui io, investendo tutte le mie energie, sono riuscito a svolgere bene il mio servizio e ho raggiunto quello che mi ero proposto, e mi pare che pure l’altro sia cresciuto, allora è necessario che si generi la separazione, il distacco. Si vive così l’esperienza del fallimento, nel senso di una perdita e di un dolore, anche quando va tutto bene e si realizza il cosiddetto successo.
Ci sono passaggi di fallimento che è necessario favorire per un processo di vero accompagnamento, sia per il giovane accompagnato che per l’accompagnatore. Le crisi, i passaggi di crescita, sono esperienze necessarie per poter affrontare un nuovo orizzonte.
In questo senso le parole scomode e i sogni si intrecciano, arrivando quasi a fare unità. Il fallimento infatti può diventare un meraviglioso strumento per la novità, per creare sogni nuovi, radicati maggiormente in una concretezza e per questo realmente perseguibili.
Nel fallimento c’è una certa dinamica di svelamento che permette di conoscermi in onestà, di vedere risorse e punti deboli, e di orientare e definire meglio il sogno che sostiene la propria vita.
Solo attraverso questa esperienza si approfondisce la ricerca della propria vocazione personale. Allo stesso tempo, solo camminando verso la propria vocazione personale si trovano quelle energie che permettono di lanciarsi continuamente in un sogno che sia reale e realizzabile secondo il progetto di Dio più autentico.