Chi non rischia non cammina
1. A scuola del ragno narcisista?
Non abbandonare
i sogni, se puoi.
Dagli forza
e consistenza… E poi
lascia sian loro
a prenderti
e portarti un’altra volta
via di qui
…
Ti andrebbe di cambiare
il mondo con me?
Sono alcune espressioni di una canzone di Renato Zero dal suo ultimo album, il 35°, che celebra i suoi 50 anni di carriera. Una canzone sintomatica di due enormi sensazioni ed emozioni che premono sul cuore di tutti in questo tempo: il bisogno di cambiare il mondo, ma insieme la paura di rischiare. Risultato? Una fatale paralisi di gente rassegnata. Di fronte alla terra malata, intossicata da smog e da rifiuti, alla vita violata in tante forme, con il potere che annebbia le relazioni e il denaro che costruisce grattacieli di illusione, come reagisce normalmente la gente, come reagiscono per lo più i giovani? Ripiegano senza accorgersi sul sistema del ragno narcisista.
Se lo guardiamo, contemplandolo come accanito tessitore di tele spericolate accampate nell’aria, il ragno può insinuarci l’immagine e lo spettacolo impietoso della passione e prassi narcisista dell’homo faber et oeconomicus contemporaneo. Quel filo di ragno diventa il simbolo titanico della autosufficiente autoreferenzialità, che si attacca spasmodicamente al proprio agire appeso solo sul vuoto, finendo per implodere su di sé, perché teme e ascolta solo se stesso, incapace di affacciarsi sull’oltre della propria unica tela e rete con cui ha tutto, tutte le informazioni possibili, ma di cui in fondo non sa che farsene, tenta solo di accalappiare e sfruttare gli altri e le cose per i propri bisogni e piaceri immediati.
Oggi infatti domina incontrastato l’uomo che si fa da sé, il “selfmademan”. L’uomo postmoderno, che ha emarginato Dio nel dimenticatoio e l’ha accatastato tra le cose vecchie nella cantina o nel solaio, vuole affermare se stesso al di sopra di tutto con un delirio di onnipotenza che lascia attoniti e meravigliati per la presunzione e l’illusione con cui è gonfiato. Siamo al top della crisi antropologica iniziata e proseguita negli ultimi quattro secoli con un impulso dirompente a volere un modo diverso di essere umani rispetto a tutti gli altri secoli precedenti. Un modo che pretende di mettere al centro l’uomo sopra e rispetto a tutto.
Anche la religione via via si è trasformata in un fenomeno culturale e sociale più che essere un fatto di adesione personale convinta; soprattutto nelle giovani generazioni si avverte una vistosa interruzione generazionale della fede. Indagini e risultati di numerose inchieste sulla fede tra i giovani affermano che la loro appartenenza confessionale e la pratica religiosa diventano sempre più ristrette ad una minoranza perché essi stanno imparando a vivere senza il Gesù del Vangelo e senza la Chiesa, affidandosi magari a forme di religiosità alternative o cercando rifugi in sette Ma, soprattutto, generazione di giovani che cresce troppo in fretta, perché gioca tutto sull’autoreferenzialità, perché cresce con un senso di onnipotenza come una piovra che raggiunge tutto. Una generazione iperconnessa con l’accesso a tutto e con una certa idolatria per il web. Una generazione terribilmente competitiva, che i social network potenziano in forma esponenziale, perché premiano chi fa la cosa più bella e attraente, grazie ad una serie di meccanismi basati sull’approvazione, quindi sempre in gara a chi vince e a chi arriva per primo.
Una generazione piena di strumenti a disposizione: youtube, chat, deep web, social, streaming… La vita di un adolescente è circondata da strumenti potentissimi che richiedono pochissima fatica per raggiungere grandi obiettivi. Risultato? Tanta paura e ansia come passioni dominanti, che incrementano ancora di più l’epoca delle passioni tristi. Tutto questo è una vertigine alienante. Certo la società e i suoi modelli culturali sono impostati sulla cultura del provvisorio, non offrono un clima favorevole a prendere in mano la vita e a camminare guidandola verso scelte significative. Eppure il cuore di ogni uomo e donna della terra, il cuore di ogni giovane avverte dentro l’urgenza e il bisogno di cambiare il mondo, questo mondo, perché il cuore rimane, nonostante tutto, il centro dinamico di tutta la persona. Ma è un cuore che non parte e non si lancia. Perché? Preferisce girare la vita all’interno della tela di ragno del proprio narcisismo, un vero labirinto senza avere a disposizione il filo per uscire. Cosa fare?
