N.01
Gennaio/Febbraio 2018

“Signore: chi è?” (Gv 13,24)

L’icona sinodale del «discepolo amato» suggerisce l’approfondimento di una seconda tappa giovannea: dal primo incontro con Gesù che ha permesso l’avventura della sequela (cf. Gv 1,35-42) al «compimento dell’ora» di Cristo che vede presenti i discepoli nella «Cena di addio». La perifrasi «discepolo che Gesù amava» è attestata nel racconto evangelico nella sezione di Gv 13-21 anche se tale figura può essere identificata con «l’altro discepolo» che fa esperienza dell’incontro con Gesù in Gv 1,35-42[1]. In tal modo si può collegare allo stesso personaggio l’esperienza entusiastica della sequela iniziale (Gv 1,35-42) con la tenerezza del «giovane» che condivide le ultime ore di Gesù nel mondo[2]. La narrazione della «Cena di addio» apre la seconda parte del Vangelo giovanneo (il «libro dell’ora»: cf. Gv 13-20) situando il «discepolo amato» in una posizione esemplare[3]. Nei racconti della passione egli è presente in tre momenti: la partecipazione alla Cena (13,23-25), l’ingresso presso la casa di Caifa con Simon Pietro (18,15-16: «l’atro discepolo») e accanto ala Vergine Maria presso la croce di Gesù (19,25-37). L’analisi dell’intera pericope di Gv 13,1-30 ci permetterà di cogliere la peculiarità della figura giovannea e l’attualità del suo messaggio per la riflessione sul discernimento vocazionale[4].

 

Li amò sino alla fine (Gv 13,1)

Lo sviluppo narrativo della prima parte del Vangelo (cf. Gv 1-12) ha mostrato il processo di rivelazione del Cristo caratterizzato dallo sviluppo progressivo dei segni cristologici. Tale cammino culmina nel compimento della «glorificazione» del Figlio nella seconda parte del Vangelo (cf Gv 13-20)[5]. Il dinamismo dell’amore cristologico è tematizzato inizialmente nella frase programmatica: «Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora (ḗlthen autoû ē ṓra) di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine (eis télos egápēsen autoús)» (13,1)[6]. L’amore oblativo (agápē) del Cristo-servo assume il carattere del dono pieno e totale di sé a favore dei suoi discepoli. Egli li amerà «fino alla fine» (eis télos), fino al termine estremo che conduce alla risurrezione e alla vita. Tale affermazione non ha solo un valore temporale ma esistenziale. Essa trova conferma nella parola “finale” di crocifisso sul punto di morire: «È compiuto!» (tetélestai: 19,30). Donando la vita sulla croce, il Signore porta a conclusione l’opera di amore che ha caratterizzato la sua missione nel mondo. Nello sviluppo della sezione di Gv 13-19 Gesù insegna e testimonia il valore profondo dell’amore[7], affidando come testamento ai suoi, l’impegno ad «amarsi gli uni gli altri come il Padre ama il Figlio» (cf. 15,9.12). Siamo di fronte alla sezione fondamentale della narrazione evangelica, la cui natura introspettiva assume un valore essenziale per il discernimento vocazionale[8]. Occorre avere presente la densità teologica di questa sezione per comprendere la pagina di Gv 13,1-30. Essa si compone di due scene distinte: nei vv. 1-20 si presenta il segno della lavanda dei piedi e nei vv. 21-30 Gesù, profondamente turbato, annuncia l’imminente tradimento e rivela l’identità del traditore[9].

Nella forma del servo (Gv 13,1-20)

