N.01
Gennaio/Febbraio 2018

I percorsi del cuore

Con una felice immagine Alessandro Manzoni definisce il cuore umano con il termine “guazzabuglio”. L’espressione rende bene le complicazioni, le contraddizioni, la confusione che spesso ci abita interiormente e che tendiamo a localizzare nel cuore, inteso come il centro della nostra persona. Essa, inoltre, rivela – benché in modo implicito – alcuni aspetti della nostra interiorità. Complicazioni, contraddizioni e confusione possono, infatti, offrirci due indicazioni diverse a proposito di ciò che noi siamo. Esse mettono in risalto come l’essere umano sia contemporaneamente libero e fragile e, proprio per questo motivo, interiormente diviso. Non ci sarebbe, infatti, nessuna contraddizione o confusione se non fossimo persone libere, ma esseri dominati unicamente da pulsioni interne predeterminate. L’animale non conosce le complicazioni del cuore umano perché guidato solamente dal suo istinto, che lo orienta verso quanto la natura ha definito come buono e utile per lui. Nello stesso tempo non esisterebbero contraddizione e confusione se non fossimo persone fragili, la cui libertà è talvolta condizionata o decide di orientarsi verso direzioni opposte rispetto al proprio bene, alla pienezza di vita a cui siamo chiamati.

Il nostro cuore conosce dunque percorsi diversi, che si intrecciano, si oppongono e talvolta creano quell’inquietudine interiore – anch’essa caratteristica dell’essere umano – che può risolversi in un percorso di crescita, di maturazione, il cui compimento si manifesterà come pienezza di vita, oppure orientarsi verso scelte immature, apparentemente gratificanti ma in realtà inconcludenti e senza meta.

A tali percorsi del cuore si possono attribuire nomi diversi, che cercheremo ora di configurare, nel tentativo di individuare quali siano i possibili itinerari evolutivi capaci di trasformare il cuore e quelli invece involutivi, che provocano un arresto, un blocco della crescita, se non addirittura una regressione.

Il percorso dell’appagamento e dell’immediatezza

Il nostro cuore è abitato da passioni forti, da bisogni intensi che in noi spingono, urgono, per essere soddisfatti. La persona umana, infatti, è fin dalla nascita, un “essere di bisogno”: il neonato non nasce autosufficiente e per diventare veramente se stesso deve essere sottoposto a un lungo processo di umanizzazione, in cui bisogni fisiologici e psicologici – in particolare l’essere accudito, accolto e amato – premono per essere soddisfatti. All’inizio della vita tali bisogni necessitano di una risposta immediata, perché il bambino possa sentirsi al sicuro e non “gettato” in un mondo che non si prende cura di lui. Un neonato costretto a sperimentare costantemente la mancanza e il vuoto probabilmente non riuscirà a sopravvivere o – nella migliore delle ipotesi – ne risentirà per tutta la vita. La psicologia ci ricorda, però, che anche colui che nell’infanzia è stato continuamente gratificato ne avvertirà gli effetti negativi nel corso di tutta l’esistenza: molto probabilmente diventerà un antisociale ribelle o un narcisista pretenzioso e incapace di intessere relazioni. Sarà prima un giovane e poi un uomo piatto, immaturo, portato a relazionarsi con gli altri in modo strumentale, bisognoso di soddisfare i bisogni primari e mai appagato da ciò che riceve. La crescita esige, infatti, che alla gratificazione immediata poco per volta si accompagni anche la frustrazione, il “no” che insegna ad accettare il limite, a riconoscere i diritti degli altri, a interagire in un mondo di pari rinunciando all’affermazione assoluta dei propri diritti. Se questo non avviene, il cuore impara a percorrere un’unica via: la via della pretesa, dell’esigere la soddisfazione immediata e incondizionata delle proprie voglie, dell’incapacità di attendere per lasciare spazio anche ad altri. Il bisogno si impone su tutto il resto, orientando verso un unico percorso ripetitivo, monotono e mai pienamente soddisfacente: la via dell’appagamento, della ricerca immediata del piacere, che si rivela destinata a non raggiungere mai una pienezza. Ciò avviene perché il piacere possiede due caratteristiche destinate a creare frustrazione nella persona. Esso è innanzi tutto passivo e, di conseguenza, può essere accolto oppure cercato solo per essere goduto in se stesso, senza rimandare mai a una tensione ulteriore. La sua continua soddisfazione appiattisce più che stimolare, porta ad aspirare sempre e solo al medesimo piacere, non dilata l’orizzonte, ma lo rimpicciolisce. Il piacere, inoltre, non solo è passivo ma anche ripetitivo, crea assuefazione e rende la persona insaziabile. La gioia del piacere soddisfatto crea in realtà un vuoto, una voragine interiore. La forza che lo guida internamente urge, preme e orienta solo verso il “riempimento”: il “buco” vuole essere colmato per evitare la carenza provocata dal vuoto. Tuttavia tale tentativo continuo di sopperire alla mancanza non soddisfa: il bisogno costantemente gratificato, al posto di riempire il vuoto, lo amplifica e rende frustrati e mai sazi. Tale sazietà, inoltre, porta alla regressione, al ritornare indietro, a tentare di placare il cuore con gratificazioni sempre più immature, ma che – allo sguardo del cercatore eternamente insoddisfatto – possono presentarsi come possibili fonti di pacificazione: il sesso, l’alcool, la droga, la sfida, la negazione del pericolo, le fughe promesse dal mondo virtuale –  forse il maggior oggetto di attrazione per giovani e ragazzi – rispondono proprio alle esigenze di chi non ha imparato a rinunciare all’appagamento immediato di un bisogno, ma quasi sempre lasciano l’amaro in bocca.

