N.05
Settembre/Ottobre 2018

Il profilo dell’accompagnatore oggi

L’“accompagnatore/accompagnatrice spirituale” è una figura ministeriale “di fatto”, significativa nella tradizione della Chiesa, sia in quella di Occidente che di Oriente, seppure con caratteristiche diverse, e ancora oggi abbastanza richiesta a diversi livelli.

Si spera che ormai si dia davvero per scontato che il ruolo di accompagnatore spirituale possa essere ricoperto e portato avanti, in un certo senso, in nome e per conto – espresso o anche inespresso – della comunità ecclesiale. Si spera inoltre che tale delicato compito possa essere assunto sia da un uomo che da una donna, sia da un ministro ordinato che da un laico – coniugato o no – sia da un religioso che da una religiosa. Ciò che conta, infatti, non è lo stato di vita, ma il grado di maturità nella fede e dello spessore di un’esperienza spirituale forte e prolungata della vita interiore, che trasluce da una testimonianza pubblica, coerente col credo professato. Appare necessario, oggi più di prima, indicare la strada del bene, come anche osare proporre mete alte seppure all’insegna di una santità feriale, che siano vissute con una sorta di éros ecclesiale e pastorale, capace di conquistare in ogni epoca, in modo entusiastico, il cuore di tanti contemporanei.

È proprio di chi accompagna, segnalare, poi, anche pericoli e prove cui va incontro ogni battezzato nel suo variegato percorso di fede, che si innesta nella storia: per noi occidentali, in particolare, in un “oggi” molto secolarizzato, prodotto da quella cultura post-moderna che è sostenitrice della radicale debolezza del pensiero. È necessario custodire il legame che si stabilisce tra i due in cammino – accompagnatore e “discepolo” – evitando di cadere nelle maglie di derive moralistiche e/o lassiste. L’incontrarsi può, anzi deve, diventare momento di confronto sincero e – se è il caso – serrato. Ogni appuntamento deve servire, anche, per sviluppare le capacità critiche positive,  da assumere per poi applicarle prima di tutto a se stessi, poi agli altri ed anche ad eventi che bisogna leggere da più prospettive.

Dal punto di vista antropologico, l’accompagnamento assume necessariamente forme e contenuti diversi, perché, essendo “personalizzato”, deve essere contestualizzato, deve seguire le stagioni della vita delle persone, e poi perché il mistero di ogni uomo è unico e irrepetibile, per cui il modo di procedere nei confronti di uno può non risultare adeguato e produttivo verso un altro. A tal proposito, anche le scienze umane hanno oggi molto da dire e da dare ai giovani, anche per ritrovare il gusto della ricerca della Verità, di una partecipazione consapevole e gioiosa, non solo e non tanto per ottemperare ad un “precetto”, scollato dalla vita e formale, che spesso, in passato, ha prodotto la perdita del mordente nello slancio di crescita nella fede. Si tratta, piuttosto, di far maturare il discepolo in ordine all’impulso e all’impegno da profondere nella missione ecclesiale.

È così, per lo più, che colui/colei che sono accompagnati crescono nel senso di appartenenza alla Chiesa che in molti giovani è molto sfumato e debole, in altri – che pure si dichiarano cristiani – addirittura è inesistente.

  1. Spirito Santo e discernimento

Lo Spirito Santo si rende presente, in modo efficace, nell’illuminare la mente e il cuore sia di coloro che accompagnano sia di quelli che scelgono, in piena libertà, di farsi accompagnare, soprattutto quando pongono in essere il delicato processo di discernimento e particolarmente quando l’oggetto è decisivo per la vita di qualcuno. E mentre, in un clima di preghiera, ci si prepara ad intraprendere il sentiero della volontà di Dio, si rende spesso presente anche il Male sotto varie forme di tentazioni e/o diostacoli di varia natura.

Ecco allora la preziosa figura dell’accompagnatore che, con la sua familiarità con la Scrittura e con la sua lunga esperienza di vita spirituale, può individuare l’azione del Nemico e porre in essere iniziative di liberazione per neutralizzarne la presenza e gli effetti.

La Parola, la preghiera, specialmente quella della Chiesa che segue passo passo l’anno liturgico, la celebrazione dei sacramenti alimentano i desideri di chi vuol vivere in intimità con Cristo seguendone i dettami. L’accompagnatore deve seguire con discrezione, a debita distanza, il cammino di chi lo ha scelto come compagno: egli si attiva quando si profila la realizzazione della volontà di Dio, considerati i rischi di deviazioni di diversa natura che possono presentarsi.

