E’ il Signore (Gv 21,1-25) Il discepolo amato e la testimonianza che resta
La quinta e ultima tappa del nostro itinerario giovanneo ci porta sulle rive del lago di Genezaret, nel periodo successivo alla settimana pasquale degli avvenimenti pasquali. La nostra attenzione si ferma su Gv 21,1-25, ritenuto un «prezioso supplemento» del quarto Vangelo[1]. Come il solenne prologo inaugura il racconto giovanneo (1,1-18) così l’appendice di Gv 21 conclude la narrazione e allo stesso tempo introduce la missione post-pasquale della comunità ecclesiale. In quest’ultimo capitolo spicca con maggiore evidenza la figura del «discepolo amato» e il suo ruolo testimoniale dopo la risurrezione di Cristo. Lo scenario che caratterizza questo capitolo è il lago di Galilea, luogo geografico e insieme teologico, da cui ha avuto inizio la predicazione del Signore e la chiamata dei primi discepoli nei racconti sinottici (cf. Mc 1,16-20). La dimensione vocazionale si coniuga con quella testimoniale, ponendo in evidenza Simon Pietro e il «discepolo amato» come due figure principali della tradizione ecclesiale delle origini.
Ricominciare
Il capitolo 21 è composto di due unità caratterizzate dal racconto del pasto sulla riva del lago e dal successivo dialogo con Simon Pietro[2]. In queste due scene si riprendono alcuni temi fondamentali della predicazione di Gesù. La prima scena mostra i discepoli nella loro missione, con la presenza del Signore in mezzo a loro, e culmina nell’Eucaristia (vv. 1-14). La seconda scena riabilita Pietro e il suo ministero pastorale, fondato sull’amore e sulla sequela (vv. 15-19), armonizzandolo con il ruolo del discepolo amato, testimone dell’amore (vv. 20-23). La finale (vv. 24-25) riprende Gv 20,30-31 e identifica il discepolo amato con l’autore del Vangelo[3]. L’intenzionalità teologica e spirituale dei due racconti va compresa nell’orizzonte della comunità giovannea, chiamata a declinare il messaggio evangelico nelle nuove frontiere dell’evangelizzazione.
- Infruttuosità
L’appendice del Vangelo giovanneo si apre con il motivo della pesca infruttuosa nello scenario del lago di Tiberiade (Gv 21,1; cf. Lc 5,1-11) affermando che Gesù risorto «si manifestò» ai suoi discepoli[4]. I commentatori hanno interpretato questa singolare scena, densa di simbolismi, come una delle più suggestive rivelazioni cristologiche del Vangelo[5]. Gesù si rivela come Signore risorto, che accompagna la prima comunità nella faticosa «pesca», le dà coraggio, apre prospettive feconde di evangelizzazione e la unifica mediante il pasto eucaristico. Il racconto si apre nel segno di una pesca infruttuosa, sterile, deludente. Anche dopo la Pasqua i discepoli sperimentano le difficoltà del quotidiano e devono imparare il coraggio di ascoltare e di riconoscere il Cristo in ogni situazione della vita. In primo piano si colloca la figura di Simone Pietro e il suo coraggio di ricominciare con la forza dello Spirito ricevuto nel Cenacolo (Gv 20,19-23). Egli prende l’iniziativa di andare a pescare (21,3) e coinvolge i suoi compagni nel lavoro notturno, che però non porta frutto (cf. Lc 5,5: «abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla»). Mentre sta sorgendo l’alba, che segna il limite tra la notte e il giorno, Gesù si fa presente (il verbo indica «stare in piedi»; cf. Gv 20,19.26) sul litorale del lago e rivolge loro la parola: ««Figlioli, non avete nulla da mangiare?» (v. 5). Alla risposta negativa dei discepoli, che non ancora conoscono l’identità dell’interlocutore, il Risorto suggerisce: ««Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete» (v. 6). I sette discepoli ascoltano, eseguono il comando e rivivono la prima obbedienza vocazionale di Pietro (cf. Lc 5,5). Quell’ obbedienza porta un frutto straordinario, impensabile. L’evangelista descrive l’incapacità dei pescatori di tirare su la rete per la grande quantità di pesci che erano stati presi. Infruttuosità, sterilità, incapacità segnano i limiti dell’esperienza umana dei discepoli, confermando che quello che sta accadendo non dipende dalle loro possibilità ma dalla potenza operante del Cristo risorto.