2. Risvegliare il cuore e scoprire di essere generativi
Dobbiamo saper leggere i segni dei tempi e il nostro tempo è a forte rischio di sterilità, non solo per l’inverno demografico dilagante, ma soprattutto per l’incapacità diffusa di compiere quel movimento fondamentale, il solo che permette di uscire da una stagnazione e da una sterilità, che risultano un precipitare verso un suicidio collettivo. Occorre l’apertura oltre stessi e verso l’altro da sé. C’è tutto un sistema di ripiegamento immunitario contro il rischio di venire contaminati da tutto ciò che è al di fuori di noi visto come una minaccia. Ma alla stagnazione c’è solo una alternativa: generare. Nella sua etimologia generare contiene la radice “gen”, che si ritrova in una famiglia di parole (generosità, genialità, genitorialità…), che indicano la capacità di dare inizio, fare fiorire, portare al mondo qualcosa da non consumare, ma da fare durare: un movimento che nasce essenzialmente da un desiderio interiore, come una risposta personale a quel sentire generalizzato, che dicevamo all’inizio, il bisogno impellente di cambiare il mondo. Già la buon’anima di Erikson, fin dagli anni ’50 del secolo scorso, delineando una serie di tappe dello sviluppo della persona, vedeva come problema il passaggio all’età adulta l’abbandono di un atteggiamento puramente esplorativo e orientato a catturare per sé il più possibile.
Passare alla fase della maturità, caratterizzato da un sufficiente equilibrio tra il prendere e il dare, evidenziato in particolare dalla capacità di generare1. In ogni fase della vita, soprattutto nella maturazione dell’età adulta, ci si trova davanti a un dilemma circolare: o l’assorbimento in se stessi che produce stagnazione o la capacità di uscire da sé, mettersi in relazione, fare esistere qualcosa e prendersene cura: generatività appunto.
La nostra epoca malata della sindrome di Peter Pan è caratterizzata in larga parte da quello che lo psicanalista Luigi Zoja definisce «lattanti psichici»2, perché siamo come bloccati sulla frontiera di entrare nella fase adulta, lasciare l’adolescenza per una maturazione della propria persona. Preoccupati di prendere il più possibile ciò che ci fa stare bene, senza preoccuparci di dare. In questo modo si spezza il circuito virtuoso tra il ricevere e il dare, il restituire, che contribuisce a nutrire la vita sociale. L’ignoranza diffusa di tutto questo da parte di ragazzi e giovani, ma anche da parte della generazione adulta, anche di genitori, educatori, insegnanti, animatori, magari addirittura preti e suore, compone l’acqua cheta della cultura dell’indecisione che forma lo stagno del vivere sociale del nostro tempo. Con una sensazione di fondo, che ammorba l’aria che respiriamo, cioè la paura di scegliere. Una paura che si manifesta con diverse tipologie, ma tutte provocate dalla stessa causa. C’è chi preferisce non scegliere e non prende mai posizione dinanzi ai grandi problemi dell’esistenza, accontentandosi di vivacchiare nell’attimo fuggente; c’è poi chi subisce semplicemente scelte fatte da altri al suo posto, come avesse dato la vita in appalto e ci accontenta quindi di subire i propri istinti, sentimenti, assorbendo semplicemente la cultura circostante o del branco; c’è chi sceglie qualcosa, ma lasciandosi sempre una riserva, una via di fuga da qualche parte, per cui, se le cose si fanno un po’ impegnative, se la svigna e non si vergogna nemmeno di essere contraddittorio e infedele; c’è anche chi sceglie, ma è come non scegliesse, perché si limita solo a ciò che è strettamente sicuro di poter fare senza troppo impegno e non si accorge nemmeno che sta semplicemente ripetendo standardicamente sempre e solo le stesse cose, clonando un’esistenza sempre più noiosa e grigia, senza accogliere nessuna provocazione di novità di cui la vita è piena.
Infine c’è chi sceglie, sì, ma si decide sempre e solo guardando a se stesso e ai propri interessi, senza accorgersi degli altri, del bisogno e della sofferenza del mondo.
Certo, un po’ di queste tipologie alberga nel cuore di tutti. Ma noi vorremmo chiederci perché ci ostiniamo a vedere una parete davanti a noi e non ci accorgiamo invece che al suo posto abbiamo un orizzonte ampio. Bisogna che riconosciamo e in ogni caso prendiamo coscienza che, specie per le decisioni un po’ più grosse della vita, permane una zona buia, in cui scarseggiano evidenze e appoggi, per cui non bastano calcoli, previsioni e assicurazioni.