Lo Spirito agisce poi nel far fruttare i talenti, attento soprattutto a quelli sotterrati e infruttuosi. È sempre lo Spirito Santo a fare aprire gli occhi dei cristiani, perché vedano in ogni dove le sacche di povertà materiale e/o spirituale e maturino il senso di com-passione che è alla base di ogni condivisione nella carità.

Coloro che si preparano ad essere guide spirituali e a individuare vie verso la maturità, non possono rimanere indifferenti dinanzi ai più emarginati, ai malati, ai carcerati, ai migranti, ai perseguitati, ai barboni, ai raggirati, ai disoccupati, sulla soglia della disperazione …. Chi si lascia plasmare dalla grazia, spesso mediata dal proprio compagno di cammino, impara dall’esperienza stessa che l’amore gratuito donato ha il sapore dell’eterno innestato nel tempo (cf. Mt 25).

Quella del “discernimento” è un’arte e, in quanto tale, si sviluppa nell’arco di tutta l’esistenza: è il caso di scegliere persone sapienti nello Spirito, che con gratuità e generosità, volentieri e con competenza, svolgono questo compito nella Chiesa.

L’adultità delle relazioni – sia orizzontali che verticali – costituisce un buon criterio di verifica ma anche un collante per riassemblare, di tappa in tappa, tutti gli elementi peculiari e i talenti della personalità. Questi devono essere attivati e armonizzati con quanti ricoprono altri spazi di responsabilità e di servizio nel Corpo della Chiesa.

  1. Paternità e maternità della Chiesa nello Spirito

Accompagnare un/una giovane significa monitorarne la crescita, aiutandolo/a a fare esperienze di vita che arricchiscano e facciano sviluppare un equilibrio e una saggezza valida per ogni stagione della vita. Si apprende così, per gradi, l’arte del discernimento in un clima di fiducia e di confidenza, evitando forme di superficialità e di cameratismo.

Così come i genitori non possono e non devono porsi nei confronti dei figli come accompagnatori “alla pari”, così chi svolge il delicato compito di accompagnatore deve trovare la misura e le modalità per essere e per farsi vicino e partecipe, senza oltrepassare quel limite invisibile, ma necessario ai fini di una reciprocità discreta e feconda.

Si tratta di esercitare un ruolo, che si rivela, nel tempo, un ministero “di fatto” importante nella comunità cristiana. L’antico adagio dei padri “non si può avere Dio per padre se non si ha la Chiesa per madre”, oggi manifesta una straordinaria attualità. Molti sono i giovani che sono propensi al voler trovare un rapporto autentico con Dio, ma non nella e con la Chiesa per varie ragioni, non ultimi quei recenti scandali, specie quelli relativi alla pedofilia. Occorre una paternità e/o maternità generosa e gratuita, capace di aiutare chi è più giovane a una disciplina affettiva e/o intellettuale, a una autonomia nelle scelte, in base ad un responsabile uso di una “coscienza” illuminata dal Vangelo. La Chiesa, riconoscendo il valore dell’“accompagnamento spirituale”, addita, tra l’altro, l’importante spessore pedagogico e ministeriale dei padrini e delle madrine nella celebrazione del Battesimo e in quella della Confermazione. Ai battezzati si consiglia di non avventurarsi da soli sul sentiero della vita e, più specificatamente, nel cammino spirituale. La “madre Chiesa” guida il suo Popolo, segnalando il ministero dell’accompagnatore spirituale, manifesta l’instancabile e generoso impegno nella generatività della Chiesa, in vista della salvezza in Cristo e per Cristo Figlio, primogenito tra molti fratelli.

  1. Un “guaritore ferito”

Il titolo di questo paragrafo richiama uno scritto molto conosciuto di Nowen “Il guaritore ferito”, per additare un presupposto irrinunciabile da parte dell’“accompagnatore spirituale”. Ogni persona, infatti, che vuol farsi compagna di cammino di un’altra, deve mantenere viva la coscienza della sua fragilità personale, come anche di quella debolezza costitutiva, che è la concupiscenza ereditata insieme al peccato. Dunque entrambi devono vivere –  accompagnatore e discepolo – consapevolmente ogni giorno un dinamismo di conversione, di autentico cambiamento, nel rispetto delle differenti identità e dei diversi ruoli. La cicatrice può sempre essere sul punto di sanguinare ancora. Come scrive A. Louf, tale ferita costituisce un ricordo esistenziale di quella “beata debolezza” che connota ogni uomo, specie nelle sue zone d’ombra. Pertanto l’unica cosa da fare è consegnare la vita propria nelle mani misericordiose del Cristo e nudi, senza vergogna, presentarsi dinanzi a Dio. Tale presupposto psico-spirituale fa sì che un accompagnatore non possa mai fariseisticamente sentirsi “a posto” e, perciò, in qualche modo, superiore ad altri, né condire con bugie la sua relazione con la guida, peraltro scelta da lui/lei.