- E’ il Signore!
Possiamo immaginare cosa dev’essere balenato nel cuore del gruppo di pescatori nell’ammirare l’abbondanza del loro lavoro al sorgere del nuovo giorno. Lo stupore interiore trova risposta nell’esclamazione del «discepolo che Gesù amava», il quale dice a Pietro: «E’ il Signore» (v. 7). E’ il punto di arrivo del cammino della fede pasquale. Quel «discepolo amato» che ha appoggiato amabilmente il suo capo sul petto di Gesù (Gv 13,25) e, qualche ora dopo, l’ha visto illividire sulla croce con il cuore trafitto dalla lancia (19,25-37), è lo stesso discepolo che nel sepolcro vuoto «vide e credette» (20,8) e che nel nostro racconto diventa il primo testimone della «presenza» del Risorto nel quotidiano impegno della comunità cristiana. Nella dinamica del dono inatteso, il discepolo amato annuncia la presenza del «donatore» che attende di incontrare i suoi amici. Il Signore non li abbandona nella sterilità. Egli si rivolge a Simon Pietro e gli affida una testimonianza che sgorga dal suo cuore «contemplativo». Il narratore pone in evidenza le due figure principali: il giovane contemplativo che dà testimonianza e l’adulto che ascolta e risponde con il coinvolgimento della sua vita. Alla testimonianza del discepolo amato risponde prontamente l’azione di Simon Pietro che «si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare» (v. 7), mentre gli altri discepoli vennero con la barca trascinando la rete piena di pesci (v. 8).
- Venite a mangiare
La narrazione culmina nel doppio invito del Risorto: prendere un po’ del pesce pescato e partecipare al pasto preparato da Gesù e condiviso sul litorale (vv. 10-11). Unitamente alla figura del discepolo amato, spicca il ruolo di «Simon Pietro»: egli ha voluto raggiungere il Cristo a nuoto, gettandosi in acqua e ora sale sulla barca e «da solo» trae a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. Annota l’evangelista: «E benché fossero tanti, la rete non si squarciò» (v. 11). La scena è densa di simbolismi che hanno dato adito a numerose ipotesi interpretative [6]. Occorre notare la «compresenza» di due diversi cibi che compongono il pasto sulla riva: il cibo preparato dal Risorto e il pesce appena pescato, offerto da Pietro (cf. lo stesso schema narrativo è attestato in Gv 6)[7]. Con un pranzo nuziale Gesù manifesta la sua gloria e dà inizio ai segni miracolosi (Gv 2,11) e con un pasto finale il Signore chiude la rivelazione pasquale, donando ai suoi discepoli l’ultimo segno[8].
Tra i motivi emergenti dal racconto va annoverato il profondo messaggio eucaristico, nel quale culmina il cammino di fede nel Signore che si manifesta ai suoi discepoli[9]. La condivisione del cibo porta a compimento la testimonianza pasquale della presenza del Risorto nella comunità[10]. Pietro e il «discepolo amato» svolgono un ruolo complementare e rappresentativo della Chiesa delle origini. La pesca incarna il simbolo dell’evangelizzazione, mentre i discepoli nella barca rappresentano i credenti che condividono le fatiche e le speranze della missione salvifica rivolta a «tutti i popoli»[11]. La pericope si conclude con la chiara consapevolezza che Cristo risorto si stava rivelando al loro cospetto (v. 13) ed era già la terza volta che questo accadeva (v. 14). Le peculiarità di tale scena consta della prefigurazione eucaristica, che sigilla la presenza del Risorto nella vita e nella missione della Chiesa[12].
Mi ami di più?