Tra l’esigenza di essere generativi e il decidere rimane una zona rossa di rischio, il rischio del mistero. Non è possibile prevedere i singoli eventi del futuro e pretendere di tenere tutto sotto controllo.
Il futuro rimane tutto da fare e, per di più, non è nelle nostre mani, mettendo continuamente alla prova chi si orienta e vuole decidere. Anche perché scegliere una cosa significa rinunciare di fatto a molte altre. Tuttavia, questo futuro è arbitrario nelle mani del caos, del destino ineludibile del caso, dell’abisso del nulla, oppure è nelle mani di un Altro maiuscolo, che mi sorregge con le sue mani robuste, perché mi vuole infinitamente bene, un bene che più grande non potrei immaginare e desidera solo il massimo della mia realizzazione secondo un progetto e un sogno che ha su di me? Se mi oriento e decido in maniera seria, non secondo le tipologie cui abbiamo accennato, è per un investimento di fiducia verso questo
Altro e quindi anche verso me stesso. E qui si gioca il mistero profondo dell’essere umano e della sua dignità, che rende bella la vita.
E soprattutto non permette che la vita piazzi dei muri davanti al posto degli orizzonti. Si diventa coraggiosi artigiani del futuro, perché davanti a sé si vedono solo orizzonti e quindi la paura di fallire non prende mai il sopravvento per paralizzare l’esistenza nelle acque chete della stagnazione, nell’incertezza dei giovani-divano, per dirla con Papa Francesco, quelli che per paura si imboscano passando ore nel mondo dei video-giochi di fronte a un computer, imbambolati, intontiti, addormentati.
3. Educare al rischio del cammino nella generatività
Se Cristo chiama ognuno a lasciare un segno di Vangelo nel mondo e la propria impronta nella vita e se invece sembra che predomini la stagnazione al posto della generatività, il problema si sposta su noi adulti. Un pianeta giovani che manca fondamentalmente di guide, di qualcuno che li direzioni e li accompagni, in questo marasma di informazioni e di provocazioni irritanti e accalappianti.
Genitori, educatori, accompagnatori e animatori spesso si rivelano stanchi, inadeguati; sottovalutano le potenzialità che i giovani hanno e, per lo più, non sanno come aiutarli nella scoperta delle loro risorse, nelle loro difficoltà e nei loro sbagli; oppure sono per lo più assenti o addirittura rinunciano all’impresa o, al contrario, sono iperprotettivi, rendendo ancora più fragili queste giovani vite.
Stanchezza e inadeguatezza di educatori ed accompagnatori piuttosto improvvisati e demotivati. Lanciare lo slogan: «Chi non rischia non cammina» si può ridurre per lo più a un modo di dire e permane quindi la stagnazione. Qui ci vuole invece un percorso con una metodologia appropriata.
L’adulto che accompagna è essenzialmente colui/ei che sente e vive la responsabilità generativa verso le generazioni che vanno crescendo. Accompagnare nasce dal desiderio di coinvolgersi con colui/ei che si accompagna, di guardare al suo cuore. È la fiducia sprigionata da una presenza educativa positiva, gioiosa, accogliente. E questo genera vita nuova, perché ogni vera attività educativa è generare nuovamente, è accompagnare verso nuovi modi di esprimere la propria vita. Generatività in questo caso, allora, è soprattutto appassionarsi al futuro di coloro che si accompagnano, partecipando con loro alla costruzione di un mondo migliore. E così si giunge insieme alle soglie delle scelte, attraverso la condivisione delle esperienze. È un dato acquisito che giunge ad una vita adulta sufficientemente matura solo chi sta a contatto con persone che vivono già questo attraverso la loro bella generatività, che si esprime in tutti gli stati di vita vocazionali e testimoniano che, fidandosi, si può attraversare benissimo la zona rossa del rischio con grande coraggio. Ma la formazione al rischio della generatività quali passi concreti di crescita chiede di compiere? Mi sembra che il paradigma del cammino della generatività passa attraverso tre passi. Li vediamo brevemente.