Egli con umiltà deve saper ascoltare i limiti e le debolezze del giovane accompagnato senza mostrare meraviglia e/o disapprovazione o giudizio. La sua personale esperienza dovrà fare sempre i conti con la memoria sempre viva della sua radicale peccabilità (cf. Rm 7,15-16) che può essere lavata, da chi lo voglia sinceramente, nel sangue dell’Agnello e divenire candida.

L’accompagnatore deve essere pronto a donare una “tunica di pelle” per ricoprire il giovane di dignità, esercitando verso di lui quella misericordia e benevolenza, analoghe a quelle mostrate da Dio dopo il peccato originale e che ci ha mostrato, nella gamma infinita di modalità il Gesù di Nazareth con la sua ricca umanità. La figura dell’accompagnatore, in genere, non coincide con quella del confessore: sono diverse le funzioni e l’una inevitabilmente rimanda all’altra. Il discepolo, comunque, ha bisogno di trovare un clima di rispetto, di accoglienza, e di confidenza gioiosa, che gli permetta di parlare con libertà e senza veli, per poter ricevere l’aiuto adeguato. Quella ferita aperta, che il guaritore non nasconde, diventa una feritoia: è la porta attraverso cui la fragilità di chi è accompagnato assume la forma della condivisione e dell’attesa comune di una grazia santificante che sblocchi varie situazioni ingessate e rilanci ambedue verso la santità nella carità.Il sacramento della confessione costituisce, comunque e sempre, un importante appuntamento per ricevere nuove energie spirituali, ed essere sospinti ad una maggiore intimità con Cristo e ad una migliore conformazione al Dio Crocifisso, per l’azione dello Spirito Santo

5. Limite, debolezza, fragilità dell’uomo di oggi

 Il contrassegno dell’appartenenza piena all’oggi della storia delle nuove generazioni, è quello di una fragilità che è sì legata al limite creaturale e all’esperienza del peccato, ma anche ad una incapacità radicale di costruire il futuro, collaborando con i propri simili e aprendo cuore e mente a Dio e all’ispirazione dello Spirito. Sembra quasi di sentire la voce dell’Apostolo quando esclama, anche per dare coraggio, «È quando sono debole che sono forte».

Una debolezza invincibile sembra connotare la maggioranza dei giovani che vivono in un Occidente stanco e disilluso. Migliaia di giovani vivono con fatica nel cuore di questa stagione della post-modernità che si sta protraendo nel tempo molto più di quanto i sociologi avevano preconizzato. Si è aggiunto, poi, il peso della crisi economica che mina alle radici lo sperato sviluppo e tocca anch’essa le corde più profonde della cultura e della politica. In quest’oggi travagliato a causa del macrofenomeno delle migrazioni, dei focolai di guerra ancora accesi in varie parti del mondo, della difficile pace tra i popoli, della iniqua distribuzione dei beni a livello mondiale, dei problemi dell’ambiente, proprio in questo nostro “oggi”, urge re-innestare il kerigma. In tutta la Chiesa è necessario uno sforzo nello scegliere in mezzo al clero i migliori, promuovendone la specifica competenza perché sappiano offrire un servizio qualificato per accompagnare i giovani e le giovani, uno che abbia una formazione di grande spessore umano e spirituale.

La preghiera, in tutte le sue forme, rimane, comunque, il pilastro su cui poggia l’intera comunità ecclesiale. È lasciando fluire nell’interiorità la voce dello Spirito, che i battezzati riscoprono “l’ospite dolce dell’anima”. Egli prega dalle profondità dell’essere umano per conquistare uno spazio e un tempo, per additare dall’interno quali siano le tappe e le mete della vita spirituale e come vivere nella serenità di chi confida nel Dio-Provvidenza. Occorre testimoniare, in altre parole, cosa comporta l’essere innestati vitalmente in comunità che “insieme” credono che, come osserva il salmista con gioia, che “tiene i cardini del mondo” e non abbandona l’umanità ad una sorte oscura e distruttiva: se così non fosse, l’incarnazione, la morte e soprattutto la Resurrezione di Cristo, sarebbero del tutto inadeguati rispetto alla promessa messianica e all’alleanza nuova e completamente inefficaci rispetto alla salvezza finale: e così non è.