- Il momento della verità
Dalla pesca e dalla successiva scena eucaristica, l’evangelista inserisce un secondo episodio centrato sul dialogo personalissimo tra Gesù e Simon Pietro (vv. 15-19). L’episodio ha come finalità narrativa la riabilitazione della figura petrina, dopo l’esperienza del rinnegamento (Gv 18,15-18.25-27). Anche in quel contesto era presente il «discepolo amato», che aveva aiutato Simone ad entrare nel cortile del sommo sacerdote (18,15-16). Ora però il discepolo amato rimane sullo sfondo del racconto e l’attenzione si concentra sul dialogo struggente tra il Risorto e Simon Pietro. E’ il Signore che lo «chiama» a rispondere al suo amore senza ritardi[13].
Nel racconto della passione Simon Pietro si era già tirato indietro durante la lavanda dei piedi (Gv 13,8), come nel contesto dell’arresto egli aveva rinnegato il suo maestro. Ora è arrivato il momento della verità, la domanda centrale della sua vocazione e missione: «mi ami tu più di costoro?»[14].
- Amare e voler bene
Alle tre domande di Gesù seguono tre risposte di Simon Pietro, il quale viene confermato nella sua missione pastorale. La domanda verte sull’amore (agápē) e la risposta contiene un impegno non ancora pieno (philéō: «voler bene»). Alcuni studiosi fanno notare la funzione dialettica dell’intreccio tra due verbi: per due volte Gesù domanda un amore con il verbo agapáō (= amare in modo oblativo) e Simon Pietro dà il suo assenso di sola amicizia, mediante il verbo philéō (= amare in modo amichevole). In realtà Gesù chiede a Pietro un amore totale, il dono intero della vita. Nel suo sguardo c’è tutta l’attesa di una nuova esistenza che diventa testimonianza di amore infinito. Nella terza volta è Gesù a utilizzare per prima il verbo philéō e la risposta di Simon Pietro, amareggiato dalla terza insistente richiesta, è insieme riconoscimento della propria debolezza e desiderio di un «si» pieno. La pienezza dell’amore di Cristo riempie anche la debolezza del fragile «voler bene» di Pietro. Amare è dare la vita (Gv 15,13) e vivere fino in fondo la propria vocazione, che è il frutto dell’elezione di Dio (15,16).
- Seguimi
La metafora del pastore e del gregge già annunciata in Gv 10,1-17 e ripresa nella passione (cf. Mt 26,31; Gv 13,36) ora viene applicata a Pietro. Egli deve pascere il gregge senza paura di donare se stesso a Dio e ai fratelli. Il suo passato è completamente perdonato: dall’evento della risurrezione inizia una nuova esistenza, segnata dal passaggio dalla morte alla vita. Gesù rivela al suo discepolo come dovrà donare la sua vita: lasciandosi guidare dalla volontà di Dio ed imitando «fino alla fine» (Gv 13,1) il suo Signore. Il Risorto chiede a Simon Pietro di essere servo di tutti, fino al giorno in cui «altri lo condurranno dove lui non vuole» per rendere gloria a Dio nel martirio. In tal modo Gesù annuncia a Pietro il suo destino, assicurandogli il sostegno. Il «Seguimi» finale sigilla la conferma di una vocazione che ricomincia dalle rive dello stesso lago che lo aveva visto iniziare la sequela!
- Il discepolo che rimane
I vv. 20-23 ritraggono la figura di Simon Pietro in relazione a quella del «discepolo che Gesù amava». Il riferimento al ricordo della cena e al gesto del capo chinato sul petto (v. 20) permette di collegare il racconto della passione all’esperienza della Chiesa post-pasquale. Il «discepolo che rimane» rappresenta il modello della fede e dell’attesa della venuta del Risorto. Egli rimane non come personaggio storico, ma come figura esemplare e attuale, che testimonia la fede autentica, ricca di speranza e carica di attese. Dopo il martirio di Pietro, la comunità giovannea mantiene la memoria del discepolo amato e soprattutto ne valorizza la sua testimonianza, precisando il senso del suo destino (v. 23).
