Il dono della vocazione presbiterale
Introduzione generale al documento: " Ratio Fundamentalis Institutionis Sacerdotalis" 8 -12-2016
L’8 dicembre 2016 è stata promulgata dalla Congregazione per il Clero la nuova Ratio Fundamentalis Institutionis Sacerdotalis, dal titolo «Il dono della vocazione presbiterale». A quasi cinquant’anni dalla precedente promulgazione (6 gennaio 1970) e dopo oltre trent’anni dal suo emendamento, alla luce dell’allora rinnovato Codice di Diritto Canonico (25 gennaio 1984), la nuova Ratio intende raccogliere e interpretare – secondo l’ormai celebre espressione di Papa Francesco al convegno di Firenze della Chiesa italiana – «la transizione d’epoca» e non solo «l’epoca di transizione. In questi lunghi anni, infatti, molto è significativamente mutato del contesto e delle condizioni riguardanti sia la formazione al presbiterato nei Seminari, sia, soprattutto, della vita concreta nel ministero, come dello scenario delle comunità ecclesiali. In attesa della elaborazione di una corrispondente Ratio Nationalis, i nuovi orientamenti ne intendono autorevolmente orientare le linee di sviluppo. In questa luce, senza pretese, vorremmo raccogliere lungo questa rubrica qualche spunto di riflessione, insieme a significativi racconti di esperienze in merito.
Il percorso unitario e il «cammino discepolare»
Scorrendo il testo della nuova Ratio appaiono due temi fondamentali per inquadrare il dono della vocazione presbiterale oggi: l’unitarietà del percorso formativo e la comprensione di esso all’interno della categoria sintetica e unificante del «cammino discepolare». «Lungo tutta la vita –precisa la nuova Ratio– si è sempre «discepoli», con l’anelito costante a «configurarsi» a Cristo, per esercitare il ministero pastorale» Certamente non si tratta di aspetti nuovi, ma senz’altro indicati con una forza inedita e incoraggiante.
Nel primo tema si trovano non solo le quattro «note caratterizzanti» la formazione («unica, integrale, comunitaria e missionaria»), ma anche l’idea di leggere come «integrale e progressivo» il cammino che unisce la formazione iniziale (a sua volta articolata in quattro tappe: propedeutica, discepolare, configuratrice e pastorale) a quella permanente del clero.
D’altra parte, alla felice idea del «cammino discepolare» va riconosciuta la qualità specifica e unificante dell’intero itinerario. È molto significativo – e forse avrebbe potuto anche essere ulteriormente richiamato nello sviluppo complessivo del testo – che la formazione dei sacerdoti sia letta come «il proseguimento di un unico cammino discepolare, che inizia col battesimo, si perfeziona con gli altri sacramenti dell’iniziazione cristiana, viene accolto come centro della propria vita al momento dell’ingresso in Seminario e prosegue per tutta l’esistenza». In tal modo la singolarità della vocazione presbiterale non viene sganciata dall’unica e necessaria radice battesimale come dal cammino di iniziazione e educazione alla vita cristiana che da esso fiorisce. Non esiste un apostolo che smetta di essere discepolo, nondimeno un discepolo che viva la sua esistenza senza missione, come un fatto privato. La missione non è alternativa all’identità, ma costituiva di essa. La vocazione personale, infatti, non è altro che il modo singolare e originalissimo all’interno del quale ciascuno, nella vitale testimonianza della compagine ecclesiale, sperimenta la propria insuperabile condizione di discepolo del Signore.