È a partire dalla Resurrezione di Cristo che si crea una spiritualità cristocentrica, ricca di umano e di divino, nel modo in cui Gesù di Nazareth ha vissuto la sua parabola terrena.

La familiarità con i 4 Vangeli diventa dunque la fonte sempre zampillante della conoscenza non solo di Cristo, ma anche della SS. Trinità. Comprendere quale possa essere la volontà di Dio nella vita di ciascuno, non significa affatto agire e pensare in maniera deterministica. Nulla vi è di più bello che sentirsi liberi e da liberi fare scelte di qualità, confrontandosi con chi si è scelto come compagno di cammino.

È nella preghiera comune della Chiesa – quella liturgica e quella vicendevole – che si realizza quell’alleanza terapeutica tra l’accompagnatore e l’accompagnato che li fa sentire dalla stessa parte, mantenendo comunque una posizione di scambio costruttivo: uno di fronte all’altro.

Insieme i due di Emmaus avvertono una forza inedita che coesiste con la fragilità di ambedue che diventa, misteriosamente, una forza nella testimonianza ai più lontani.

Ecco, a tal proposito, le parole del teologo Coda:

La fragilità può diventare addirittura una qualità positiva perché dice che uno è capace di condivisione e di lasciare modificare. Dice anzi che non è insensibile ma vulnerabile, cioè disposto a lasciarsi ferire (P. Coda, «Il segreto della fragilità», B. Salvarani, Dehoniane, Bologna 2017, 43-52).

Ecco perché il nostro Dio si è fatto “fragilità incarnata” in Cristo Gesù, avendo scelto Egli stesso la via della fragilità nella forma di un bimbo inerme e di un innocente, ingiustamente condannato e ucciso nella maniera più umiliante.

  1. L’annoso problema: formare permanentemente i formatori

Il talento dell’essere chiamati a formare altri si evidenzia nel tempo in maniera quasi naturale, quando si vive in una comunità – sia essa parrocchiale come pure se aggregazione laicale – dove altri facilmente possano accorgersi di una propensione all’ascolto, serena e non giudicante, in un clima gioioso di accoglienza, di una profonda familiarità e sintonia con la Parola di Dio, della capacità di lettura sempre attuale dei “segni dei tempi”, di una sostanziale sintonia col magistero della Chiesa e, infine, di uno spirito di servizio umile, discreto ed efficace perché attivo nei casi in cui il giovane in formazione avverta e comunichi il bisogno, talvolta l’urgenza di un confronto o di un conforto in un processo serio di discernimento, da cui deriva sovente qualche scelta definitiva per la vita.

Il Papa Francesco nell’Amoris laetitia, nelle righe dedicate alla coscienza raccomanda tra l’altro ai confratelli sacerdoti di illuminare le “coscienze” dei fedeli non di sostituirsi ad esse. Quanto lavoro e di quanto rispetto della personalità con le sue connotazioni individuali, positive, ci sarebbe bisogno! È necessario che i fedeli prendano sempre più atto di essere stati, sovente, lasciati a se stessi, ai margini della comunità, quasi sempre interpellati a dire la propria, in genere, su cose per cui non valga la pena neppure di convocare un organismo di consultazione.

Lo sfondo ecclesiologico-formativo non può non essere che il modello di una Chiesa che cammina già, ma intende vivere meglio la “dimensione sinodale”, sia sul piano spirituale che su quello progettuale-pratico-organizzativo.

L’assumere il modello sinodale esclude che una Chiesa si conceda salti in avanti per l’impazienza nel non sapere attendere i membri lenti, malati o troppo piccoli. Né è opportuno nemmeno frenare improvvisamente rischiando di rallentare o bloccare il cammino spedito di altri.

È sotto gli occhi di tutti – specialmente in questo momento storico – come la spinta pastorale dell’attuale Pontefice sia proprio quella di varare, a tutti i livelli, una sinodalità sostanziale, che costituisca la base su cui lavorare “insieme”, rispettando la libertà di ciascuno e della comunità nel suo insieme, ma al tempo stesso, poter giungere non solo ad affermazioni di carattere meramente dottrinale, ma anche sapersi calare sul piano della sperimentazione pastorale. Si tratta di un atterraggio che crei continuamente un movimento comunitario, visibile o no, innestato nella attualità della storia, lasciando trasparire il ruolo unico e insostituibile dello Spirito Santo. È infatti la terza Persona della Trinità santissima che fila e intesse continuamente la Grazia divina, la libertà creativa della Chiesa e gli eventi della storia attuale.