Testimoni…fino alla fine
I vv. 24-25 chiudono il capitolo con il motivo della «testimonianza» (martyría). Il discepolo che Gesù amava è presentato come il garante dell’autentica testimonianza del Vangelo. Si tratta di una figura che fa da ponte tra la storia di Gesù e il cammino della prima Chiesa che vive l’uscita da se stessa e la missione universale. La sua attualità oggi interpella le nostre comunità[15]. Si possono evidenziare tre aspetti conclusivi che riassumono l’intero percorso proposto sulla figura giovanile del «discepolo amato».
- Il giovane e il discernimento vocazionale
La parabola narrativa del discepolo amato va dall’iniziale incontro vocazionale alla testimonianza di fede in Cristo crocifisso e risorto. L’esperienza del giovane consiste nel seguire Gesù, aprire un dialogo con lui, fare tesoro della «sua dimora» e decidere di lasciare tutto per avventurarsi con Cristo sulle strade dell’evangelizzazione fino al compimento del progetto di Dio nella Pasqua. L’approfondimento de testi biblici evidenzia un cammino pedagogico che sostiene il processo di maturazione di fede dei giovani e del discernimento vocazionale. Alla luce dei segni compiuti da Gesù e soprattutto degli insegnamenti ricevuti, il giovane discepolo interiorizza non solo il contenuto del messaggio rivelato, ma impara a condividere l’amicizia profonda con Cristo e il suo stile oblativo, che lo porta a scoprire il suo progetto di amore.
- Il giovane e la condivisione della fede
Il percorso interiore del giovane discepolo è centrato sulla progressiva rivelazione del Figlio e sulla scoperta del volto amorevole e misericordioso di Cristo. Uno dei temi nodali del Quarto Vangelo è rappresentato dal processo dinamico del credere. La fede autoreferenziale e precettistica è incarnata da quel gruppo di Giudei che si oppone a Cristo e alla missione di salvezza (cf. Gv 5,10-18; 8,12-50). Rifuggendo ogni forma di chiusura e di rigidità, il giovane si apre all’ascolto della Parola nella consapevolezza che solo l’amore di Cristo può trasformare il cuore umano e guarirlo dal di dentro. In tale prospettiva si coglie l’importanza della trasmissione della fede, che deve coinvolgere l’intera comunità cristiana.
- Il giovane e la testimonianza di una nuova vita
Un ultimo aspetto emergente dalla lettura evangelica è costituito dal ruolo della testimonianza, svolto all’inizio da Giovanni Battista (Gv 1,7.15) e al termine del racconto dal «discepolo che Gesù amava» (21,24). Egli attesta la verità di quanto ha visto e sperimentato, affidando ai lettori l’impegno di interiorizzare e condividere la stessa missione che conduce a una nuova vita[16]. Simon Pietro, i discepoli e tutti i personaggi che abbiamo incontrato nel racconto evangelico sono coinvolti nel dinamismo spirituale che rinnova l’esistenza di ogni uomo. Tale dinamismo implica l’accoglienza della fede pasquale e il discernimento vocazionale.
Conclusione
Si diventa testimoni solo se si vive in pienezza questo incontro con Cristo. La consegna che ci viene dall’esempio del «discepolo amato» non consiste in un messaggio teorico o consolatorio, ma in un’esperienza viva e attuale. Essa interpella ogni singolo battezzato e l’intera comunità ecclesiale, soprattutto in questo tempo in cui si fa urgente una «nuova» proposta generativa del Vangelo. In una Chiesa che diventa per ogni giovane sempre di più «luogo di comunione e di missione», è necessario far germogliare un’autentica «cultura vocazionale» che favorisca il discernimento e l’accompagnamento di ogni persona che cerca Dio e si apre alla sua Parola di salvezza. Annota a proposito l’Instrumentm Laboris del Sinodo:
«Non è poi possibile intendere in pienezza il significato della vocazione battesimale se non si considera che essa è intrinsecamente connessa alla missionarietà della Chiesa, che ha come finalità fondamentale la comunione con Dio e tra tutte le persone. Le diverse vocazioni ecclesiali sono, infatti, espressioni molteplici e articolate attraverso cui essa realizza la sua chiamata a essere segno reale del Vangelo accolto in una comunità fraterna. La pluralità delle forme di sequela di Cristo articolano, ciascuna a modo proprio, la missione di testimoniare l’evento di Gesù, nel quale ogni uomo e ogni donna trovano la salvezza»[17].