La scena della lavanda dei piedi (vv. 1-20) costituisce il gesto del «servo» che si china davanti ai discepoli per insegnare loro lo stile dell’amore redentivo[10]. Durante la Cena (v. 2), nella piena obbedienza alla volontà del Padre, mentre il diavolo opera nel cuore di Giuda Iscariota, Gesù «si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto» (vv. 4-5). La scena è descritta visivamente in tutte le sue fasi: preparazione, esecuzione e conclusione; otto azioni consecutive dal momento in cui Gesù si alza da tavola fino a quando si risiede (v. 12), durante la Cena[11]. Si tratta di un gesto non usuale, in quanto secondo gli usi locali del tempo, esso avveniva prima del pasto[12]. I presenti accolgono il gesto. Tra di essi c’è anche il discepolo amato. Solo Simon Pietro dichiara la sua contrarietà, ritenendo ingiusta l’umiliazione del Maestro che si espone ad una condizione «servile». Nei vv. 6-11 è presentato il dialogo con Simon Pietro che prima si oppone al gesto e, alla replica di Gesù (v. 8), invoca un bagno competo. Nella risposta del Cristo si rivela il valore spirituale e programmatico del gesto di Cristo: egli vuole esprimere il suo amore in forma estrema e dare l’esempio perché anche i discepoli in futuro possano fare altrettanto (vv. 12-15). L’esemplarità del «maestro e Signore» si traduce nell’immagine di chi si sa chinare davanti al prossimo e mettere la propria vita a servizio dei fratelli. Va notato come Gesù compie questo gesto anche nei riguardi di Giuda e del discepolo amato. L’amicizia liberante e gratuita di Gesù rappresenta la condizione basilare per il discernimento personale e comunitario[13]. L’ideale della «purezza» nel nostro contesto (vv. 10-11: kataròs) si collega con la trasparenza della vita e la lealtà nell’amicizia (cf. Sal 41,10). Solo mettendo in pratica l’autenticità del servizio, i discepoli saranno beati (cf. Mt 5,8). L’ultima parte della pericope (vv. 16-20) è connotata dalla ripetizione della formula di rivelazione (vv. 15.20: «in verità in verità vi dico») e tratteggia lo stile diaconale che deve ispirare le relazioni ecclesiali: mettersi a servizio degli altri riconoscendo la presenza di Cristo come modello dell’amore accogliente che proviene dal Padre.

 Amici o traditori (Gv 13,21-30)

Dopo l’insegnamento sul servizio, Gesù si commuove profondamente (cf. 11,35) e dichiara che uno dei suoi discepoli lo tradirà (13,21)[14]. Segue la reazione di sconcerto e di smarrimento dei presenti, che non comprendono il dramma che sta per consumarsi. E’ importante osservare l’intreccio narrativo della scena descritta dall’evangelista: al centro si pone la figura di Cristo e di fronte a lui quella del traditore Giuda. Ai due lati del Signore sono presenti Simon Pietro e quel «discepolo che Gesù amava». Benché ricoprisse un ruolo primaziale, Simon Pietro sceglie la mediazione del «discepolo amato» per avere informazioni da Gesù[15] e invita l’altro discepolo a domandare l’identità del traditore. Il particolare decritto dall’evangelista è indicativo dell’intimità con il Signore: il discepolo amato «chinandosi sul petto di Gesù (lett. «nel seno»: en tô kolpô), gli disse: “Signore, chi è?”. Rispose Gesù: “È colui per il quale intingerò il boccone e glielo darò”. E, intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda, figlio di Simone Iscariota» (vv. 25-26). Il «chinarsi» del discepolo sul «cuore turbato» di Cristo non solo indica un segno di discrezione, ma rappresenta un gesto di affidamento filiale e di tenerezza. Nel dramma che sta per consumarsi, il «discepolo che Gesù amava» è accanto al suo Signore che soffre e con la sua amicizia si fa prossimo di Cristo. Il segno del boccone offerto all’Iscariota rende manifesta la condizione terrificante del cuore di Giuda, reso schiavo del potere di Satana (cf. Lc 22,3)[16]. Mentre il gesto di Cristo vuole esprimere la compartecipazione e il coinvolgimento nella commensalità fraterna, il traditore prende quel boccone entrando definitivamente nella notte tenebrosa del male. Sembra che il boccone offerto da Gesù a Giuda diventi il segnale per Satana di prendere pieno possesso del traditore. La scena pone in netta contrapposizione la figura del discepolo amato e quella di Giuda Iscariota. Il gesto della tenerezza di chi ama «fino alla fine» cade nel vuoto notturno di un cuore posseduto dal Maligno.  In quell’istante Gesù si rivolge a Giuda dicendo: «Quello che vuoi fare, fallo presto» (v. 27), ma nessuno dei presenti comprende il vero senso della frase (vv. 28-29). Così, in silenzio Giuda esegue immediatamente l’ordine di Gesù (v. 30) e s’inoltra nella «notte» mortale[17].