Il percorso dell’immediatezza è, dunque, estremamente pericoloso e ne cogliamo gli effetti negativi in molti ragazzi e giovani della nostra società. Esso crea frustrazione, tensione, tristezza e talora anche angoscia: come, infatti, può vivere serenamente chi non è attrezzato ad affrontare la vita o chi, fin dall’infanzia, non ha imparato a gestire il vuoto e la mancanza sapendo cogliere in essi la premessa di una futura soddisfazione? L’abitudine a vedere immediatamente esaudite le proprie attese è anche fonte di noia: il vuoto costantemente riempito, invece di provocare una sensazione di pienezza, crea assuefazione, incapacità di godere, mancanza di slancio e di desiderio. Infine, il percorso dell’immediatezza favorisce aggressività e difficoltà relazionali: esso, infatti, induce a percepire l’altro come il nemico che priva dei beni di cui si ha diritto più che un fratello o un compagno di viaggio lungo il cammino della vita; di conseguenza, ogni persona sarà osservata con lo sguardo ostile di chi teme di essere espropriato dei propri diritti, gli unici che sembrano avere valore, e mai considerata nella prospettiva di creare una relazione reciprocamente appagante.

 

Il percorso del sentire e dell’emozione

Le emozioni sono una componente fondamentale dell’esistenza umana: senza di esse, infatti, tutto ci sembrerebbe grigio, banale, senza senso. Loro compito è di colorare la vita con le tinte più variegate, rendendola così più ricca e attraente, più “vita”. Talvolta, però, esse si impadroniscono del nostro cuore e, dal suo centro, orientano il nostro agire, il relazionarsi, il modo di pensare a se stessi e agli altri. L’emozione e – ancor prima – la sensazione diventano così il motore del vissuto quotidiano e, soprattutto, delle nostre scelte. Si è invitati ad andare “dove ci porta il cuore”, vale a dire ad agire non in base a ciò che pensiamo o riteniamo buono e utile per noi e per gli altri, ma a quanto ci fa sentire bene, offre una soddisfazione immediata o appare ai nostri occhi come una fonte di benessere. Il percorso del sentire invita ad ascoltare e seguire ciò che proviamo in un determinato momento e, di conseguenza, rende mutevoli, favorisce la percezione dell’esistenza come una realtà in continuo cambiamento, come una trasformazione incessante. La vita appare dinamica e, proprio per questo, più attraente. Si è alla ricerca della bella emozione, del sentimento appagante vissuto nel “qui e ora”, senza pensare troppo al futuro oppure progettandolo secondo criteri di autorealizzazione personale: “Che cosa mi farà star bene?”, “In che cosa potrò porre la mia felicità?” Si tratta di interrogativi legittimi, anche se è altrettanto legittimo domandarsi se lo “star bene” possa essere il fine di un’esistenza e il provare emozioni piacevoli sia sufficiente per rendere felice un essere umano.