[1] Quest’ultimo capitolo del Vangelo giovanneo (Gv 21) fu probabilmente aggiunto dopo la morte del «discepolo amato». Secondo diversi commentatori il quarto Vangelo ha conosciuto una doppia edizione nel giro di pochi anni. In un primo momento è circolata un’edizione più breve durante la vita del testimone Giovanni. Dopo la sua morte il racconto è stato ampliato, con l’aggiunta di altri elementi della sua testimonianza divenuti particolarmente importanti per la comunità, rimasta orfana della figura che l’aveva generata. A ben vedere, molte tematiche che caratterizzano la narrazione giovannea sono riprese in Gv 21 secondo prospettive parzialmente nuove. La ragione è data dalle mutate circostanze in cui si è trovata la comunità verso la fine del I secolo d.C.; cf. R. E. Brown, Giovanni, Cittadella, Assisi 1979, 1341-1434; R. Fabris, Giovanni, Borla, Roma 2002, 1045-1065.
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[2] Circa le problematiche letterarie delle fonti di Gv 21, cf. Brown, Giovanni, 1367-1371.
[3] Cf. G. Segalla, Il «discepolo che Gesù amava» e la tradizione giovannea, «Teologia» XIV (1989) 217-244; V. Mannucci, Giovanni. Il vangelo narrante, Dehoniane, Bologna 1997, 229-232.
[4] Il verbo phaneoô (= manifestare) fa da cornice all’intera pericope (cf. vv. 1.14).
[5] Tra i veri simboli segnaliamo: il gruppo di sette discepoli, l’azione del pescare, la barca, il mare, la rete, il pane, il pesce, il pasto; cf. M. Marcheselli, I pasti di Giovanni luoghi di rivelazione: il messia a Cana e il risorto sul lago, «Parola Spirito e Vita» 1 (2006) 133-148; Id., «Avete qualcosa da mangiare». Un pasto, la comunità, il Risorto, EDB, Bologna 2006.
[6] Cf. Brown, Giovanni, 1355-1359; 1369-1371; R. Schnackenburg, Il vangelo secondo Giovanni, III, Paideia, Brescia 1981, 597-598; Marcheselli, I pasti di Giovanni luoghi di rivelazione: il messia a Cana e il risorto sul lago, 136-138.
[7] Cf. Marcheselli, I pasti di Giovanni luoghi di rivelazione: il messia a Cana e il risorto sul lago, 138-143.
[8] Ibidem, 146-147.
[9] «La testimonianza del discepolo amato (v. 7a) per quanto chiaramente recepita dal gruppo, non basta da sola: perché il riconoscimento di Gesù Signore sia completo (v. 13) resa ancora un tratto da percorrere nell’itinerario del gruppo in quanto tale» (Marcheselli, 139).
[10] Un analogo motivo della presenza del Risorto e del cibo da condividere è attestato in Lc 24, 36-49.
[11] E’ questo uno dei significati da conferire al simbolismo numerico dei pesci.
[12] Cfr. X. Léon Dufour, Lettura dell’Evangelo secondo Giovanni, I, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1990, 331.
[13] Cf. E. Bianchi, Il ritorno di Pietro, «Parola Spirito e Vita» 2 (1990) 195-197.
[14] La domanda «mi ami tu più di costoro» (v. 15: agapâs me pléon toúton) grammaticalmente può essere intesa in tre sensi: al neutro, con valore dimostrativo («mi ami più di queste cose?»); al maschile, con valore soggettivo («mi ami più di quanto tu ami i discepoli»); al maschile, con valore soggettivo («mi ami più di quanto questi discepoli mi amano?»).
[15] Cf. SINODO DEI VESCOVI – XV ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA, I giovani la fede e il discernimento vocazionale, Instrumentum laboris (15.06.2018), nn. 175-177.
[16] Ibidem, n. 80.
[17] Ibidem, n. 97.