Dalla coscienza battesimale alla coscienza presbiterale
Nell’intento di dare qualche agio e persino suggerire possibili itinerari pedagogici per la ripresa delle intuizioni contenute nella nuova Ratio, mi è venuto alla mente, per contiguità di pensieri, una delle prime meditazioni del card. Martini al clero diocesano milanese nelle diverse Zone pastorali. Il titolo è già suggestivo e permette di riprendere in forma di itinerario l’intuizione di fondo ribadita dalla Ratio circa l’insuperabile radice battesimale del Ministero ordinato: «Dalla coscienza battesimale alla coscienza presbiterale»
Nella rilettura di Martini la vita cristiana è una vita itinerante, nella quale è decisivo cogliere il punto di partenza, la direzione e le tappe successive del cammino. Facendo i conti con l’esistenza e volendo rispondere alle questioni rilevanti di essa, tali punti di avvio appaiono immediatamente importanti e irrinunciabili. Secondo quali tappe, dunque, la Chiesa primitiva ha riconosciuto e predisposto il proprio cammino? Come ha avuto coscienza di nominare e aiutare a progredire da una tappa all’altra? Come è evidente, si tratta di domande che riguardano una concreta modalità di appropriazione del cammino che, per sé, riguardano la vita di ciascuno. Nella interessante lettura di Martini, è precisamente per suscitare e accompagnare questo singolare viaggio che la Chiesa primitiva ha concepito dei veri e propri itinerari, nella premura di far progredire la vita dei singoli e di Chiesa, di tappa in tappa. Non si tratterebbe di un lavoro astratto, fatto sotto una serra o in ambiente sterile, quanto a contatto con la vita reale, le domande e i contesti vitali dell’esistenza cristiana. Di qui la sua ipotesi di lavoro:
«La chiesa primitiva ha prodotto manuali per le diverse e successive tappe dell’esperienza cristiana. Essi sono, nell’ordine progressivo, il vangelo secondo Marco (manuale del catecumeno), poi il vangelo secondo Matteo (manuale del catechista), il vangelo secondo Luca (manuale del testimone), il vangelo secondo Giovanni (manuale del cristiano maturo)»
Il tratto interessante per noi di queste considerazioni riguardano precisamente l’itinerario che disegnano, dalla coscienza battesimale e quella presbiterale. In altre parole si potrebbe rileggere nel cammino stesso inaugurato dai Vangeli una sorta di percorso per accompagnare le diverse tappe della formazione al Presbiterato. Come, dunque, si forma e quando affiora la coscienza presbiterale, prestando attenzione al cammino che Gesù stesso ha fatto percorrere ai suoi discepoli? Non abbiamo spazio qui per seguire l’intera riflessione di Martini, ma due indicazioni ci paiono molto suggestive in merito alla possibile costruzione di un percorso che non si discosti di molto dalle scansioni anche temporali proposte dalla nuova Ratio. La prima indicazione riguarda il vissuto di fede che il Vangelo fa compiere, la seconda è la corrispondenza ad essa di una pratica sacramentale e di una diaconia, vale a dire di un servizio effettivo reso alla comunità. Il cammino della fede apre, infatti, via via ad una pratica sacramentale e ad un servizio dentro e fuori dalla comunità, ma pur sempre in comunione con essa e quale sua espressione.
Un cammino di fede e di servizio
Per apprezzare l’intreccio fecondo di questi due temi, è importante ritrovare l’intenzione profonda di ogni Vangelo. Nella prima tappa (Marco) il credente è invitato «a riflettere sulla sua esperienza dal punto di vista psicologico/morale, a riconoscere e a scoprire le connivenze pagane del proprio cuore, perché possa metterle in luce e sottoporle alla grazia battesimale, che le trasformi». Si tratta, in particolare, di una riflessione «sulla possessività, sulla paura della morte, sui risentimenti, su tutte le forme di invidia e di possesso ingiusto che dominano il cuore dell’uomo» Non siamo, certo, lontani da quanto indicato dalla Ratio come meta per la «tappa propedeutica», il cui «obiettivo principale consiste nel porre solide basi alla vita spirituale e nel favorire una maggiore conoscenza di sé per la crescita personale»
Nella tappa successiva (Matteo), è la vita della Chiesa il fuoco vivo della riflessione, evidenziando concretamente le forme essenziali dell’annuncio cristiano e dello stile ecclesiale: il Regno di Dio, come lo si accoglie, le sue esigenze etiche, ma anche la vita fraterna, i suoi dissidi e conflitti interni, il perdono reciproco e la tensione escatologica verso il compimento. Si potrebbe leggere qui uno dei fili rossi che legano i cinque grandi discorsi della Vangelo di Matteo.