Il sinodo sui giovani, indetto da Papa Francesco per il prossimo ottobre 2018, va letto e interpretato con uno speciale interesse di tutta la Chiesa a svegliare le coscienze dei vescovi come anche dei formatori – genitori, catechisti, leaders di aggregazioni laicali, animatori liturgici delle diverse comunità, membri degli organismi sinodali, servitori della Parola. Senza ulteriori indugi, trovino le modalità pastorali e i tempi opportuni per avviare una seria, comune opzione per destinare a quanti sono chiamati a lavorare con i giovani e per i giovani, a progettare e a seguire e realizzare seriamente le linee e le tappe della formazione.

Tali scelte coraggiose e corrispondenti alle istanze dei contemporanei si attende il Popolo di Dio, dal prossimo sinodo in cui i giovani saranno sia oggetto che soggetto pastorale.

Prendersi seriamente cura delle giovani generazioni, significa assicurare alla Chiesa un futuro più sereno e più aperto alla sperimentazione e realizzazione di progetti formativi pensati o messi in opera da gruppi di lavoro informali ma con competenze differenti: teologico-morale, storico-liturgico, pastorale-spirituale, filosofico-pedagogico, psicologico-relazionale, comunicativo-affettivo.

  1. Attenzione ai “falsi accompagnatori”

Accompagnatori e accompagnatrici secondo lo Spirito non ci si improvvisa ma, ognuno con la propria storia, la propria cultura, le proprie aspirazioni che abbia avvertito dentro di sé l’incontro trasformante sia pronto a servire le giovani generazioni. E che l’incontro c’è stato lo dice l’ardore del cuore di “rimanere” maggiormente vicino al Signore per amarlo sempre più e il desiderio di una santità che si apre nella quotidianità al dolore e al bisogno non solo materiale di ogni altro.

Ogni uomo è mistero aperto al trascendente, nella libertà e secondo i talenti ricevuti. All’accompagnatore spirituale è chiesto – come a Mosè dinanzi al roveto ardente – di togliersi i calzari dai piedi e contemplare in un silenzio adorante l’opera di Dio nella vita delle persone che hanno scelto di essere guide spirituali.

L’accompagnatore deve solo attaccare e ri-attaccare i fili del dialogo tra il credente e Dio Unitrino e poi scomparire. Chi accompagna deve mostrare di essere un semplice strumento nelle mani di Dio.

È necessario vegliare per non cadere nella tentazione di spadroneggiare sulle persone, si assumere il tono di chi possiede la Verità e ne è orgoglioso.

Anche i gruppi devono essere preparati, con colloqui personali, alla dinamica e alla vita gioiosa di una ricerca di Dio, che permetta dinanzi al salto dalla filosofia alla risposta della e nella fede, con l’aiuto della grazia e nel rispetto della libertà.

L’accompagnatore non può e non deve decidere al posto del fedele che a lui si è consegnato senza riserve. Dopo i confronti e i dialoghi serrati chi si lascia accompagnare deve crescere in responsabilità ed assumersi tutte le conseguenze delle sue scelte, nel bene e nel male.

E infine guai a quegli accompagnatori alla ricerca di persone fragili, nei confronti delle quali si opera, talvolta male, facendo di esse gradini per acquisire più meriti e, approfittandone, facendone oggetto di potere e cercando per sé lodi che gonfiano la vanità e costruiscono un falso “io”, narcisista.

È auspicabile che l’accompagnatore conosca la famiglia del suo giovane “accompagnato” e, più in generale, l’ambiente di provenienza e il contesto attuale per capire le dinamiche relazionali.

Riuscire a far penetrare l’ottica e la logica evangelica in una persona è garanzia che il fedele è disponibile ad allontanare gradualmente la logica e lo stile di vita mondani, assumendo lo stile delle beatitudini suggerito dall’accompagnatore. È necessario fare periodicamente delle verifiche autentiche per vedere con gli occhi della fede il dinamismo del cambiamento, se pure in salita, ed esser certi che anche la guida sta compiendo un percorso di luce. Mai si può abbassare la guardia contro il nemico che sospinge il fedele verso altra meta e altri traguardi, deviando pericolosamente il percorso del credente in cammino. E dalla Chiesa si alzi un monito: “Guai ai falsi accompagnatori”!