Desiderio: l’opzione per la generatività richiede innanzitutto di andare al di là della propria immagine e del conformismo alle mode del momento, con la capacità di riconoscere la grande varietà di desideri, sentimenti, emozioni che virano nel proprio cuore, interpretandoli alla luce di ciò che forma il tessuto delle esigenze più profonde, fino a mettersi in ascolto del desiderio profondo che ciascuno porta in sé e che viene acceso da chi e da ciò che si incontra. Si tratta di una spinta vitale che preme dentro di noi. Desiderare significa concentrare le proprie energie nella tensione verso qualcosa che la persona sente molto importante per la propria vita. All’origine di qualsiasi scelta ci deve essere un’attrazione positiva che rimane improbabile o debole se l’attrazione invece è povera. La decisione allora non si baserà su decisioni esterne (mi impegno per un vantaggio, per paura, per non sentirmi in colpa…), nemmeno su motivazioni sociali come la pressione di un gruppo, la tradizione… No. Ci si decide perché si crede che questo desiderio è un grande beneficio per la propria persona. Chi accompagna, allora, deve aiutare a fare chiarezza su ciò che si muove nell’intimo e quindi lavorare molto sulla capacità di desiderare e su ciò che è degno di essere desiderato.
Mettere al mondo: è l’entusiasmante esperienza di dare inizio a qualcosa. Noi siamo nati per incominciare e come esseri unici e irrepetibili abbiamo la capacità di far esistere qualcosa che prima non c’era. Possiamo mettere al mondo perché noi per primi siamo stati messi al mondo; possiamo dare perché abbiamo ricevuto. I giovani sono stufi di esse-re considerati una categoria svantaggiata, destinatari passivi di programmi politici, sociali, economici ed ecclesiali promossi da altri con spazi troppo limitati e pochi stimoli utili per loro. Occorre svegliare la loro disponibilità alla partecipazione da protagonisti, nella mobilitazione in azioni concrete con tante opportunità, senza perdersi nel gioco del rifugiato di girare attorno al proprio ombelico come fosse il centro del mondo. Promuovere invece le capacità personali con l’ambizione di portare il proprio contributo unico a servizio di un solido progetto di umanità nuova, solidale e sviluppare quindi un nuovo modello di sviluppo.
Prendersi cura: se si ama ciò che stiamo mettendo al mondo, si è motivati e responsabilizzati a prendersene cura, a fare sì che possa crescere e durare nel tempo, altrimenti sfiorisce e muore. La cura è un movimento che richiede dedizione, costanza, capacità di sacrificio. Mettere al mondo richiede le doglie del parto. Se è bellezza è anche fatica e dolore, perché se genero una cosa non posso generarle tutte. Ogni cosa che decido contiene anche una limitazione fra cento altre possibilità, al fine di generare e mettere al mondo qualcosa di veramente reale e non solo virtuale o fantastico, anche se oggi va molto di moda. Tagliare su altre possibilità apre una ferita che non rimargina se non nella misura della bellezza e del fascino della decisione che si prende, perché corrisponde proprio a sé, giocando in stretta unità, libertà e responsabilità.
Spesso tutto questo viene inteso come una limitazione della libertà e una perdita di possibilità. Ma è solo apparenza, perché, quando ci prendiamo cura di qualcosa, noi curiamo anche noi stessi, la nostra umanità, con un grande senso di soddisfazione e realizzazione.
La cura è un contatto che scalda il cuore di chi cura e di chi riceve la cura; un dare e un ricevere. La propria realizzazione sta nel contribuire alla realizzazione di altri, alla loro libertà, senza pretese di dominio, di possesso, di controllo e di dipendenza reciproca. E così si crea una transizione feconda tra le generazioni.
Ciò che viene trasmesso come patrimonio da parte di chi accompagna apre opportunità nuove, fa passare il testimone, permettendo a chi è accompagnato di intraprendere la propria strada con l’esemplarità di ispirare e incoraggiare in maniera concreta il cammino di crescita e di maturazione al fine di essere a tutti gli effetti generativi.
E allora, ma solo a questo punto, è possibile dare il via ai cammini concreti di trovare la propria forma di generatività specifica nella ricerca, nel discernimento, nella scelta, nella decisione e nella perseveranza all’interno della vocazione particolare che ognuno ha ricevuto. Se questo cammino vocazionale viene fatto senza aver operato prima il processo generativo, con molta probabilità “bastardizzeremo” il progetto di Dio nella persona che stiamo accompagnando e tanti abbandoni vocazionali, in tutte le vocazioni, lo stanno a dimostrare a ripetizione, perché è come innestare il germoglio di una pianta preziosa su un palo secco.
Dunque, se è vero che l’amore ricuce continuamente lo strappo tra la felicità e la vita, perché solo l’amore permette sempre alla vita di rinascere, dobbiamo essere convinti che ogni storia di vita può e deve essere una storia di amore, purché sia generativa.
NOTE
1 H.E. Erikson, Infanzia e società, Erikson, Trento 2001.
2 L. Zoja, La morte del prossimo, Einaudi, Torino 2009.