 L’onore del grembiule

Un primo aspetto emergente dall’analisi del brano è rappresentato dal segno della lavanda dei piedi e dalla spiegazione data da Gesù ai suoi discepoli. Il principio che guida il servizio è l’amore, proposto nella cornice della commensalità e della fraternità familiare. Alla logica della separazione si contrappone quella della comunione e del servizio. La gestualità descritta dall’evangelista rivela uno stile inaugurato da Gesù «maestro e signore» che si fa «servo», depone le vesti, si cinge un grembiule, prende il catino dell’acqua e si china davanti ai suoi discepoli per lavare loro i piedi. Siamo di fronte ad un sublime gesto di accoglienza e di partecipazione all’amore e l’insegnamento che qualifica l’esistenza dei discepoli nel segno della fedeltà a Dio e a prossimo. Gesù-servo dà onore al grembiule e a quanti sapranno indossarlo per servire il prossimo. In tale ottica, esso diventa criterio per ridefinire i rapporti reciproci e i ruoli nella comunità. L’immagine del servo, associata a quella dell’inviato, consente di parlare di un servizio e dono reciproco di amore. Questo nuovo dinamismo che parte da Gesù rovescia lo schema dei ruoli nella comunità dei discepoli, prendendo come criterio fondamentale l’atto di Gesù che lava i piedi ai suoi discepoli, così che anche l’apostolo è associato alla figura del servo. Entrambi, l’apostolo e il servo, hanno il loro archetipo nel Signore e Maestro, che ama in una forma paradossale ed estrema.

 Tre modelli per un discernimento vocazionale

 Il racconto evidenzia le tre figure principali che ruotano intorno a Cristo: Simon Pietro, che rappresenta il «discepolo reticente», Giuda che è l’«anti-discepolo» e il «discepolo amato», esempio di fedeltà e di tenerezza. Ci limitiamo a segnalare alcuni spunti per la riflessione teologica e pastorale in prospettiva vocazionale.

Il tradimento e la sua notte

La descrizione giovannea dell’annuncio del tradimento pone in evidenza il contrasto tra il bene luminoso rappresentato dall’amore di Cristo per i suoi discepoli e il male tenebroso delineato dalla figura di Giuda Iscariota in balia si Satana. In questa lotta si coglie il turbamento di Gesù e il dramma della sua solitudine. Mentre la Cena rappresenta il vertice della comunione tra Cristo e i discepoli, il gesto del tradimento costituisce la profonda ferita che lacera la fiducia e la comunione reciproca. La citazione del Sal 41,10: «Colui che mangia il mio pane ha alzato contro di me il suo calcagno» (Gv 13,18) esprime tutta l’amarezza dell’inganno di colui che è amico e che si trasforma in nemico (Sir 6,9-10). L’evangelista sottolinea la condizione «diabolica» del cuore del discepolo, che rifiuta di venire ala luce, preferendo l’ambiguità e l’oscurità delle sue azioni. Il simbolo della notte in Giovanni richiama la presenza operante del male nel mondo (Gv 9,4; 11,10). Anche i discepoli sperimenteranno il dramma della «notte» nella sofferenza al Getsemani, nell’arresto di Gesù e nella sua condanna.

 La controllore reticente

Dal racconto emerge anche il profilo di Simon Pietro e il suo carattere duro ma reticente. Di fronte al gesto umile di Gesù, il pescatore di Betsaida si oppone, cerca di resistere alla logica del servizio, condizionato dal contesto sociale che relegava solo agli schiavi quel ruolo subalterno. Egli fa fatica ad accettare un amore oblativo così radicale. Alla fine Pietro accetta di condividere l’amore di Cristo. La sua incomprensione si traduce nella solitudine. Egli evita di rivolgersi direttamente a Gesù, che aveva annunciato il tradimento e preferisce la mediazione del «discepolo amato». Nelle vesti del protettore e del controllore Simon Pietro sperimenta l’amarezza del rinnegamento. Nello sviluppo del racconto di passione, Pietro evidenzierà la sua incapacità di donarsi e la sua fragilità nella fede: la promessa di dare la vita per Cristo (13,36-38), il tentativo di difendere il Signore (18,10-11), il triplice rinnegamento (18,25-27). Dietro la sua fragilità si cela l’insicurezza della fede e l’incapacità di fare un profondo discernimento sulla propria esistenza. Solo nella luce pasquale, l’apostolo potrà rileggere la propria identità e riscoprire il senso della sua missione, fondata sull’amore (Gv 21,15-19).