Il percorso del sentire e dell’emozione è indubbiamente più maturo rispetto a quello dell’appagamento immediato: cercare il proprio benessere emotivo è più evoluto se paragonato alla semplice spinta a colmare il vuoto; si tratta, però, di un percorso costellato di pericoli e che, senza volerlo, può ritorcersi contro chi ha intrapreso questa via. Le emozioni, infatti, sono labili, cambiano continuamente; noi stessi ce ne rendiamo conto nel corso del quotidiano: possiamo svegliarci di cattivo umore e finire la giornata sereni, senza sapere nemmeno il perché. Se questo è vero in merito al vissuto di ogni giorno è ancora più vero a proposito dei momenti importanti dell’esistenza. Operare delle scelte lasciandosi guidar solo dal cuore, inteso come sede del nostro mondo emotivo, non dà solidità alla vita, poiché quanto oggi può renderci felici domani potrà diventare fonte di tensione, di noia, di frustrazione. Ciò è ancora più vero per quanto riguarda le scelte relazionali, in modo particolare quella del partner con cui si vuole condividere l’esistenza: qui il percorso delle emozioni può rivelarsi insidioso e fallace. Alla base di un rapporto maturo, infatti, il sentire può occupare un posto importante, ma non unico. Quali garanzie, infatti, può offrire una relazione basata unicamente sulle sensazioni piacevoli che ogni esperienza di innamoramento necessariamente porta con sé? Quando la gioia frizzante che nasce dalla reciproca attrazione lascia il posto alle fatiche della convivenza, solo i valori condivisi, l’impegno vicendevolmente assunto possono costituire quella roccia solida e rassicurante su cui costruire la casa del proprio reciproco amore. Il percorso del sentire e dell’emozione, invece, suggerisce un altro tipo di soluzione: quella del cambiamento continuo, del seguire il proprio “feeling” personale che giustifica la separazione e l’allontanamento, avendo come unica motivazione: “Sono cambiato, non sento più niente di ciò che provavo un tempo”. Tale percorso, quindi, non costituisce una via tipicamente umana di agire, poiché nega o non favorisce la maturazione di ciò che è essenziale per la persona: la capacità relazionale. Mettere al centro il proprio sentire emotivo, infatti, significa fare delle proprie emozioni il valore assoluto e, di conseguenza, escludere l’altro, i cui diritti diventano insignificanti se paragonati alla ricerca del proprio benessere. La fragilità che oggigiorno constatiamo presente nei rapporti di coppia è uno dei segni evidenti della pericolosità dell’itinerario in cui il cuore è prevalentemente spinto dalle emozioni; esse, infatti, possono rendere la persona instabile e vulnerabile, perché priva delle sicurezze e dei punti d’appoggio oggettivi capaci di rendere la vita più sicura e serena.

 

Il percorso del desiderio

Il nostro cuore non è solamente sede di bisogni impellenti o di sentimenti appaganti: esso è anche luogo di desiderio. Come il bisogno, anche il desiderio nasce dalla mancanza, dall’inappagamento, ma li gestisce in modo diverso. In un interessante libro su questo tema, lo psicanalista Massimo Recalcati spiega il significato del termine desiderio partendo dalla sua etimologia. Egli afferma che il termine da cui deriva – desiderantes – è stato usato la prima volta da Giulio Cesare nel De bello gallico per riferirsi ai soldati che, dopo la battaglia, guardavano le stelle nel cielo – sidera – nell’attesa dei compagni non ancora tornati al campo. “Il de privativo indica in latino l’impossibilità di seguire la rotta segnalata dalle stelle e, dunque, una condizione di disorientamento, di perdita, di riferimenti, di nostalgia, di lontananza, ma anche l’avvertimento positivo di ciò che è necessario alla vita, l’attesa e la ricerca della propria stella. La parola “desiderio” porta quindi nel suo etimo la dimensione della veglia e dell’attesa, dell’orizzonte aperto e stellare, dell’avvertimento positivo di una mancanza che sospinge verso la ricerca[1]”.