La terza tappa coincide con la formazione del testimone. Una volta che il cristiano ha assaporato e compreso in qualche modo lo stile ecclesiale, può interrogarsi circa l’educazione alla fede degli altri, soprattutto di chi non crede. Tale sarebbe, secondo Martini, la premura principale dell’opera lucana (Vangelo e Atti): insegnare al credente a diventare testimone, a portare la Parola a chi non crede e in contesti culturali diversi. La novità e l’ampiezza dei nuovi spazi geografici hanno chiesto, infatti, alle comunità delle origini una riflessione più raffinata, un impegno a ridire il Vangelo di Gesù dentro mondi diversi e non sempre ospitali. Il racconto delle missioni paoline di Atti è, in questo senso, assai paradigmatico. Ma si trattava, ancor prima di una strategia per l’annuncio, di una preoccupazione che doveva riguardare il cristiano stesso, ultimamente la comprensione della sua stessa identità e missione. È nata qui l’esigenza di una teologia cristiana, capace di elaborare pensiero e vissuti personali ed ecclesiali, disponibile al dialogo con le diverse istanze culturali. D’altra parte come possibile esercitare ministeri spirituali senza aver colto, dal vivo, le questioni radicali e i bisogni materiali del prossimo? Intercettare le domande essenziali proprie e della gente circa i bisogni del cuore umano, vale a dire i temi concretissimi e universali del pane, del lavoro, degli affetti, del senso ultimo, appare con evidenza un tratto insuperabile per chi si sente chiamato al servizio della responsabilità nei confronti dei fratelli.
Senza forzature mi pare si possano si possono rileggere qui e opportunamente istruire in cammini formativi adeguati, i due momenti successivi indicati dalla Ratio che riguardano la «tappa discepolare» (filosofica) e «configuratrice» (teologica). Se nella prima il grande tema è quello dell’educazione della persona «alla verità del proprio essere, alla libertà e al dominio di sé», la seconda vorrebbe permettere «il graduale radicamento nella fisionomia del Buon Pastore, che conosce le sue pecore, dona per esse la vita e va in cerca di quelle che sono al di fuori dell’ovile»
Giovanni, infine, è la tappa del contemplativo o del «presbitero», vale a dire, del cristiano maturo, che dopo aver percorso le precedenti ritrova vere per sé altre domande capaci di far progredire il cammino: «qual è il centro delle molteplici esperienze fatte? Come descriverle in poche parole? Come contemplarle nella loro semplice essenzialità?». È l’esigenza di una sintesi creatrice di nuovi percorsi. Avendo preso consapevolezza del servizio di Gesù per sé e per il mondo, il credente intuisce l’appello a divenire pastore. Riconosce, in altri termini, la propria vita chiamata a svolgere il medesimo gesto del lavare i piedi ai fratelli (cf Gv 13), a divenire appunto «presbitero», sentendosi preso a servizio per la responsabilità di altri nella Chiesa, condividendone la gioia, ma anche assumendone il peso delle domande e della fatica del vivere nella fede. Si evidenzia qui quanto è proprio del prete e che diviene ultimamente oggetto di discernimento personale ed ecclesiale dell’ultimo tratto di cammino formativo, la «tappa pastorale o sintesi vocazionale», nella quale il candidato «viene inserito nella vita pastorale, con una graduale assunzione di responsabilità, in spirito di servizio». In qualche modo, come un seme promettente in attesa ancora di sviluppi che saranno propri del cammino dentro il ministero, dovrebbe apparire in chi si avvicina all’ordinazione la capacità contemplativa giovannea di andare al cuore della questioni in una visione sintetica e filtrata, di «distinguere l’essenziale dall’accessorio, vedere ciò che è veramente importante e urgente e ciò che non lo è, anche se molto gridato o richiesto, portare il peso della responsabilità guardando diritto al fine, insegnando, guidando a cogliere le cose fondamentali»
Si tratta, certo, di una riflessione iniziale, tutta da articolare in un possibile progetto il cui fascino indubitabile, però, consiste nel recuperare in mediazioni di ordine pedagogico quel processo fecondo che abitò le prime comunità cristiane: l’insuperabile e appassionata fedeltà al Vangelo nel concreto impatto con quanto si agita nel cuore dell’uomo, nel fermento di una sempre singolare «transizione d’epoca».