 Il discepolo del cuore

La presentazione del «discepolo che Gesù amava» assume una funzione tipica nel racconto giovanneo. Egli è designato con la perifrasi relazionale degli affetti e rappresentato come colui che pone il suo capo sul cuore del Signore. Egli diventa l’icona dell’amicizia profonda che rimane fedele nei momenti di prova e che si apre al discernimento. La sua delicatezza è rassicurante, illuminante, pacificante. In questa singolare figura giovannea si può scorgere il cuore di ogni giovane che cerca risposte di vita. Per tale ragione il «discepolo amato» riveste il ruolo dell’intimità, della fedeltà e della tenerezza. L’intimità evoca il bisogno di scoprire la ricchezza profonda dell’amore di Dio. La fedeltà impegna il discepolo a vivere con coerenza e lealtà il rapporto con Cristo, testimoniando la sua Parola senza ambiguità né tradimenti. La tenerezza rivela la dimensione misericordiosa delle relazioni interpersonali che è in grado di guarire le ferite, di dare certezze nei momenti di turbamento e di aprire strade nuove verso il futuro. Il discernimento vocazionale sgorga da un cuore che si lascia incontrare e chiamare dallo sguardo di amore di Cristo.

«Nei racconti evangelici lo sguardo di amore di Gesù si trasforma in una parola, che è una chiamata a una novità da accogliere, esplorare e costruire. Chiamare vuol dire in primo luogo ridestare il desiderio, smuovere le persone da ciò che le tiene bloccate o dalle comodità in cui si adagiano. Chiamare vuol dire porre domande a cui non ci sono risposte preconfezionate. È questo, e non la prescrizione di norme da rispettare, che stimola le persone a mettersi in cammino e incontrare la gioia del Vangelo»[18].

[1] Cf  V. Mannucci, Giovanni. Il Vangelo narrante, Dehoniane, Bologna 1997, 236-237.

[2] R. Schnackengurg, Il vangelo secondo Giovanni, III, Paideia, Brescia 1981, 204-214; K. Wengst, Il Vangelo di Giovanni, Queriniana, Brescia 2005, 536-542; R. Fabris, Giovanni, Borla, Roma 2003, 586-590.

[3] Cf. Schnackengurg, Il vangelo secondo Giovanni, III, 623-644; R. E. Brown, Giovanni. Commento al vangelo spirituale, Assisi, Cittadella 1979, CX-CXVIII; Id., La comunità del discepolo prediletto, Assisi, Cittadella 1982, 350-356; A. Marchadour, I personaggi del Vangelo di Giovanni. Specchio per una cristologia narrativa, Dehoniane, Bologna 2007, 159-168; I. De La Potterie, Il discepolo che Gesù amava, in L. Padovese (ed.), Atti del 1° Simposio di Efeso su San Giovanni Apostolo, Pontificio Ateneo Antoniano, Roma 1991, 33-55; G. Zevini Il discepolo e il discepolato dietro a Cristo nel Vangelo secondo Giovanni, in Parola Spirito e Vita» 1(2010), 115-135: G. De Virgilio, La fatica di scegliere. Profili biblici per il discernimento vocazionale, Roma, Rogate 2010, 185-287.

[4] Nel prossimo fascicolo (3/2018) si analizzeranno le altre due scene della passione, dove il discepolo amato è in compagnia di Simon Pietro nel cortile del sommo sacerdote (Gv 18,15-18) e presso la croce del Signore (Gv 19,25-37).

[5] Cf. Gv 13,31-32.

[6] Cf. G. Zevini, «Li amò sino al termine estremo» (Gv 13,1), in Parola Spirito e Vita 59 (2009), 139-163.

[7] Cf. la ricorrenze del verbo amare (agapáō): Gv 13,34; 14,15.21.23.28.31; 15,9.17.23-24; 17,26.

[8] Una serie di temi intrecciati concorre a comprendere questa sezione nella linea ermeneutica della riflessione vocazionale: la comunione con Cristo-servo, il dono dello Spirito e la futura missione dei discepoli, la testimonianza dell’amore trinitario, la gioia pasquale, la lotta interiore, la preghiera per l’unità della Chiesa, la consacrazione nella verità, l’amicizia di Cristo che oltrepassa le fragilità dei discepoli, il dono salvifico della vita di Gesù: cf. G. Zevini, L’ora di Gesù nel Vangelo di Giovanni, in Parola Spirito e Vita 36 (1997) 153-169.