Il desiderio può quindi essere descritto come un vuoto trasfigurato: ciò che manca, infatti, diventa occasione di crescita, di ricerca, di tensione, di trascendenza, come spinta verso un “oltre” che ci supera e va al di là di noi stessi. Desiderare, infatti, è essere abitati da qualcosa che contemporaneamente è molto personale e, nello stesso tempo, ci oltrepassa; è vivere una contraddizione, poiché il desiderio è unico, è nostro, è personalissimo, ma rappresenta anche una forza ingovernabile, una spinta che sovrasta e supera la persona stessa. Noi, infatti, non decidiamo di desiderare, ma siamo presi dal desiderio, che ci orienta, ci guida, ci sospinge in una direzione. Indirizziamo le nostre forze verso il desiderio perché prima ci siamo sentiti guidati, trascinati, spinti dal desiderio stesso e questa spinta è sempre una spinta trascendente, che porta al di là di noi stessi; è un esodo del nostro io che “si impone a noi” e ci orienta verso un “al di là” di noi stessi. L’innamoramento è l’esempio più chiaro di questa dinamica: le persone non decidono a tavolino di innamorarsi di questa o quella persona, ma è piuttosto la persona che causa e fa nascere il desiderio. Lo stesso vale per la vocazione religiosa, scelta non programmabile, ma scoperta di un Altro, “più intimo a noi di noi stessi”, che attrae e suscita la voglia di seguirlo.

La via del desiderio è, nello stesso tempo, una via esigente ed appagante, che domanda impegno e attenzione. Essa richiede innanzitutto la disponibilità ad accettare il vuoto, inteso non unicamente come momento di frustrazione, ma anche come occasione di crescita, come possibilità lasciata al cuore di orientare il cammino su percorsi sempre nuovi, sempre più stimolanti e avvincenti, che non passano però dalla soluzione immediata, ma comportano la capacità di attendere e tollerare la frustrazione.

Anche il desiderio, però, conosce una sua fragilità: esso, infatti, può apparire tale, ma – di fronte alle prove della vita – può rivelarsi un bisogno camuffato. Quante volte, infatti, desideri di bene, di servizio, di donazione, apparentemente abitati da una tensione valoriale trascendente, si sono rivelati altro: dietro all’apparente aspirazione a servire si è manifestata una forte tensione esibizionistica così come la sete di preghiera ha mascherato un bisogno di fuggire relazioni che potevano incutere paura. La nostra psiche, infatti, è molto complessa e soprattutto è dotata della capacità di difendersi, camuffare le sue motivazioni più profonde, attribuendo loro un’apparenza di bene, con lo scopo di proteggere l’immagine di sé, evitando di prendere consapevolezza della fragilità personale. Il bisogno mascherato da desiderio, però, non appaga e prima o poi si sarà costretti a “fare i conti” con il cuore che, spinto in direzioni contrastanti, fatica a trovare la serenità e l’armonia interiore a cui aspira.

 

Il percorso del discernimento

“Non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”, diceva la Volpe al Piccolo Principe, e aveva ragione. Essa però forse dimenticava che, per vedere meglio degli occhi, il cuore dell’uomo ha bisogno di essere purificato. Proprio perché è un “guazzabuglio” di fragilità e  grandezza, di libertà e paure che lo spingono a difendersi, il cuore non può limitarsi a lasciarsi guidare dai desideri; essi, infatti, talvolta sono ambivalenti: all’apparenza sembrano indirizzare la persona verso valori trascendenti, ma in realtà nascondono un’intenzione diversa, che preme perché il bisogno venga soddisfatto. Tante scelte di vita si rivelano così inappaganti, proprio perché la persona vive una profonda contraddizione interiore: convinta di andare in una direzione, in realtà ne percorre un’altra. Ciò vale a proposito della scelta matrimoniale, dove il voler il bene dell’altro è minacciato dalla spinta compulsiva e mai inappagata di ricevere affetto, o per la decisione vocazionale in cui il dono di sé a Dio maschera la paura di affrontare il mondo o il dilagante bisogno di realizzazione personale. Il percorso del desiderio è dunque insufficiente per orientare in modo maturo e soddisfacente il nostro cuore; esso, infatti, deve anche sviluppare la capacità di valutare i propri desideri, al fine di scorgere ciò che può indirizzare il cammino personale in direzioni sbagliate o insoddisfacenti.

Il percorso del discernimento appare allora come l’itinerario più saggio e più appagante perché il cuore possa ritrovare quell’ordine interno e quell’armonia che, nonostante tutti gli “ingorghi” interiori, gli sono connaturali e tanto desidera. Attribuire al cuore la capacità di discernere significa, però, pensarlo come il centro della persona e non come una realtà unicamente mossa dalla dimensione affettiva, desiderante. Il cuore, infatti, è anche capace di giudizio, di valutazione; è in grado di distinguere correttamente fra scelte che orientano verso il bene e la crescita personale e altre che favoriscono dinamiche immature e regressive. Noi non siamo solo impulso, emozione, sensibilità, desiderio: siamo dotati anche della facoltà di riflettere, valutare, soppesare vantaggi e svantaggi delle scelte fatte o dei comportamenti assunti. Siamo intuizione, capacità di penetrare nei meandri della nostra interiorità, per scorgere i possibili modi in cui siamo tentati di camuffare le nostre motivazioni profonde, mascherare la verità per far apparire buono e desiderabile ciò che, di fatto, non lo è. Siamo anche volontà e, di conseguenza, intenzionalità che orienta la vita verso orizzonti ben precisi, tensione per trasformare in decisione e in atti ciò che è stato valutato come buono, significativo e giusto per la propria esistenza. Se, infatti, non mette in moto la volontà e non porta all’agire, il cuore rimane sterile, non dà frutti di vita; come diceva un grande pensatore: “Il bene è sempre concreto”; esso deve dunque trasformarsi in atto, in scelta, in vita vera.

Il percorso del discernimento è, dunque, in ultima analisi, un percorso di educazione del cuore. Educazione intesa soprattutto come armonizzazione delle diverse componenti, come integrazione delle differenti dimensioni della persona, affinché tutte possano esprimersi e nessuna prevalga sull’altra. Sarebbe, infatti, pericoloso se il cuore dovesse agire guidato solo da criteri di morali acquisiti dall’esterno, a cui si aderisce rigidamente senza mai porsi interrogativi: i comportamenti sarebbero ineccepibili, ma la persona si trasformerebbe presto in un automa, incapace di operare scelte personali e assumersi le proprie responsabilità. Lo stesso si può affermare di un cuore unicamente guidato dal pensare e, di conseguenza, incapace di venire a patti con la realtà, percepita secondo criteri astratti e avulsi dal vissuto quotidiano. Come però abbiamo già messo in risalto, il cuore non può nemmeno lasciarsi guidare unicamente dalla sensazione o dall’emozione, che lo orientano su vie di immediatezza ma, nello stesso tempo, lo introducono in circoli viziosi di compulsiva necessità di soddisfare i bisogni fisiologici e psicologici, senza lasciare spazio per la dimensione trascendente che lo abita.

Il discernimento si rivela allora come il percorso necessario perché il cuore possa individuare quali sono le spinte che lo muovono e decidere come orientarle e dare loro spazio. Solo così potrà diventare ciò che è chiamato a essere: il centro della persona che contemporaneamente ricerca un’armonia interna tra le diverse dimensioni in esso presenti e orienta verso un “oltre” a cui tendere per vivere quella trascendenza che caratterizza ogni essere umano.

 

[1] Recalcati M., Ritratti del desiderio, Raffaello Cortina Editore, Milano 2012, p. 17.

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