[9] Cf. Wengst, Il Vangelo di Giovanni, 536-542. Schnackenburg segnala sei tappe: vv. 1-5: introduzione alla lavanda dei piedi; vv. 6-11: il dialogo di Gesù con Simon Pietro; vv. 12-17: la lavanda compiuta da Gesù come esempio per i discepoli; vv. 18-20: preannuncio del tradimento e rafforzamento della fede; vv. 21-26: lo smascheramento del traditore; vv. 27-30: Giuda abbandona la sala (cf. Schnackengurg, Il vangelo secondo Giovanni, III, 30-62).

[10] Il parallelo lucano non riporta il gesto della lavanda ma registra il tema dell’umiltà di fronte alla domanda dei discepoli su «chi fosse il più grande» (cf. Lc 22,24-27). L’espressione di Gesù: «Chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mazzo a voi come colui che serve» (Lc 22,27) appare molto vicina al messaggio giovanneo della lavanda dei piedi: cf. G. P. Carminati, «Vi ho dato un esempio» (Gv 13,15). La lavanda dei piedi come tratto della cristologia di Giovanni, in Parola Spirito e Vita 68 (2013), 115-116.

[11] Diversi simbolismi sono presenti nel racconto giovanneo collegati al motivo dell’ospitalità (cf. Gen 18,2; 19,2): il gesto di Abigail (2Sam 25,41), il servizio nei riguardi del profeta (2Re 3,11), le connessioni con la tradizione sapienziale e giudaica relativa ai modelli di umiltà e di servizio. Collegamenti tra il gesto di servizio e l’insegnamento di Gesù soni ravvisabili in Lc 12,37 (il padrone che premia i suoi servi fedeli cingendosi le vesti, facendoli sedere e passando a servirli: cf. Pr 31,17). Il binomio «deporre/riprendere» si collega alla figura del buon pastore (Gv 10,17-18). Circa l’immagine del cingersi i fianchi vi sono echi in Es 12,11; 1Pt 1,13; Ef 6,14 e Gv 21,18; cf. C. S. Keener, The Gospel of John. A Commentary, Hendrickson, Peabody (MA) 2003, 903-906. Nella linea antropologico-culturale si colloca il contributo di M. Pesce che interpreta la lavanda dei piedi come un rito iniziatico che caratterizza il gruppo dei credenti: cf. M. Pesce, Il lavaggio dei piedi, in Opera giovannea, a cura di G. Ghiberti e collaboratori (Logos 7), Elledici, Leumann (TO) 2003, 233-250.

[12] Cf. Carminati, «Vi ho dato un esempio» (Gv 13,15), 117-127.

[13] Va sottolineata la connessione tra l’esemplarità del gesto e l’insegnamento del messaggio di Cristo, connotato dalla ripetizione del verbo «conoscere» (cf. 13,7.12.28).

[14] Il motivo del tradimento è attestato in Gv 6,70-71; 12,4-6; 17,2.

[15] Commenta Marchadour: «E’ forse voler andar oltre il senso letterale pensare che, nel dubbio circa l’identità del traditore, e dalla scelta di Simon Pietro di passare attraverso di lui per arrivare al Signore, il solo che sia escluso come ipotetico traditore sia il discepolo amato? La vicinanza dice anche un affetto che è contenuto nel nome del discepolo amato» (Marchadour, I personaggi del Vangelo di Giovanni, 164).

[16] Il boccone offerto a Giuda va inteso nel segno dell’amicizia aperta all’ospitalità. Nei banchetti antichi il capo della casa riservava il boccone di pane inzuppato (psomíon) agli ospiti d’onore; cf. Zevini, «Li amò sino al termine estremo» (Gv 13,1), 156.

[17] Annota Schnackenburg: «Per Giuda è la sfera delle tenebre di cui è definitivamente preda, l’ambito in cui avviene il crollo (cf. 11,10); per Gesù è l’ora in cui si conclude la sua attività fra gli uomini (cf. 9,4). La breve frase che conclude l’episodio riassume in sé la tenebrosità di questo avvenimento: una chiusa impressionante (cf. 6,71), che però l’evangelista serve solo da oscuro contrasto su cui far risaltare le successive partole che trattano della glorificazione» (Schnackengurg, Il vangelo secondo Giovanni, III, 62).

[18] Sinodo dei Vescovi, XV Assemblea generale ordinaria, I giovani la fede e il discernimento vocazionale, Documento preparatorio (17.01.2017), III.1.

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